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Un nuovo ponte transatlantico? Europa e Stati Uniti dopo la rielezione di Obama

Creato il 02 maggio 2013 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Davide Borsani

Quest’articolo fa parte degli approfondimenti di BloGlobal per il Festival d’Europa 2013

Un nuovo ponte transatlantico? Europa e Stati Uniti dopo la rielezione di Obama
Per tutta la durata della Guerra Fredda, l’Europa giocò l’importante ruolo di principale alleato strategico degli Stati Uniti. Caduto il Muro di Berlino, l’asse transatlantico perse tali connotati per essere investito del ruolo di perno economico di un ordine liberale in estensione globale. Nel XXI secolo l’Europa è però progressivamente diventata sia strategicamente sia economicamente tanto un partner ed alleato quanto una sfida per gli Stati Uniti [1]. Se la crisi sull’Iraq del 2003 ha mostrato crepe strategiche non certo irrilevanti, quella finanziaria del 2007 – con le sue conseguenze – ha ulteriormente indebolito i rapporti, ponendo in potenza su due sentieri autonomi le due sponde dell’Atlantico. Oggi l’amministrazione Obama, dopo la “benevola disattenzione” del primo mandato, ha iniziato il secondo quadriennio proponendo all’Europa di siglare un «nuovo patto transatlantico» [2].

L’elezione di Barack Obama alla Casa Bianca nel 2008 suscitò grandi aspettative nell’opinione pubblica e negli establishment europei. Se la popolarità del predecessore, George W. Bush, al momento della chiamata alle urne si attestava al 19%, quella di Obama al momento del giuramento era superiore di quasi sessanta punti percentuali (77%) [3]. Eppure, il nuovo Presidente non contraccambiò tale ammirazione, negando anzi al Vecchio Continente la propria leadership e settando le priorità del suo mandato su questioni interne, a cominciare dal risollevamento di un’economia in pericoloso dissesto, sul riavvicinamento al mondo musulmano e sul celebre pivot Asia. L’Europa, in breve, avrebbe dovuto badare a se stessa. Nemmeno l’estensione all’Eurozona della crisi finanziaria causò una revisione di tale direttrice. Solo nel 2011 Washington prese coscienza della reale posta in gioco, che coinvolgeva ormai l’economia globale, e decise quindi di prendere contatto, nelle parole del portavoce della Casa Bianca Jay Carney, «a livello presidenziale e ministeriale per sollecitare un’azione vigorosa» dell’Unione Europea [4]. Che la “benevola disattenzione” non fosse solo a livello economico ma anche strategico, fu chiaro nello stesso 2011 in occasione della guerra in Libia. Fu responsabilità degli Europei portare a conclusione l’operazione NATO Unified Protector e guidare “dall’alto” la rivolta libica, mentre gli Stati Uniti – non riconoscendo vi fossero propri interessi vitali in gioco – si limitarono ad una funzione di sostegno logistico, che comunque si rivelò quanto mai necessaria per l’esito della campagna.

Nonostante l’indebolimento dei rapporti, il sostegno dell’opinione pubblica europea ad Obama al momento delle recenti elezioni presidenziali restava saldo. Da un lato, l’approvazione europea della gestione degli affari internazionali da parte statunitense era calata dal 2009 al 2012 di una dozzina di punti percentuali (da 83% a 71%). Dall’altro, però, ben il 75% degli Europei avrebbe votato per la rielezione di Obama, rispetto all’8% che sosteneva l’alternativa, il candidato repubblicano Mitt Romney [5]. Il secondo giuramento è giunto quindi in un clima transatlantico tutto sommato favorevole ed è stato accompagnato, da parte di Washington, da una nuova presa di coscienza della centralità dell’asse con l’Europa. Come già fece la seconda amministrazione Bush Jr., il primo viaggio all’estero del nuovo Segretario di Stato John Kerry è stato infatti in Europa. Nel corso dell’ultima settimana di febbraio, Kerry si è recato in visita ufficiale nel Regno Unito, in Germania, in Francia ed in Italia, riconoscendo di fatto la pluralità delle anime che contraddistinguono l’Unione Europea. Dalla special relationship all’asse franco-tedesco, passando infine per il Mediterraneo, il Dipartimento di Stato ha voluto lanciare un segnale: ricominciamo a lavorare insieme. Due settimane prima, lo stesso Obama aveva già avviato il processo di riavvicinamento tra le due sponde dell’Atlantico annunciando, nel corso del Discorso sullo Stato dell’Unione, l’avvio di «negoziati per un’ampia Transatlantic Trade and Investment Partnership con l’Unione Europea» [6].

Dopo il fallimento del 1998, Stati Uniti ed Europa sono dunque tornati a discutere della creazione di un’area di libero scambio che, secondo la Commissione Europea, potrebbe incrementare il commercio transatlantico di oltre il 50%. Se da un lato è vero che le tariffe protezionistiche sono già basse (5,2% per l’UE, 3,5% per gli USA), tuttavia l’accordo – in particolare se comprendesse gli investimenti – costituirebbe un passo avanti per cui, ad opinione di The Economist, «vale la pena combattere» [7]. Non solo integrerebbe ulteriormente le due economie rafforzandone il legame politico, ma ribilancerebbe la direttrice del commercio globale che punta ormai verso l’Asia. La Camera di Commercio degli Stati Uniti stima che l’eliminazione delle tariffe doganali incrementerebbe il PIL combinato di USA ed UE di circa 180 miliardi di dollari nell’arco di cinque anni, mentre l’abbattimento delle barriere non tariffarie lo aumenterebbe per entrambi i partner del 3% su base annua; parallelamente, 7 milioni di nuovi posti di lavoro verrebbero creati [8]. In tempi di crisi economica, la TTIP consentirebbe insomma all’Europa di tornare a respirare e agli Stati Uniti di velocizzare la propria crescita economica.

La dimensione strategica delle relazioni transatlantiche non sembra essere, però, altrettanto rosea. Certamente, nel Grande Medio Oriente – il teatro dove la somma degli interessi euro-atlantici è maggiormente in gioco – le grand strategy di Europa e Stati Uniti tendono a convergere. Nella scorsa estate entrambi hanno adottato nuove sanzioni economiche nei confronti dell’Iran e del suo programma nucleare, benché queste abbiano un impatto superiore sugli interessi nazionali dei Paesi europei rispetto a quello sugli Stati Uniti. In Afghanistan, tanto Washington quanto le capitali europee sono ansiose di disimpegnarsi da un teatro strategico fattosi estremamente complicato e scomodo, la cui prospettiva di “pace senza vittoria” – nonostante gli enormi progressi fatti dal Paese nel corso degli ultimi dodici anni [9] – è ormai molto più che allettante. In Siria, il supporto politico ai ribelli contro il regime è parimenti condiviso, benché l’Europa si sia dimostrata ben più intraprendente degli Stati Uniti nell’ampliarlo a livello militare e comunque consapevole che, in caso di intervento diretto, sarebbero gli americani a dover assumere i maggiori oneri.

Ed è proprio qui, nella dimensione strettamente militare, che si manifestano le maggiori incertezze: l’Europa costituisce tutt’oggi l’anello debole dell’Alleanza Atlantica, fatto che infastidisce non poco gli Stati Uniti. Di fronte all’annosa questione del burden sharing, la NATO ha recentemente proclamato la volontà di “spendere in modo intelligente”, lanciando la Smart Defence, ovvero un «nuovo modo di pensare [...] una rinnovata cultura di cooperazione [...] che significa mettere in comune le capacità, decidere le priorità e coordinare meglio gli sforzi», in particolare tra Europei, per «generare [insieme] le capacità difensive che l’Alleanza necessita» [10]. Eppure, nonostante le buone intenzioni, la realtà racconta che l’Europa sta proseguendo il cammino dei tagli ai budget militari; forse non in termini relativi, dato che grosso modo le percentuali del PIL restano immutate da alcuni anni, ma certamente in termini assoluti. Non è dunque casuale che i diplomatici statunitensi abbiano fin qui etichettato il pooling&sharing europeo come una «cortina di fumo per mascherare i tagli alla difesa» [11].

Per concludere, il secondo mandato di Obama è iniziato sotto nuove luci e solite ombre nel rapporto con gli Europei. Gli Stati Uniti sembrano intenzionati a rimettere al centro della propria politica estera un’Europa che da oltre sessant’anni appare sì stabile nelle fondamenta, ma che non riesce ancora a dimostrare una piena maturità né nel risolvere le crisi interne né nel giocare un ruolo di primo piano negli affari internazionali, a partire da quelli che maggiormente la coinvolgono. Eppure, come un refrain che si ripete incessantemente dal Secondo dopoguerra, è compito anzitutto dei Paesi europei trovare quella volontà di lavorare insieme, che permetta loro di esercitare responsabilmente il ruolo di partner ed alleato al fianco di Washington. Gli Stati Uniti stanno (ri)chiamando l’Europa alla costruzione di un nuovo ponte transatlantico in un momento in cui l’ordine occidentocentrico appare in forte bilico di fronte all’ascesa dell’Asia. Che sia l’ultima chiamata per la rilevanza del Vecchio Continente nel mondo?

* Davide Borsani è PhD Candidate in Storia delle Relazioni e delle Istituzioni Internazionali (Università Cattolica del Sacro Cuore)

[1] Bertelsmann Foundation, Field Manual to Europe. Ten Memos for the New US Administration, Washington, 2013, p. 4

[2] G. Pastori, Obama reduxed. L’Europa e le sfide della presidenza 2.0, ISPI Commentary, gennaio 2013

[3] German Marshall Fund of the US, Transatlantic Trends 2009

[4] Corriere della Sera, Crisi, affondo di Obama sull’Europa: «Non la affronta in modo efficace», 28 settembre 2011

[5] German Marshall Fund of the US, Transatlantic Trends 2012

[6] B. Obama, State of the Union Address, WashingtonDC, 12 febbraio 2013

[7] The Economist, Hope and no change, 10 novembre 2012; cfr. anche Il Sole 24ore, Usa e Ue verso un’area di libero scambio, 14 febbraio 2013

[8] US Chamber of Commerce, Transatlantic Economic and Trade Pact, 2012, p. 2; IAI, A Deeper and Wider Atlantic, Documenti IAI 1301, febbraio 2013

[9] M. Guillot, Welcome to Kabul. La strana storia di una ripresa che non si conosce, Bloglobal – Osservatorio di Politica Internazionale, 11 aprile 2013

[10] http://www.nato.int/cps/en/natolive/78125.htm

[11] G. Robertson – T. Valasek, Conclusion, in T. Valasek (a cura di), All alone? What US retrenchment means for Europe and NATO,  Centre for European Reform, febbraio 2012, p. 62


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