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Un ruggito nella giungla e un fischio a Gelsenkirchen

Creato il 17 settembre 2013 da Calcioromantico @CalcioRomantico

mwepu ilungaUn ruggito nella giungla e un fischio arbitrale nello stadio dello Schalke 04, uno sconosciuto difensore dello Zaire e il più grande pugile di tutti i tempi. Per smontare una ottusa narrazione di stampo coloniale e produrre in sua vece una storia di più ampio respiro servono i giusti ingredienti.

Il fischio è  quello dell’arbitro Rainea che a Gelsenkirchen, al minuto 85 di Brasile-Zaire, ultima partita del gruppo 2 dei Mondiali del 1974, comanda un calcio di punizione per i verde-oro. Lo sconosciuto difensore è Mwepu Ilunga che, mentre Rivelino attende il via dall’arbitro, si stacca dalla barriera e allontana la palla con un calcione. Un gesto che vale un cartellino giallo sul momento e il pass per tante visualizzazioni su youtube in futuro, con annesse risate e suddetta narrazione di stampo coloniale. Perché è ovvio che quel baluba, quel negro africano non conosce neanche le regole basilari del calcio.
La cosa non regge, si fa presto a capirlo. Il match col Brasile è il terzo per la nazionale dello Zaire ai mondiali tedeschi e nelle precedenti nessuno di quei giocatori in pantaloncino e maglietta verde  ha voluto battere una rimessa laterale coi piedi, una punizione con le mani o cose simili. Il perché del gesto va cercato altrove. E allora “postcolonialmente” immettiamo gli altri elementi

rumble in the jungle

Un regalo del presidente Mobutu al popolo dello Zaire e un onore per l’uomo nero.

Il ruggito nella giungla, The Rumble in the Jungle, è innanzitutto quello del più grande pugile di tutti i tempi, Muhammad Alì, che il 30 ottobre 1974 a Kinshasa, capitale dello Zaire, manda al tappeto il campione dei pesi massimi George Foreman all’ottava ripresa. Un titolo perso nove anni prima per aver rifiutato di servire gli Stati Uniti in Vietnam visto che non sono certo i Viet-Cong a chiamarlo con disprezzo nigger e a privare i suoi fratelli di colore dei più elementari diritti umani.[1] Del resto, da quando nel 1964 ha smesso di essere Cassius Clay e ha aderito alla Nazione dell’Islam, Alì parla spesso agli American blacks della loro forza, delle loro radici africane e li invita a diventare soggetti politici della loro emancipazione. Per questo il pugile in Africa si sente a casa, per questo il pubblico tifa tutto per lui, per questo Kinshasa è il posto giusto per la sua definitiva rinascita sportiva. Alì però non è uno sprovveduto, sa che dietro tutto questo c’è una borsa di cinque milioni di dollari per sé e una altrettanto grande per Foreman e c’è un certo Don King che è andato in giro per il mondo a cercare persone che sborsassero quei soldi e ne ha trovata una nel cuore dell’Africa. Ma perché?

Insieme con Muhammad Alì, a ruggire in quella giungla c’è anche Mobutu Sese Seko, Gran Maestro dell’Ordine Nazionale del Leopardo, Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana sin dal 1973 e unico sanguinario padrone dello Zaire sin dal 1965. Forte dell’appoggio in primis del governo statunitense e di quello francese, Mobutu ha messo su un regime paternalista e tradizionalista, in cui sono black men a sedere nei posti che contano, un regime che all’estero passa come una speranza per l’Africa Nera, come un’alternativa al capitalismo e al comunismo, ma che in realtà è aperto agli investimenti di grandi capitali stranieri che fruttano ricchezze agli investitori e, di riflesso, al dittatore fantoccio e alla sua cerchia di amici. Come spiegare altrimenti la possibilità di garantire sull’unghia dieci milioni di dollari a Don King? Dal punto di vista di Mobutu lo spettacolo, poi, quei soldi li vale perché le manifestazioni sportive curate con attenzione hanno sempre fatto buon gioco ai regimi che si basano sul culto della personalità. E Alì è un simbolo su cui poter puntare a occhi chiusi. 

mobutu

Mobutu Sese Seko

Anche il calcio, nel suo piccolo, è un buon mezzo di propaganda e i calciatori simboli da mettere a valore. In Zaire un campionato c’è dal 1923, quando il paese si chiamava ancora Congo Belga e Kinshasa ancora Leopoldville. L’impennata di interesse e di seguito si ha però alla fine degli anni sessanta. Il TP Mazembé nel 1967 e nel 1968 si laurea Campione d’Africa per club, la nazionale vince la Coppa d’Africa nel 1968, è semifinalista nel 1972, rivince la Coppa nel 1974 e, soprattutto, dopo aver chiesto e ottenuto l’affiliazione alla FIFA nel 1973, stacca il biglietto per i Mondiali tedeschi, prima squadra dell’Africa Nera a riuscirci. Per gli artefici di quell’impresa le lodi si sprecano, anche in sede presidenziale: la nuova via tracciata da Mobutu vince anche nello sport. Nel 2003 proprio Mwepu Ilunga in una intervista prova a spiegare quali le ambizioni dei componenti della squadra e quale la realtà dei fatti:

“Pensavamo che saremmo diventati ricchi, appena tornati in Africa, ma dopo la prima sconfitta [2-0 contro la Scozia] venimmo a sapere che non saremmo mai stati pagati e quando perdemmo 9-0 con la Jugoslavia gli uomini di Mobutu ci vennero a minacciare. Se avessimo perso con più di tre gol di scarto col Brasile, ci dissero, nessuno di noi sarebbe tornato a casa”.

Il cerchio si è chiuso. Nel momento in cui Rainea fischia la punizione a Gelsenkirchen il 22 giugno 1974 il risultato è di 3-0 per i verde-oro e mancano solo cinque minuti alla fine. Al Brasile il 3-0 basta per il turno successivo, mentre un gol subito in più potrebbe significare morte certa per i giocatori africani. E il calcione di Mwepu non è altro che un modo per esorcizzare la paura, perché nessuno dei brasiliani, nessuno tra il pubblico ha idea della pressione che il difensore dello Zaire e i suoi compagni in quel momento stanno vivendo da parte di un dittatore fantoccio che proprio con l’Occidente ha stretto legami.
Da ridere c’è ben poco.

federico

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[1] “My conscience won’t let me go shoot my brother, or some darker people, or some poor hungry people in the mud for big powerful America. And shoot them for what? They never called me nigger, they never lynched me, they didn’t put no dogs on me, they didn’t rob me of my nationality, rape and kill my mother and father”
“Why should they ask me to put on a uniform and go 10,000 miles from home and drop bombs and bullets on Brown people in Vietnam while so-called Negro people in Louisville are treated like dogs and denied simple human rights?” (vedi en. wikiquote.org


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