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un vulcano piccino picciò

Da Luci

il teide parte da sotto l’acqua. circa 4000 metri sotto l’acqua.

in compenso ne fa poco meno di altrettanti sopra, per arrivare a 3700 metri sul livello del mare.

non si poteva mica non andare…

per di più è pieno di SASSA. quasi tutte appartenenti alla categoria delle SASSA SGRUBBIE, che vado immediatamente a descrivere.

SASSA SGRUBBIE:

si chiamano sassa sgrubbie quelle sassa che se le guardi ti fai male al solo pensiero di cascarci sopra. da lontano sembrano una grattugia ma da vicino sono molto peggio.

le sassa sgrubbie non sono però le sole presenti. sono presenti anche le sassa spugne (pomici) le sassa dure, (basalti) le sassa sbricioline (piroclasti).

ovviamente il tutto a strati lasagni, come un vero vulcano dovrebbe presentarsi in società.

purtroppo non ho le foto con me: da qualche tempo ho litigato con flickr e non riesco a mettere neanche quelle della valigia misteriosa (che questo valga per umile scusa per la giusta rimostranza de la perfezione stanca!), ma spero di rimediare presto, magari imparando a usare picasa… intanto provate a cliccare qui.

insomma…

siamo partiti, io e il geotrogolo sassologo, il giorno numero due, alla volta del teide. (il giorno numero uno è stato trascorso a farci coccolare dalla perfida nera che perfida non è, e dall’ bell’uomo coi baffi).

abbiamo bucato le nuvole che gli alisei infilano sempre su metà isola e che arrivano solo a una certa altezza e arrivati in cima alla strada abbiamo pensato che eravamo arrivati sulla luna.

“guarda che meraviglia… ma sulla luna di giorno il cielo di che colore è?”

“nero”.

“come?”

“certo, nero, non c’è atmosfera sulla luna e il cielo è nero”

“bel troiaio… meglio il teide allora!”

meglio sì. sul teide hanno lasciato acceso il tasto “regolazione saturazione e contrasto” del monitor.

intorno a noi un panorama di tutti i colori della terra, come se fosse appena nata, nuova, pulita, pronta per partire. la pancia del mondo e noi sopra a camminarci.

decidiamo di arrivare in cima in cima.

un cartello avverte: “temperatura 4°C, sensazione termica -8°C”.

ah bene. non importa, abbiamo le felpe e i chiù-uei, come dice il mammuth.

la teleferica ci porta in cima (per chi ci avevate preso?) insieme a tedeschi ciccionissimi, piccoli francesi col cappello per il sole e spagnoli allegri.

ci battiamo la mano sulla testa. “non abbiamo messo la crema solare! vabbeh… pazienza.”

in cima si resta senza fiato. per la bellezza e per la mancanza di ossigeno. per il vento e per la luce, per la poesia sterminata del vulcano, per le margherite coraggiose, le sassa variopinte, i russi coi mocassini e il mare di nuvole sotto di noi, che pare cotone lanoso e morbido.

si fanno i sentieri, ansimando all’inizio come una foca enfisematica, poi piano piano rompendo il fiato e fermandosi a guardare.

si è assaliti da una sorta di sindrome di stendhal della natura, ti viene da pensare di non poter più scendere, che sotto le nuvole, laggiù, non merita tornare, nel mondo degli uomini, meglio le sassa, il cielo che ti frusta la faccia, la polvere sulle mani delle pomici che si sgretolano mentre le guardi.

ma poi si scende, ci si rassegna a riprendere la funivia, a tornare alla macchina, cercando, per tornare a casa, la strada più lunga, che ancora ti trattenga sulla luna dal cielo azzurro. la pelle brucia, ci siamo scottati come due crucchi qualsiasi, i giorni dopo ci spelleremo come lucertole delle canarie, bestie simpatiche anche se non esattamente bellissime.

“ma davvero sulla luna il cielo è nero?”

“sì”

“poverini…”


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