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Una giornata in ospedale

Creato il 14 febbraio 2011 da Maurizio Lorenzi

Proponiamo un interessante articolo di Giorgio Bocca, tratto da L’Epresso - febbraio 2011 -

giorgio bocca
La Milano dei poveri, degli ambulatori, la Milano vera che vive fuori dalla tv, mi ha spaventato, è terribile.

Ci sono due Italie che riescono a convivere non si sa come, non si sa per quale miracolo: l’Italia dei ricchi e quella dei poveri, l’Italia di piazza della Scala, dello stilista Armani, del Biffi, la Milano da bere e quella della periferia, del grande ospedale, dove i poveri arrivano dopo aver aspettato il loro turno magari per sei o sette mesi.

 

Io che sto nella Milano dei ricchi, dove tutte le donne sono magre, belle e sexy, appena tornate da una vacanza alle Maldive, guardo le infermiere e mi chiedo perché non ce n’è una in pace con il suo corpo, o troppo grasse o magre come chiodi, come se non fossero padrone di se stesse.

Siamo al sesto piano dell’immenso ospedale, sotto di noi nel piazzale escono fumate bianche da camini che ricordano i lager, ma anche i soldi e le energie che il Comune spende per i poveri. Chiedo al dottore che mi opererà alla mano: “Come mai le infermiere sono tutte troppo grasse o magre come chiodi?”. Mi guarda stupito: “Si vede”, dice, “che non sanno regolarsi”.

Già, ci sono italiani ricchi e colti che sanno regolarsi e altri che, arrivati finalmente a mangiare a volontà, non si fermano più. Andiamo agli ascensori per raggiungere la sala operatoria. Ce ne sono quattro. Quando ne arriva uno, soffiando, gli italiani poveri degli ospedali partono alla carica come se fosse l’ultimo vascello di salvezza, e in mezzo a loro mi chiedo se siano veramente italiani, gli stessi che appaiono in televisione, ma no sono molto diversi, quasi irriconoscibili, impauriti, impacciati con i volti tirati dalle paure e dalle sofferenze. Connazionali, sì, ma che vivono separati da noi dell’Italia ricca, che basta un’infermiera di cattivo umore a spaventarli.

Siamo al San Paolo, in uno dei migliori ospedali italiani, un ospedale di avanguardia nel mondo civile, ma anche qui, dove tutto sembra previsto, preordinato per il pronto intervento, l’impressione è di stare in guerra, di essere nella retrovia di una battaglia sanguinosa.

Passi per un corridoio e attraverso una porta aperta vedi che in una stanza stanno vestendo una donna morta da pochi minuti, e intorno la vita dei sopravvissuti continua con rabbia e frastuono, infermiere e infermieri discutono animatamente del contratto degli ospedalieri che sta per essere firmato a Roma, poche decine di euro in più ma ne parlano come se gli cambiasse la vita.

La mia mano pare sistemata, anch’io posso raccontare di aver avuto il mio intervento al condotto carpale, che è una malattia molto di moda. “E una volta”, chiedo al mio medico, “chi ce l’aveva che faceva?”. “Si teneva la mano fredda e dolente”, risponde. Mio figlio viene a prenderci, ci vuole più di mezz’ora per arrivare dal centro di Milano al San Paolo, così puoi vedere come ci si muove, come si vive nella più ricca città italiana, quella dei terroni che sono arrivati con la valigia di cartone.

Nelle strade auto parcheggiate su due o tre file che a muoverle sembra impossibile, ma due vigili urbani in impermeabile nero ed elmetto bianco guardano il caos da pioggia con indifferenza professionale, prima o poi tutti riusciranno a tornare a casa per accendere la televisione e ritrovare l’Italia dove le donne sono magre, snelle e sexy o almeno così sembra grazie ai riflettori e ai ceroni.

Mia moglie mi chiede come sto. “Alla mano bene”, le dico, “ma la Milano dei poveri, dell’ospedale, la Milano vera che vive e campa fuori dalla televisione mi ha spaventato, è terribile”. “Sempre esagerato”, commenta lei, “questa è la vita, l’importante è che ci sia. La vuoi anche bella?”


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