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Una poesia senza parole. Come in un battesimo ancestrale

Creato il 14 febbraio 2012 da Cultura Salentina

di Lele Mastroleo

dechirico

Renato Guttuso, "Trionfo della morte" (1943), Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma

…le copriva le spalle con uno scialle nero fatto di cotone netto,lavorato a mano dalla Ndeddha,

e spingendola delicatamente sul viottolo che dava dietro alla corte e si spingeva sino alla rampa delle scale di casa di Zì Bbinu, mesciu Peppe riaccompagnava Agostina a casa.

Quel bambino le stava scoppiando nella pancia e spingeva per uscire. Quel figlio di un padre che non torna. Quel figlio del rollio di una barca e di una tempesta di onde. Quel figlio, figlio di tutti i padri, fratello di molti altri figli, sposo di terra e bestemmie, naufrago di preghiere e speranze. Quel figlio che si chiamava già come il padre e che Agostina chiamava dieci, cento, mille volte al giorno con la speranza che una frase, una parola, un bisbiglio potesse rompere quel maledetto silenzio.

-”Dove sei amore mio? Dove sono le mie lacrime e le mie canzoni, dove hai portato il saluto dei miei baci e delle tue smorfie e dei tuoi abbracci, possenti, pieni, veri, da uomo innamorato? Dove hai messo l’anima di tuo figlio, Iddio dalle mille certezze, che hai spento la luce sulla faccia di un padre, di un ragazzo che amava la vita, sulle mani di uomo, di fatica e sudore. Perchè non tiri via, Iddio dagli occhi di misericordia, quella tenda nera dalla mia casa, dalla nostra casa e strappi la parola morte dalla bocca dei tuoi figli?

‘U Mecu non tornerà più. ‘U Mecu dal sorriso di bimbo e dalle mani di gigante, dalle gote arrossate dalla timidezza, che raccoglieva la passione tra le dita e ne faceva carezze e respiri. ‘U Mecu non sarà più vita, non saranno più i cunti di mare che riempivano quelle serate di maleiernu e quel suo sorriso che bastava a scaldarmi”.

Carlo portava il gregge sulle rive della Fiumana, lì dove l’Ofanto si butta nel mare, terra di pastori e di fame, terra di lingue diverse, di fughe lontano, di poco mare e di tanta fatica. Il ragazzo usciva come ogni giorno all’alba per far ritorno all’imbrunire, fino a quel pezzo di campagna a ridosso del fiume dove l’autunno non era ancora arrivato, dove il verde pian piano rilasciava macchie di un grigio pallido, di uno scuro invernale,d i un’inutile nero. Scendeva sempre la collina delle Settemacchie, strada impervia soprattutto per gli animali, per via degli spuntoni di roccia, che arricchivano quel vecchio tratturo che portava al mare, percorso dovuto, da quando suo padre aveva trattato a pugni e schiaffi  con Llumusciu, proprietario del sentiero nuovo che fiancheggiava il rivo e portava ai campi d’erba.

Vedeva venirgli incontro una luce diversa quella mattina all’orizzonte, scorgeva una nave o quello che ne rimaneva, appoggiata allo scoglio del Levantino, dietro l’insenatura delle Moffule, squarciata su un fianco all’altezza della prua, con l’albero di mezzana spezzato in due,c on le vele del bompresso calate sul castello di prua quasi come un sudario, quasi a nascondere delle reliquie, a proteggerle dalla marea.

Adesso Carlo correva veloce, quasi incurante dei suoi animali, sentiva che doveva lasciare il gregge sul posto e correre per vedere quell’imbarcazione in balia degli scogli, riversa sulle rocce dell’insenatura, completamente sconquassata.

Le vele erano oramai lacere, la risacca le batteva come panni di lavandaia sul limitare del pozzo, le sartie erano incrociate tra loro in maniera fitta tanto che l’intreccio ricordava una croce. Stemma e predizione, forma e destino, a volte, per tante volte, da sempre, per chi solca il mare per lavoro, da chi solca il mare per tornare.

Il ragazzo riusciva a distinguere dalla riva i corpi di una dozzina di uomini che galleggiavano sulla cresta della marea e sbattevano sulla chiglia le schiene e la testa ad intervalli più o meno regolari, con la faccia rivoltata nell’acqua, interamente sommersa in quel mare che tanto amavano, rivolti faccia in giù come in un battesimo ancestrale.

Correva ancora Carlo e correva a casa ad avvertire il padre, e correva in paese a chiedere aiuto a chiunque gli si parava davanti.

La notizia arrivò come una pugnalata, come una coltellata in gola. Le strade si chiusero in un rosario di vicoli, si rifugiarono in una preghiera di viuzze, si fusero alle pietre, si nascosero a tutti per non far ritrovare più nessuno.

Il funerale solo perché si doveva fare. Contarono i passi quelli che rimasero, dalla porta di casa alla cattedrale e in quella cattedrale dove vi erano corpi distesi ai piedi di uno spoglio altare. Martiri si assommavano ai martiri. Idro era morta. Sparita, persa. La bandiera della misera morte, il gonfalone dell’inverno sventolò dalla Torre di Mezzo ed il mare pianse alla luna quella notte. Ndeddha strinse quel suo seno generoso così forte, come se volesse strapparlo via. Suo padre seduto dietro il samporto recitava come se bestemmiasse l’unica preghiera che avesse mai imparato “Diu miu beddhu iutame tie“.

Agostina non aveva più lacrime e non aveva più vita, non aveva più respiro, non aveva più pensieri, non sentiva più le mani, non vedeva più né colori né forme, sentiva solo la voce lacerarsi in lamento.

Munira sdraiata sul letto con la mantella di lana del marito sulla faccia urlava a squarciagola il nome di Iddio e ne invocava la misericordia.

Quanto è triste vivere, Iddio del mare e delle tempeste, quando si deve dare il resto a quel destino che solo Tu hai creato e pagarne la sorte con moneta di sangue e fiato, con respiri giovani e pensieri innocenti?

Dove metterai ad asciugare adesso quelle anime? E con quale sguardo di padre riuscirai a guardarle?

Dove appoggerai il sole questa notte, prima di accompagnare alla terra quei corpi che Ti appartenevano?

Dove nasconderai il dolore, dove metterai a dimora quelle lacrime?

Quella notte la luna si affacciò sulla costa un paio di volte, illuminò il cane di Ferruecchiu che malfermo sulle gambe abbassò il muso tra le zampe e chiuse gli occhi. In segno di rispetto…


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