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…una poesia senza parole. Munira è lontana…

Creato il 10 novembre 2011 da Cultura Salentina

di Lele Mastroleo

Otranto

Carl Frommel, Otranto (1829), incisione a bulino su rame

Da lontano si vedeva la luce dei falò messi sulla collina ad indicare lo scoglio di Palacia, baluardo silente alla tramontana,quel muro di roccia calcarea che rompeva il mare e costringeva le navi a starci lontane.

- “Chissà se Ndeddha dorme a quest’ora o se sta rimettendo il suo orgoglio di vergine sulla sedia di fronte al focolare al frenetico girare dei suoi arnesi di ferro e lana, ai suoi mestieri di lino,ago e pazienza”, pensava U’Pati sulla coffa del nuovo trialbero del duca-re,- “chissà se Ndeddha, stasera, si accarezzerà il seno come tutte le sere prima di addormentarsi, dedicandomi quel gesto per tutte le volte che parto in mare e sto lontano dei giorni”.

- “U’Pati, vedi cummuli strani dalla prora o sono solo le nostre bestemmie che vanno in cielo a confessarsi”, disse il Capitano alla vedetta, -“straccia l’anima alla voce se vedi quel maledetto scoglio farsi troppo vicino, che possa morire pacciu, non vorrei fare la fine di padre Crisanto che si addormentò e sbatté dritto nfaccia alla disgrazia del Mungurune e morì prima di scetarsi”.

-“Non preoccupatevi, mio Capitano, l’aria è carica di oggnissanti e le nuvole rimandano le nostre bestemmie. Ma la notte dovrebbe passare alla svelta se Santu Nicla ci vuole bene come dicono”, rispose con tutta la forza che aveva in gola U’Pati e si rimise a svolgere il suo lavoro di guardiano della vela e della tramontana.

Stava adesso sul castello del ponte di coperta, il Capitano e guardava la caviglia delle giunture del ponte con occhi nuovi come se non l’avesse già scorte in lungo e largo in quei novantadue lunghi giorni. All’improvviso il vento fece un piccolo vortice ed il capitano fu costretto a reggersi alla balaustra per non finire in mare.

- “Serra la malinconia, Mecu e salta direttamente il sonno mentre distrai la fantasia, che in questo fottutissimo odore di pesce secco e sale grosso si stanno nascondendo tutti i diavoli dellu ‘nfiernu. Stacca l’anima fratello e metti a riposarla, che stanotte ti toccherà inventare le storie più inverosimili per tenere a bada la compagnia”.

Ndeddha, chiuse la finestra della cammera da letto di suo padre, baciò le mani al genitore, controllò che gli utensili per i bisogni notturni fossero al loro posto,si tirò la porta dietro e uscì nel corridoio.

Strappò i legacci di cuoio e corda che tenevano i troppi capelli ricci e si mise a pettinare con le mani quelle onde strane che si scioglievano lente tra le dita. Poi passò i polpastrelli ad insidiare il collo e strinse forte con una mano l’avambraccio per levare via con un solo gesto tutta la fatica della giornata. Si spogliò seguendo un suo solito rito.Toglieva via prima la camicia e la sottana per arrivare subito ad accarezzarsi un seno. Gesto ripetuto fino alla noia negli ultimi tre mesi. Da quando, cioè il suo U’Pati aveva preso il mare, coll’ingaggio del Capitano e del duca-re in tasca.

- “Vedrai che appena torno ci sposeremo”, le aveva detto U’Pati prima di partire, “e se Iddio e Santu Nicla vorranno appena torno troverò l’ingaggio presso il frantoio del duca-re come mi hanno promesso e staremo tutti i giorni assieme. Che quasi vorrai liberarti di me e mi manderai di nuovo in mare…”.

- “Tu sei tutto scemo”, non gli fece finire la frase Ndeddha, -“tu ti stancherai e tornerai al mare come sempre hai fatto. Come se non vi conoscessimo. Ippazio Luceri, figlio di padre Ntoni, pescatore e figlio di pescatore. Avete acqua di mare nelle vene, non avete nient’altro che acqua di mare che vi scorre lenta tra il cuore e l’anima”.

- “Se non la smetti di pensare sempre al male, penserò che non mi vuoi più e che vuoi rimanere santa sino alla morte”, le disse il ragazzo schernendola.

-“Vai via subito, se non vuoi che faccia una pazzia qui in mezzo a tutta questa gente e mi metta a baciarti fino a svenire e fino a farti scordare come ti chiami”, disse con un sorriso la ragazza.

Dove hai messo, Iddio, in questa notte di piccole storie e di vento largo,tutte le carezze della donna mia che non ho mai amato e che mai amerò? Dove hai messo il suo odore di basilico e menta ed i suoi profumi di malva e timo, che mi riempivano il respiro e mi facevano sussultare il sangue di giovinezza? Dove hai portato, padre santo, tutta l’incertezza della mia carne ed il desiderio per quell’uomo che non potrò mai amare?

Lo scoglio della Palacia quella notte cantò una melodia antica alla luna, e vide passare lenta una nave senza uomini a bordo. Solo un silenzio assordante di domande…

…sento dalla collina arrivare il profumo. E mi incammino estirpando le radici all’ailanto e all’ulivo, cercando quella nuvola che riempie di sale la pianura. Da quassù vedo tutti i miei anni addietro, mentre saluto quelli lasciati sul limitare dello scoglio greco a crescere liste d’attesa e sottili foglie di aleatico. Sono stata compagna della luna e ho incatenato a quell’antico porto d’oriente la fede e le paure, ma mi è mancato il respiro quando accarezzandogli il viso ha urlato tutto il suo dolore. E la sera, quando è freddo, e le pareti del mio vagare sono molto lievi, per fermare la tramontana, dipingo un aquilone in terrarossa. E ricoloro tutti i sogni con le spine dei cardi e la sua voce si fa grido di passione. Eppure la sento quella musica devastante che prende lo stomaco e mischia sangue e lacrime e dolore e fa girare in tondo anche l’anima. Eppure la conosco la poesia del suo mare e delle sue onde,di tutte le rotte che ha preso per cercarmi e per essere puntuale. E quel profumo di menta e salvia della sua barba incolta che strofina le mie guance e che mi graffia la schiena di piacere.

Di tutte le notti che mi lasciò da sola accanto al focolare di pietra antica e marmo,che lui stesso volle costruire di fianco alla porta che guarda al mare,questa è la notte più nera. Sento le mani che muovono impazienti nella stanza e non riescono a fermarsi e non riescono ad avere pietà dei pensieri.

Quei pensieri che si sommano in testa sino a divenire un’esplosione, eruzione, terremoto e sino a diventare presagio. Non riesco a togliere dalla mente quella visione del giorno prima, di quel quadro che si era formato all’improvviso nel cielo. Era la settima ora quando bussò alla porta la Ndeddha che portava, per conto del padre, la solita palata al mio Capitano, in vista della partenza della missione e mentre rientravo, dopo aver ringraziato la ragazza, ho visto le nuvole in alto della nostra testa diventare in un momento azzurre,  poi marroni, ed infine nere e i due gabbiani che erano a guardia della marea fecero un volo tutto in tondo alla barca del duca re, che serviva alla missione, ed uno di questi dopo essersi abbassato quasi a toccare l’albero di bompresso, si librò molto in alto, per poi, con un tonfo repentino si inabissò nelle acque del porto per non riemergere più. Sentivo in cuor mio che quella scena, quello spettacolo era un segno, una premonizione anche se ancora non riesco a capacitarmi il dubbio, a capirne la ragione.

Strappo ferocemente le carte di quella maledetta navigazione, e cerco di non disperarmi e di non far trapelare l’angoscia di questa puttana notte che mi sta umiliando. Mi son perso.

- “Iddio che guardi il mio nome sulla bacheca della tua anticamera, volgi lo sguardo alla luna ed ascolta la preghiera senza voce, questa poesia senza parole, di un figlio indegno che ingannò il suo stesso sapere e il suo stesso coraggio e sfidò la natura da incosciente. Mi son perso, Iddio del mare e delle rotte, ho perduto il sangue che mi dirige, ho perduto la ragione della coscienza che mi indicava il cammino e navigo a vista senza vedere e cammino nel buio dei miei stessi silenzi”.

All’istante si fa nero il cielo e le nuvole ci versano addosso anche il nostro stesso destino, e non riesco a trovare fonda e lo Scoglio della Serpe è sempre più lontano e non riusciremo mai più a virare visto che il vento soffia come un dio impazzito e le onde ci massacrano gli alberi. Anche Munira è lontana e son lontane le sue braccia e quell’odore di malva e timo delle sue spalle e del suo collo. Avessi almeno il tempo di guardare per una volta ancora i suoi occhi. Per poterle dire che nessun pianto doveva versare per me e nessun dolore poteva sopraffarla e nessun rimpianto avrebbe dovuto guidarla. Sarebbe finito il tempo dei miei respiri ma l’anima avrebbe continuato a difenderla, per sempre.

U’Mecu è sul ponte di prora a sfidare anche i ricordi, a bestemmiare quel mare che così tanto amava. E per un attimo i nostri sguardi si incrociano e distinguo le sue parole:

- “Non finirà qui,vero? Non può finire così, dimmi la verità mio Capitano? E’ ancora lunga la rotta per scrivere un’altra poesia, mio Capitano?


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