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“Una sconfinata giovinezza”: tra paura e memoria, una perla da riscoprire

Creato il 29 maggio 2012 da Onesto_e_spietato @OnestoeSpietato

“Una sconfinata giovinezza”: tra paura e memoria, una perla da riscoprire

Una sconfinata giovinezza di Pupi Avati è un film che fa paura, che spaventa. Per il tema trattato e per lo stile registico usato. Ed è proprio a causa del tema trattato, l’Alzheimer, che quest’opera si è dimostrata il maggior insuccesso della più che quarantennale carriera di uno dei più grandi maestri del cinema italiano. Il film infatti incassò (quando uscì nei cinema a fine 2010) solo 1.009.000 euro, poco meno del trascurabile Il nascondiglio del 2007. Perché? Il pubblico in genere vuole andare in sala per sentirsi coccolato e confortato, e non per confrontarsi faccia a faccia con una malattia che fa paura al solo pensiero. E così il film è stato evitato come la peste nera. Chissà – e lo dico tra il serio e il faceto – forse anche il Festival di Venezia rifiutò per questo stesso motivo il film di Avati, preferendogli La pecora nera di Ascanio Celestini.

Una sconfinata giovinezza è invece un grande film, che, in contrapposizione al germe degenerativo della malattia mentale portata sul grande schermo, rimane forte e nitido nella nostra mente, nella nostra memoria. E’ un colpo allo stomaco, ma anche un colpo di fulmine. Un’opera che si fa amare e ringraziare, che coinvolge e avvinghia, che fa sospirare profondamente e tiene masochisticamente crucciati.

In merito allo stile registico, Avati salta senza grossi preavvisi dal tempo presente a quello passato, dal colore di tutti i giorni alla cromia seppia di una foto ingiallita e invecchiata. Distese nebbiose, secchi e ramificati alberi secolari e giochi infantili dal dubbio potere erotico si amalgamano a personaggi inquietanti ben giustapposti tra loro: l’amichetto con i problemi di pronuncia, una zia imbolsita e materna, un cane pacioccone ma sibillino, ecc. Suscitano inoltre straniamento e domande interiori quelle riprese “ad altezza ginocchia” nelle sequenze durante il tempo che fu.

La sceneggiatura è forte, non perde colpi, sprigiona emozione e sentimento senza sosta, pur non incappando nel melenso o nel melodrammatico, dove invece le belle musiche di Riz Ortolani rischiano di condurci (alla deriva). I dialoghi sono magici, pregni d’amore e vita, quotidianità e verismo.

In merito agli attori, Fabrizio Bentivoglio è mastodontico, perfetto, inimitabile, è la prova della vita. Al suo fianco la bella e brava Francesca Neri, ormai un’abituè dell’ultimo Avati.

Insomma, è giunto il momento di farsi coraggio, di recuperare un’opera che, qualora non ce ne fossimo ancora accorti, ci fa sperimentare la sconfinata maestria di Pupi Avati.



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