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Unioni civili, “inglesorum” per fregarci

Creato il 15 gennaio 2016 da Albertocapece

 Anna Lombroso per il Simplicissimus

A volte non è pretestuoso chiedersi perché per indicare istituti giuridici, fenomeni più o meno spiegati ed accettati, misure proposte o imposte si usi l’inglese, come nel caso del Jobs Act, come nel caso della stepchild adoption. Nel primo caso, l’intento più o meno esplicito è quello di fare ricorso a una lingua accreditata come esperanto della modernità, per esaltare dinamismo futurista, natura progressiva di una scelta che fa  piazza pulita di un passato,  smaltito sbrigativamente come arcaico e superato, innervato invece di fermenti, aspettative e conquiste irrinunciabili. In altri, come nel caso dell’istituto giuridico che già permette l’adozione del figlio del coniuge, con il consenso del genitore biologico e solo se l’adozione corrisponde all’interesse del figlio, che deve dare il consenso (se maggiore di 14 anni) o comunque esprimere la sua opinione (se di età tra i 12 e i 14), c’è da sospettare che si voglia asseverare, con l’uso di una locuzione  straniera, appunto, l’estraneità esotica e sospetta del riconoscimento di un legame, di un vincolo, di un patto legale ma soprattutto affettivo, in modo che sia legittimo diffidare della sua congruità “naturale” e della sua coerenza con usi, tradizione e cultura popolare.

Sia come sia, si chiami stepchild adoption o adozione del figliastro, si pensi che sia una novità ambigua o si sappia invece che esiste già nel nostro ordinamento (fino al 2007  ammessa solo per le coppie sposate, poi estesa ai conviventi eterosessuali, ritenendo, in quei due casi, che fosse interesse del minore che al rapporto affettivo fattuale corrispondesse anche un rapporto giuridico, consistente in diritti ma, soprattutto, doveri),  è questo il terreno sul quale è in atto una battaglia in previsione dell’approdo a Palazzo Madama del Ddl Cirinnà sulle unioni civili. Che prevede che un componente dell’unione civile possa continuare come dal 2007, ad avere la facoltà di chiedere l’adozione del figlio biologico del partner,  sempre col  consenso del genitore biologico e  sempre previa autorizzazione del  Tribunale per i minorenni, incaricato di  stabilire -caso per caso- se l’adottante ha le carte in regola e se l’adozione corrisponde all’interesse del figlio.

Per questo eventuali modifiche  del testo di legge avrebbero  come unico intento ed  effetto non quello di bloccare una novità sgradita a un fronte confessionale, che rivendica il monopolio della tutela della famiglia, ma di impedire “solo” agli omosessuali di continuare a fruire di un istituto già esistente. 

Ed è del tutto pretestuoso innalzare steccati ideologici, confessionali o  frutto di palese ignoranza giuridica, sostenendo che si tratti dell’anticamera dell’utero in affitto: pratica che, utilizzata per lo più dalle coppie eterosessuali, è sanzionata penalmente e che di certo non sarebbe scoraggiata dal negare ai figli della famiglie omosessuali la protezione giuridica di cui hanno bisogno. Per non dire che  la maternità surrogata continuerebbe ugualmente a essere praticata all’estero, dalle  coppie etero e gay ricche, con la differenza che le prime, essendo sposate, potranno adottare quei figli all’interno del matrimonio.

È quindi palese che l’opposizione a questo istituto nasce dal pregiudizio, dalla discriminazione, che la volontà di trasformare in ardua  concessione quello che non è neppure il riconoscimento di un nuovo diritto, ma la rimozione di un ostacolo che impedisce ad alcune persone di esercitare un diritto di cui tutti gli altri già godono, fonda questa esclusione sull’ “orientamento sessuale”, dunque su una causa di discriminazione ritenuta illegittima dall’articolo 21 della Carta europea dei diritti fondamentali, che ha lo stesso valore giuridico d’ogni altro trattato europeo, al cui rispetto almeno i 30 senatori del Pd e altrettanti deputati,  che si sarebbero già pronunciati contro le stepchild adoption,  mai si vorrebbero  sottrarre in nome della lealtà all’Unione e alla sua moneta.

E proprio quei 30 senatori, tra i quali alcuni acrobati del cambio di casacca e interpreti spericolati del trasformismo, a un tempo baciapile e divorziatissimi, ma soprattutto adoratori della poltrona quindi oculati amministratori del loro gruzzolo di consenso cattolico, sono insorti contro la pubblicazione dei loro nomi in un sito, Gay.it, insieme all’appello a contattarli per chiedere ragione della loro scelta. Si è voluto dar vita a una gogna mediatica, hanno denunciato, chiedendo  che l’elenco venga al più presto rimosso: “Non soltanto è un’azione dispotica“, ha detto il vice capogruppo Pd Tonini, “ma un atto irresponsabile che richiama alla mente lontani fantasmi che sarebbe meglio lasciare nel passato”.

Come al solito il fantasma vero è quello del Marchese del Grillo che alberga nei nostri rappresentanti in Parlamento, nei membri del governo, nella classe politica e dirigente tutta e che li ha persuasi della loro superiorità indiscussa e inviolabile. Sicché loro sono autorizzati a farsi gli affari nsotri, entrare nelle nostre vite, decidere cosa è bene e male, che cosa ci conviene o ci danneggia, intervenendo sulle nostre inclinazioni e scelte di vita e perfino di morte, perché “loro sono loro…”.  Mentre noi non siamo nemmeno in diritto di sapere che cosa pensano, che scelte fanno, che orientamento esprimono all’atto di decidere delle nostre esistenze. Dovevamo aspettarcelo da chi fa di differenze, disuguaglianze e iniquità i capisaldi del governo della cosa pubblica .. e privata.
 


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