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Unirsi ad organizzazioni estremiste e fare la guerra all’estero: una questione da cui i Balcani non sono esenti

Creato il 28 dicembre 2014 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
Unirsi ad organizzazioni estremiste e fare la guerra all’estero: una questione da cui i Balcani non sono esenti

L’avanzata dello Stato Islamico (IS), il progetto di stabilire un califfato in Medio Oriente, la nuova sfida che la comunità internazionale deve affrontare contro un radicalismo capace di essere efficiente sul piano militare e mediatico hanno un posto considerevole tra gli eventi attuali e, certamente, attirano l’attenzione pubblica anche su altre pertinenti questioni. Un ottimo esempio è fornito dalle persone provenienti da paesi occidentali e che decidono di entrare nelle fila jihadiste.

A giugno, Gianluca Mezzofiore scriveva sull’International Business Times che lo «Stato Islamico dell’Iraq e del Levante» contava fino a «6.000 combattenti in Iraq e 3.000-5.000 in Siria, inclusi circa 3.000 stranieri». L’autore citava The Economist in merito a «forse 500 o più» combattenti provenienti da «Francia, Gran Bretagna ed altre parti d’Europa. Andando oltre i dati riguardanti coloro che hanno, nello specifico, abbracciato la causa dell’IS, era interessante leggere come, nell’anno precedente, «il numero degli occidentali» che si «erano recati nella regione» passando al radicalismo fosse cresciuto «dalle centinaia fino a 3.000».

Il reclutamento, da parte di organizzazioni radicali in Medio Oriente, di militanti provenienti da altre regioni del mondo è un argomento vivo e serio. Giustamente, i media dedicano attenzione al pericolo costituito da potenziali nuovi combattenti in arrivo dall’Unione Europea. Persone che, armate – tra l’altro – di fanatismo e di un passaporto dell’UE, potrebbero diventare una minaccia non trascurabile se decidessero di tornare indietro e compiere, ad esempio, un atto terroristico. Continuando a fare riferimento al continente europeo, risulta interessante lanciare uno sguardo a quel che accade in Paesi che non sono ancora membri dell’Unione ma coinvolti nel processo di allargamento. Si pensi, ad esempio, alla Bosnia ed Erzegovina, stimolante quanto complesso contesto sociale ed istituzionale posizionato nei Balcani.

Come è possibile leggere su una pagina web dedicata a tale Stato dalla Direzione Generale per l’Allargamento (Commissione Europea), «la Bosnia ed Erzegovina – insieme ad altri Paesi dei Balcani occidentali – è stata identificata come candidato potenziale per l’adesione all’UE durante il vertice del Consiglio Europeo di Salonicco nel giugno 2003». Oltre alla menzione di un «numero di accordi» firmati con Bruxelles, notiamo come quest’ultima continui a «dislocare risorse considerevoli» in tale ex fetta della dissolta Jugoslavia nell’ambito della «Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC) e della Politica Europea di Sicurezza e Difesa (PESD)».

Se l’Unione ha interesse alla stabilità della regione balcanica, tenere d’occhio il supporto che organizzazioni radicali ed armate sono in grado di trovare in quest’area diviene abbastanza logico, specialmente in un momento delicato come quello attuale. Per quanto attiene alla Bosnia ed Erzegovina, prima di metà settembre, Balkan Insight parlava di circa «16 persone arrestate», pochi giorni prima, «in un’operazione su scala nazionale» condotta da «centinaia di poliziotti per sottoporre a fermo sospetti finanziatori e reclutatori di combattenti musulmani per i conflitti in Siria ed Iraq». Lo stesso articolo citava «Vlado Azinović, professore alla Facoltà di Scienze Politiche di Sarajevo», il quale diceva che, secondo le stime, nei «tre anni dall’inizio del conflitto in Siria, pressappoco 160 uomini provenienti dalla Bosnia ed Erzegovina sono stati lì e circa 20 donne». Si tratterebbe, per la maggior parte, di persone provenienti dai «margini sociali, economici e perfino geografici» e con un livello di istruzione limitato. Certamente, si riportava anche come le «famiglie di alcuni dei sospetti arrestati […] insistessero» sull’ingiustizia di tale azione.

È chiaro che in merito a tali arresti non siamo in grado di dire chi abbia ragione ma, senza dubbio, la tensione è alta e «le autorità bosniache» sarebbero risolute nell’inasprire il «giro di vite nei confronti di coloro che sono sospettati di fornire combattenti alle forze insorte in Siria ed Iraq». D’altra parte, due giorni dopo l’articolo citato, la stessa pubblicazione annunciava l’intento delle «autorità» di rendere effettiva «una nuova gamma di sanzioni penali». In questa occasione Balkan Insight citava Goran Salihović. Il funzionario dell’Ufficio del Procuratore di Stato confermava l’impegno «degli enti giudiziari e di polizia» ma, in merito alla decisione di alcuni cittadini di andare a combattere in nome di un certo radicalismo, notava come tale problema riguardi anche altre parti dei Balcani, facendo riferimento a «Serbia, Macedonia, Kosovo» e «Montenegro […], dove alcune persone si stanno unendo a formazioni paramilitari sui fronti di Iraq, Siria, Ucraina».

Secondo un articolo del Professor Blerim Reka pubblicato il 23 settembre sul sito internet dell’Austrian Economics Center (AEC), circa «600 mercenari provenienti da Serbia, Macedonia, Albania, Bosnia ed Erzegovina, Croazia e Kosovo stanno combattendo in Ucraina, Siria ed Iraq». Inoltre, «il sei per cento di tutti i combattenti stranieri in Iraq e Siria» verrebbe dall’area balcanica. Un quesito interessante era se tali combattenti siano motivati da «denaro o ideologia», rendendo – in questo secondo caso ed a nostro avviso – la parola mercenario un po’ meno appropriata. Comunque ed al di là delle questioni di terminologia, l’autore menzionava diversi tipi di fattori motivazionali, che potrebbero essere sociali, culturali, finanziari, religiosi. Alti tassi di «disoccupazione e scarsa istruzione» sarebbero in grado di costituire dei «fattori chiave che influenzano la generazione più giovane» nella scelta di «combattere all’estero», senza trascurare un possibile ruolo giocato da un’«informazione liberamente accessibile riguardo alcune organizzazioni e movimenti religiosi radicali». Certamente ed anche lasciando da parte le motivazioni, i combattenti che ritornano a casa potrebbero rappresentare un rischio per la sicurezza e la stabilità nel contesto della «democrazia dei Balcani soltanto due decenni dopo le loro guerre».

Con riferimento alla regione balcanica, di recente, sul sito internet di The Daily Star (Lebanon), si nota come una «congiuntura economica negativa in Stati deboli» scossi dai passati conflitti abbia «infiammato gli animi» di alcune persone private dei propri diritti. Di certo, si possono riconoscere tracce di un terreno fertile per la ricerca di nuove reclute guardando al passato. Alcuni media, ad esempio, spiegano come «negli anni Novanta, i guerriglieri mujahedeen», in seguito al conflitto in Afghanistan, «cercassero un nuovo campo di battaglia e lo avessero trovato» in quest’area, «dove i Bosniaci musulmani stavano combattendo le forze serbe e croate».

In generale, tale tipo di questione è preoccupante per tutti i Paesi obbligati a farvi fronte. Trovare soluzioni efficaci per fermare questo fenomeno senza approcci repressivi e discriminatori nei confronti della popolazione è, a nostro modo di vedere, un importante – non semplice – precetto che le pubbliche istituzioni dovrebbero tenere a mente.


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