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Uno sguardo sulla poesia a Sud e l’”Antigruppo” (2/4): Punti di contatto e riferimenti. Saggio di Antonino Contiliano

Creato il 04 agosto 2010 da Retroguardia

Uno sguardo sulla poesia a Sud e l’”Antigruppo” (2/4): Punti di contatto e riferimenti. Saggio di Antonino Contiliano

[Fernand Léger, Les constructeurs (1950)]

di Antonino Contiliano

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Punti di contatto e riferimenti

La situazionalità insulare dei poeti siciliani contemporanei, tuttavia, non ha significato mai isolamento, sebbene le nuove categorie della poesia siciliana – ” l’isolitudine e la sicilitudine “(16) – convivessero con il vecchio mito idillico del buon tempo andato e della civiltà contadina, ripiegata tra angoscia e dolore, fuga e ritorno, esilio e nomadismo e, a volte, lamento e vittimismo. L’isolitudine (espressione coniata dal poeta Lucio Zinna) e la sicilitudine (espressione coniata dal poeta Crescenzio Cane) “Sono due aspetti dell’<insularità> (…). La prima denota l’insularità in dimensione sociologica, la seconda in dimensione esistenziale (…). L’isolitudine emerge ogni qualvolta ci si faccia isola nell’isola, sia nel caso in cui tale situazione appaia esaltante sia nel caso in cui appaia penosa”(17).

Il nuovo meridionalismo, infatti, avendo preso coscienza che il sottosviluppo non era una questione di fatalità storica o d’antropologia pessimista ma la conseguenza di scelte mirate della classe al potere, cercava di scrollarsi di dosso le maglie del recinto e di guardare oltre con la volontà di voler cambiare e incidere nella costruzione del proprio destino o di guardare nella propria memoria per rapportare i siciliani ad altre esperienze senza far perdere loro la propria inquieta identità.

L’isolitudine, infatti, sebbene caratterizzi la dimensione soggettiva ed esistenziale dei poeti, non è né chiusura né isolamento. Essa è bensì la consapevolezza di un’identità insulare specifica che non vuole perdere i caratteri propri, e a questa vuole richiamarsi anche quando se ne allontana. Neanche i poeti della cosiddetta “diaspora” (la diaspora è anche un luogo mentale che cattura i poeti che rimangono sull’Isola), mentre abbandonano l’Isola materialmente o idealmente, perdono la dimensione dell’isolitudine. Questa, infatti, si ripresenta come memoria o proiezione del dove ci si può ritrovare, cercare, riflettere, progettare insieme, dentro e fuori l’Isola. La nostalgia per la propria terra che, nel Codice Siciliano di Stefano D’Arrigo, accomuna sia i marinai greci, che per un motivo o un altro si allontanavano dalla propria origine, e gli emigrati siciliani, con il peso e la disperazione della loro sorte di dannati sociali, è nello stesso tempo la diaspora-nostos di un poeta che emblematicamente riflette tale situazione. Il poeta, rimanendo sull’isola, parte con i marinai di ieri, gli emigranti di oggi, che partendo per un “mito” hanno sempre la nostalgia nel cuore come l’Odisseo di Omero: “ritti / o chini sui talloni, nella posa / dei cafoni, qui o là, / in Australia, nell’aldilà, / oltremare, dovunque sia / una miniera, un qualsiasi / budello per seppellire / l’enigmatica frenesia / di chi per morte s’imbarca / come su di un’arca / di libertà, coi bisogni / stretti alla vita e i sogni /, zavorra viavia / da gettare e alleggerire /  i petti di nostalgia…(Pregreca) […] Anche di là gli innocenti / emigrarono, strage su strage, / dal calcare di Pantalica / in America, nel Borinage”(18).

La sicilitudine è invece la presa di consapevolezza del comune destino che affratella i siciliani, non più contadini ma neanche ancora completamente operai o addetti ai servizi (terziario), gli altri meridionali e i soggetti esclusi e ghettizzati degli altri Sud nel medesimo destino d’emarginazione, di sfruttamento coloniale e anche di impegno comune per il cambiamento.

L’isolitudine e la sicilitudine, allora, come ha scritto Zagarrio è il nuovo Sud che si fa conoscere con “febbre, furore e fiele”; è il Sud come metafora che sposta l’asse semantico “dal piano strettamente naturalistico a quello mentale (…) e con esso l’operazione di transfert che si sostituisce definitivamente alla descrizione paleorealistica o diretta (…). Allora il Sud può diventare un territorio della coscienza tormentata dalla categoria dell’assenza. E ora è la ferita cocente dello sradicamento; ora è la privazione di un bene-paradiso-perduto, magicamente cioè struggentemente confitto nella memoria vuoi storico-biografica vuoi geocosmica: ora è la coscienza dello <spaesamento> (che sposta la tensione interiore dalla dimensione del <furore> a quella di una infinita inerzia o metanoia oppure di una prolungata agonia che investe il paesaggio sociostorico meridionale ma per espandersi sull’intera civiltà cosiddetta occidentale); ora è la condizione straziata di una impossibilità ad essere quel che si dovrebbe; (…) ora è lo strazio della maistoria (…). Sud come categoria della coscienza post (delusa) all’insegna ormai rasserenata di un acquisito definitivo <fallimento> (…). Viceversa, il Sud può diventare il territorio coscienziale e strutturale di un di più che lievita il materiale dell’immaginario e lo espande oltre i limiti della significazione semplice o diretta e fino a scoprire zone semanticamente diverse e di diverso sapore-spessore. Si spiega così l’accrescimento che viene alla poesia del nuovo Sud dal <viaggio> nel territorio antropologico d’origine (…) il muoversi cosmopolita o anche geocosmico (e circolare) di Bartolo Cattafi, che alla agave, la pianta/emblema della grande isola mediterranea, affida fin dal suo primo proporsi la metafora della inquieta anima del Sud, cioè del suo essere radicata (con fitte radici) in un suolo arso dal sole e dal salino, per interrogare il mondo, esperimentarlo nei suoi infiniti vitali e farne bagaglio immensamente ricco e doloroso: da usare nei necessari ritorni e per il sogno delle nuove inutili tessiture di partenze, come di rondini o meglio di <allodole> autunnali (…). Si spiega così in particolare, da questa necessità di radicali ricominciamenti, il nuovo ampio ricorso a quel di più della struttura comunicativa che è data dal dialetto (…) al dialetto – inteso – come l’ampio territorio dell’espressione orale a cui ricorrere per ottenere strumenti più adatti a rivitalizzare il materiale della lingua-istituto e ad eccitarne le creatività (…) certi innesti (…) di lessico o di strutture sintattiche del dialetto o comunque riferibili alla grande ricchezza semantica della oralità (…). Implicito nella stessa categoria dell’accrescimento, esiste e si fa operativo l’effetto <oltranza>, quando infatti, per una più accentuata spinta della ricerca, l’accrescimento va oltre lo stesso motivo del Sud (…) che (corsivo nostro) tende a perdersi come luogo mitopoietico a sé stante, e a combaciare col più generale <esserci> o con il territorio più ampio dello <sperimentale>. Lo scarto, a questo punto diventa d’obbligo; e di fatto si registra ampiamente in un tabulario già fitto di operazioni, che collaborano intensamente con le ricerche delle nostre avanguardie concettuali e linguistiche più avanzate, soprattutto si muovono, a livello di oltranza sperimentale, insieme se non addirittura alla testa delle ricerche più attive, perfino di quelle più spericolate del nostro territorio nazionale” (19).

La poesia siciliana contemporanea, dunque, insieme al nuovo meridionalismo che ha preso consapevolezza politica dello sviluppo di classe e dell’isola come arcipelago aperto, si presenta in un ampio orizzonte di relazioni interne ed esterne con la dimensione del “negativo attivo” (20) (negatività che reagisce con rabbia, polemica, grido, impegno, ecc.), con il sotterraneo legame che relaziona l’interno dell’isola all’esterno del resto del mondo (anche sul piano della ricerca sperimentale) e con il riconoscersi nel comune bisogno del rinnovamento di tipo estetico e delle poetiche. Il rinnovamento riguarda anche la ricerca di proposte operative d’antisistemi sia per la produzione e la circolazione letteraria (autogestione e cooperazione editoriale) sia per i contatti con il pubblico. In questa direzione deve essere inquadrata la dilatazione semantica del Sud che ha portato a rapportarsi con gli altri Sud del mondo. La ricerca, infatti, ha portato i siciliani a una pratica di scambio siciliano/mediterraneo che va dai contatti filoellenici, a quelli con il mondo arabo, con quello angloamericano underground e con l’Europa dell’Est. Dal 1985 ad oggi, dice il poeta Lucio Zinna, ” si accentua la tendenza verso una insularità aperta. L’isola resta prevalentemente punto di partenza e/o di riferimento; osservatorio privilegiato; angolo di mondo, con problemi gravissimi (mafia, disoccupazione etc.), in ogni modo non più rifugio esaltante o disperato. Il poeta siciliano va liberandosi dall’obbligo di occuparsi della propria isola in primissima istanza (…). Il <restare/partire> non è più dilemmatico (…). In atto i poeti siciliani sono interessati da una pluralità di temi, nessuno dei quali necessariamente legato all’isola, se non come dato scenografico o habitat: una dimensione planetaria o cosmica in alcuni; in altri il microcosmo della quotidianità; in alcuni la dimensione dell’oltre, in altri l’impegno esistenziale; in alcuni la rivoluzione tecnologica e telematica, in altri il fascino dei giochi lessicali e così via” (21).

La poesia siciliana, basta guardare ai suoi classici (Salvatore Quasimodo, per esempio), aveva mantenuto comunque aperti anche nel più recente passato i contatti con la poesia europea – francese e spagnola – tramite l’esperienza surrealistica che in Italia, poi, prese il nome d’ermetismo.

Con la Spagna, inoltre, i legami non sono mai venuti meno: nel 1989, la rivista internazionale di poesia Equívalencías, con una postfazione di Nicolò Messina, pubblicava un’antologia di poeti siciliani contemporanei tra i quali il palermitano Elio Giunta, Antonino Contiliano e altri. Riportiamo qualche passo.

Roviniamo declivi le carezze eterne / degli dei / e piangono amari la lontananza / dei giochi ieri proibiti e notturni: / hanno visto disteso il tuo stupore / cullato dagli ulivi sui laghi in-finiti / occhi astronavi nei giorni del papavero /…/ Siamo la terra quasar d’universi altri / la terra che nasconde la tristezza della luna / perché gli uomini hanno pietà degli dei / e piantano cuori d’inferno nei cieli qui / d’estate quando in ginocchio la pioggia vibra / ai confini del canto un desiderio d’ali.” (“Derrumban declives las caricias eternas / de los dioses / y lloran amargos la lejanía / de los juegos ayer prohibidos y nocturnos: / han visto extendido tu estupor / acunado por los olivos sobe lagos in-finitos / Ojos astronaves en lod días de la amapola. /…/ Somos la tierra quasar de universos otros / la tierra que esconde la tristeza de la luna / porque los hombres se apiadan de los dioses / y plantan corazones de infierno en los cielos aquí / de verano cuando de rodillas la lluvia vibra / en los límites del canto un deseo de alas.”)[22].

Ciò che sprizza dagli occhi / come ritmo di gioia / tu sei / parola saetta / che parte dolce e saltella / qua e là / e non fa male, perché non sai / quando finirà per colpire.” (“Lo que irradia de los ojos / como ritmo de alegría / tú eres / palabra de saeta / que parte dulce y remota / aquí y allá / y no hace daño, porque no sabes / cuándo acabrá dándote.”)[23].

Analoga operazione era stata fatta con la Romania nel 1984 con Trinacria Poeti siciliani contemporanei (24). La Macedonia, nel 1993, con l’Antologia della poesia italiana contemporanea (25), pubblicava anche alcuni poeti siciliani contemporanei dell’Antigruppo siciliano trapanese: Rolando Certa e Antonino Contiliano.

Ora, considerata l’attualità dei processi storici, il fronte della militanza poetica si allarga. La Sicilia, sull’onda d’urto di uno sviluppo che aumenta i Sud del mondo portandoli ad unirsi per le condizioni comuni di povertà e d’espropriazione, cerca e trova i compagni della “diaspora” per un patto di unione e di lotta. Era necessario, anche ironizzando e dissacrando, impiegando metaforizzazioni assurde e paradossali, utilizzare assunti e presupposti critici comuni di partenza, e liberare il senso degli equivoci ideologici dei messaggi culturali egemoni che erano trasmessi tramite il linguaggio verbale e massmediale. Un linguaggio che investe tutti, ma che non tutti, specie i poveri culturalmente, privi di poteri critici funzionali, erano in condizione di decodificare. La sicilitudine, infatti, vista come condizione d’emarginazione e di subalternità che, nello sviluppo contraddittorio del mondo, aggredisce tutte le zone, specie quelle più deboli – i vari Sud del pianeta -, spinge i poeti siciliani verso quegli universi poetici che, contestando e sperimentando, vanno dal resto dell’Italia meridionale, a Firenze, all’underground americano, scozzese, all’Africa di Sédar Senghor, ai contatti europei ed extraeuropei, ai poeti dell’est e dell’ovest che subiscono, insieme al popolo, un potere repressivo o lottano più o meno apertamente contro le dittature.

Mentre in Sicilia si voleva creare quasi un’internazionale dei poeti e degli scrittori, una parte della poesia italiana, soprattutto fuori del Sud, giocava le proprie carte invece sul piano delle sperimentazioni puramente linguistiche. Nascevano i lavori formali dei cosiddetti Novissimi del Gruppo 63, la disseminazione della soggettività scissa tra frantumazione e unità primordiale e l’io destrutturato e plurale della “nuova poesia“. A quest’ultimo indirizzo la rivista Nuova Corrente (26), in Italia, negli anni Ottanta, dedicava un attento e consistente lavoro d’indagine.

Nel Meridione e nell’Isola, le cose però prendevano un’altra piega. Accanto a una produzione che non ignorava le ragioni della soggettività e della poesia lirica, accanto alla pluralità tematica e delle forme espressive e alla complementarità di linguaggi e registri che vivacizzavano la dibattuta questione del far poesia, del come e del perché, nasceva una poesia dell’impegno e del dibattito sulla politicizzazione dell’estetico-poetico e della sua lexis. Il mondo poetico siciliano cercava e voleva mantenere il suo rapporto con il/i soggetto/i in vista di un’identità oppositiva e in funzione di quell’alternativa al sistema dominante che, come si diceva allora, voleva l’utopia e la fantasia al potere. Il soggetto politico di questa contestazione radicale, differentemente da quanto previsto dal marxismo ortodosso, non era né la classe operaia né quella del patto gramsciano contadini-operai o quella dei sottoproletari e borgatari di pasoliniana memoria; erano gli studenti e i giovani di tutto il mondo che, forti delle spinte che venivano dal pensiero di Sartre, di Marcuse (Arte e Rivoluzione [27]) e dalle nuove scuole psicoanalitiche e strutturaliste, cercavano alleanza con gli intellettuali e la classe lavoratrice per sperimentare forme di vita autogestita autenticamente libere, non integrate e fuori del controllo degli apparati di potere.

L’aspetto politico dei fatti estetici, naturalmente, nonostante tutto fosse considerato politica, non voleva essere un’assunzione della poesia come politica quanto un voler ridare alla poesia, mediante la parola estetico-concettuale che la caratterizza, il suo spessore di fatto comunicativo intersoggettivo e per ciò stesso evento pubblico, politico, che in termini sperimentali d’avanguardia o in altre modalità potesse dire l’essere e il non essere, la coscienza e il mondo, l’apparenza e il nascosto, il ripetersi e la novità della storia e della società, ecc.. La parola, infatti, è tale se si esercita – praxis – tra persone che agiscono ed esprimono opinioni e concetti nell’intersoggettività della comunità dei parlanti e dei cittadini, che in forma associata o  singola, riescono a mettere in circolo ciò che hanno da dire. Ecco perché, per esempio, la scelta dei poeti siciliani dell’Antigruppo di luoghi pubblici per leggere e dire la loro parola poetica attraverso i vari temi e gli stili personali di ciascuno (e ciò è avvenuto in varie forme).

In un repertorio dei poeti degli anni Ottanta, Domenico Cara così scrive: “Il poeta scrive se stesso, le figure del proprio immaginario, con forme intertestuali e temi di esso; mette in questione la propria diversità, media il senso uniforme, fonda le istanze per l’impresa emozionale ed intellettuale, si libera di ciò che crede, inietta nel mondo la propria identità per exempla di vita e di non vita, dissemina nel mondo pretesti con <volontà e rappresentazione> schopenhaueriani di senso dell’attualità e panorami di prospettiva contemporanea attraverso il suo assoluto che è la lingua”(28).

Nell’atmosfera della poetica e della poesia siciliana, nell’arco di tempo proposto e così generalmente, navigavano, seppure senza molto rumore e quasi di nascosto e con molta riservatezza degli stessi autori, anche forme di sperimentalismo e di poetiche che presagivano le inquiete esperienze e le plurali poetiche che si maturavano e consumavano in quegli anni. Non amavano le chiuse delle scelte lirico-emotive né tanto meno stavano lontani dalle varie tematiche dell’epoca, vuoi quelle sociali o di taglio filosofico-culturale o di attenzione alla pratica della lingua e della scrittura. I nomi, già ricordati, sono soprattutto quelli di Stefano D’Arrigo, Antonio Pizzuto e Edoardo Cacciatore. La febbre delle immagini e, sul piano linguistico, “l’inserimento – assai sobrio – peraltro, e quasi casuale, appena velocemente accentuativo di una linea elevata – in totale assenza, quindi di intenzioni dissacranti – di termini del parlato di matrice dialettale o gergale nel tessuto colto della scrittura”(29), del neobarocco di Stefano D’Arrigo è uno degli esempi. Il neobarocco di D’Arrigo è una sperimentazione e un progetto, che, come per le avanguardie e gli sperimentalisti, significa rifiuto del dato e ricerca del nuovo. Il barocco, a suo tempo, del resto, era stato un modo, a nostro parere, di dire che la realtà e la conoscenza non potevano essere esaurite all’interno della trasparenza dell’ideologia dominante, della scienza o comunque della razionalità e dell’ordine della modernità, e non solo dal punto di vista dei modelli culturali. Un altro “inappartenente”, per dirla con Stefano Lanuzza, è Antonio Pizzuto. Lontana dalla cronaca dei fattarelli, indeterministica, nominalistica e anticonnotativa, come sottolinea sempre il Lanuzza, e frutto di una verbalizzazione-scrittura che provoca tutte le possibilità della lingua per dare percezioni intensamente rappresentative, è l’opera di Antonio Pizzuto. “L’indeterminismo, che agisce dopo la soppressione delle forme finite o determinative del verbo, vuole un Pizzuto – ed edonisticamente! – lo stile nominale, la scomparsa dei modi finiti del verbo per un’estremistica epifania enunciativa; i barocchi accostamenti fonetici; l’etimologizzazione un po’ manierata; l’invenzione suffissale; gli anacoluti; la scoordinazione intermittente della sintassi (allora anche la stessa caduta della paratassi; la registrazione catagolativa alla maniera di Rabelais e Yoice; la sostantivazione aggettivata e l’aggettivazione sostantivata: tutte figure di una disperatissima ispezione della lingua, scompaginata nello sfavillio lenticolare dei monemi. (…) l’opera pizzutiana è antistoricistica ed emancipata da contatti con qualsivoglia linea storiografica, si fa leggere non per quel che potrebbe connotare ma per quanto denota, visto che, secondo Pizzuto, si conosce non la realtà ma solo <un> giudizio – eventualmente il proprio – sulla realtà”(30). Accanto a questo taglio fluente che attraversa lo stile di Pizzuto, e dietro il quale c’è un soggetto che vive, percepisce e restituisce rielaborata una realtà in continuo movimento, nell’aria siciliana, senza abbandonare l’estetico dell’esperienza alle astratte regioni dell’intellettualità concettuale, se ne segnala un altro, altrettanto robusto e solitario. È Edoardo Cacciatore, già citato e richiamato in più punti. Anche lui, outsider e solitario, senza il riconoscimento di una scuola, di un gruppo, della grande editoria e di un “pubblico della poesia”, è protagonista di una sperimentalità poetica, a suo modo anche ideologica, che richiama, materialisticamente e lucrezianamente, uno stretto rapporto tra poesia e filosofia. È una sperimentalità (si può pensare) che organizza, scrive e dice poeticamente l’eterologia, le differenze e le contingenze dell’essere materiale non-contraddittorio attraverso il logos del linguaggio e della scrittura. Galvano della Volpe, richiamandosi alla filosofia, l’aveva chiamata il razionale non-contraddittorio, l’identità della contingenza tautoeterologica (31).

Una relazione circolare dinamica e dialettica di essere e non essere, di unità e molteplicità, ragione e materia, continuità e discretezza, che il mondo borghese aveva scisso in un rapporto di esclusione e di separazione tra pensiero e azione, produzione sociale e appropriazione privata, cultura materiale e cultura spirituale, poesia e prosa del mondo escludendo il tertium datur o il mondo dei produttori socialisti (32).

Nel Novecento, forse, nessun poeta è “quanto Cacciatore, agente di un possibile discorso sul rapporto tra poesia e filosofia, tra il fare poetico e il logos filosofico, dove la mimesi della versificazione implichi una poetica come filosofia, cioè una base loica della soggettività emozionale ed espressiva. Ma una poetica che, senza additare un qualsivoglia primato – né quello della poesia, né, tanto meno, quello del logos -, sia polisemica e , combinata, articolata o disciolta nei linguaggi e quindi non modificabile né riducibile ad alcuna norma, scuola o tendenza: una poetica, insomma, che ha già percorso i nessi dialettici tra il contenuto e la forma, ovvero tra le dimensioni dell’entropia (dell’informe materialità dionisiaca o caos informativo e, pour cause, informale) e della simmetria (la lucidità formalistica che strappa l’oggetto al caos entropico)”[33].

In questa fine Novecento, dunque, la poesia siciliana è composita e attinge dal suo profondo magma materiale e storico culturale sperimentando la realtà dentro forme linguistiche che richiamano le poetiche quanto le filosofie, le esperienze di scrittura del passato quanto quelle che si cimentano con le innovazioni – le avanguardie -, insomma, il teatro delle forme simboliche, entro cui l’umanità, ma soprattutto la soggettività dei soggetti, ha forgiato il proprio bisogno affabulatorio aderente o meno alle visioni dominanti o a punti di vista dissidenti. “Avanguardia è nozione polemica che sta a significare una letteratura d’opposizione rispetto alla produzione letteraria corrente e normalmente ricevuta. Che tale contrasto assuma un aspetto ideologico, è un ovvio corollario, in quanto gli standard del gusto sono quelli sanzionati dalla collettività borghese e coonestati in un ordine rassicurante, che si propone come definitivo”(34).

Le correnti di riferimento e di riconoscimento, senza pretesa di un compiuto censimento, impossibile comunque per le mille sfumature che possono caratterizzare il pensiero di ciascuno, erano il realismo mimetico e critico, il materialismo in genere e quello storico dialettico marxista, le indicazioni di analisi e di lavoro della scuola di Francoforte con la dialettica negativa, l’estetica di Adorno e le poetiche che tematizzavano arte e rivoluzione o le esperienze più o meno azzardate che cercavano di coniugare insieme comunicazione e sperimentazione, vecchio e nuovo. E ciò per opporre all’ideologia della letteratura dell’opera, come consumo di significati integrati e mediati dal mercato, un’idea critica della letteratura e della poesia che nello stesso tempo funzionasse come coscienza critica e progettazione, e quindi rifiutasse sia la morte dell’arte sia l’arte per l’arte e salvaguardasse la funzione semantica del messaggio poetico mantenendo fermo il valore della lingua come segno e lo scarto tra significante e significato. Fra i protagonisti dell’Antigruppo siciliano, queste questioni sono state oggetto, oltre che di polemos, anche di scissioni. Non tardarono, infatti, annota lo storico della letteratura italiana, Giuliano Manacorda, “ad emergere differenze tra le varie componenti dell’Antigruppo, quella populista e democratica, e quella neosperimentale. La prima intendeva continuare la lotta contro il disimpegno ideologico e per la valorizzazione dell’underground e della cultura siciliana e lo scambio con tutti gli <anti> d’Italia e gli <under> d’Europa e d’America, rimproverando agli scrittori dell’altra componente l’esasperato individualismo, il massimalismo verboso e <l’ottica gruppettara ed aristocratica>. Questi (Terminelli, Apolloni, ecc.) replicarono fondando una loro rivista (Antigruppo Palermo poi divenuto Intergruppo) e accusando gli ex amici di riadattare schemi neorealistici e populistici. Il loro neosperimentalismo si accostò poi alla poesia visiva, superata successivamente dalla <singlossia>, cioè la <complementarità di due o più linguaggi tradizionalmente autonomi>, quale già si realizza nei mass media con un processo di sovrapposizione o identificazione delle cosiddette Arti belle e le cosiddette Arti minori. (…). Con Nat Scammacca, infine, l’Antigruppo registra quasi una posizione di cerniera tra l’effusione epico-lirico-didascalica e la ricerca neosperimentale; ma lungi dal trattarsi di una pacifica mediazione, è l’instancabile spirito polemico a rilanciare di continuo le sue proposte valide soprattutto per l’animus che le muovono e le rinnovano”(35).

In tutti si ravvisa però un comune discorso demistificante e propositivo miscelando emozioni e logos, immagini e concetti, linguaggio e ideologia, ironia e progettualità. Erano attenzionate le proposte che connettevano criticamente scienza, ragione e immaginazione e le nuove logiche (agenti all’interno della contraddizione come generale strumento d’indagine e conoscenza non più demonizzata) che recuperavano la funzione conoscitiva ma anche demistificatoria della metafora, focalizzavano la nascita della nuova retorica e delle forme della poesia visuale e concreta, ecc. dello sperimentalismo ultimo novecento (i poeti siciliani, però, generalmente hanno continuato a scrivere privilegiando la poesia verbale). I pensatori ai quali si guardava sia dal punto di vista ideologico e filosofico in generale, per un possibile fondamento teorico alla peculiarità del linguaggio poetico, e alla funzione anche politica dell’estetica e delle poetiche erano Gramsci, Korsch e Lukacs di Storia e coscienza di classe (tre uomini che avevano sottolineato l’aspetto soggettivo della prassi e il carattere di rischio che ciò comportava all’interno della dialettica – non più determinista – del marxismo e per questo sottratta al necessità dello sviluppo inevitabile della dottrina del DIAMAT – materialismo dialettico – staliniano), Sartre, Della Volpe, Goldmann, Marcuse, Bloch, Benjamin, Majakovskij, Brecht. ­­

La Critica del Gusto (36), per esempio, di Galvano della Volpe, fondando la dimensione del contestuale organico del linguaggio poetico – l’aseità semantica della poesia –  come processo d’interazione sociale (anche l’onnicontestuale del linguaggio scientifico, lo sarà) sul linguaggio onnitestuale della comunicazione quotidiana, indicherà la funzione derealizzante, e perciò di rottura, dell’equivoco, connaturato alla genericità del linguaggio quotidiano, trasportato sotto forma di polisemia nel testo poetico, e senza detrimento per l’informazione. Il segno poetico, infatti, come segno linguistico è una rete circolare che implica anche il rapporto con un referente e altri soggetti.

Brecht, mettendo a punto la sua teoria dell’estraniazione, effetto “V”, e la sua poetica realistica, funzionale ai bisogni della lotta, come lui stesso dirà, anche lui sottolineava la natura relazionale, convenzionale-arbitraria del triplice ordine del segno – ordine tra i segni, tra i produttori e i referenti – e l’importanza semantica del messaggio poetico stesso, senza il quale non ci poteva essere né conoscenza né distacco, né consapevolezza critica rispetto al cosiddetto reale naturalizzato e mediatore di consensi d’ordine. Se lo specifico dell’arte è segnalare le strutture linguistiche, non per questo il livello semantico deve rimanere subordinato o ignorato. I modi della comunicazione, secondo Brecht, infatti, non debbono esser confusi o identificati né con i referenti oggettivi né con i significati. Diversamente se ne perderebbe la storicità e si cadrebbe in una mimesi magica che oggettiverebbe, con totale vantaggio dell’ideologia dominante, il senso delle cose come una qualità intrinseca delle stesse e immutabilmente universale. I valori esistenti, distogliendo l’analisi, la ricerca e il giudizio sul presente e la storia, ormai denudati della bellezza e dell’unità, perché mondo di eventi il cui ordine non è mai prefabbricato ma costruito in itinere, verrebbero trattati, infatti, come sostanze reificate nei fenomeni e in una vuota trascendenza.

Benjamin, anche lui, e però poco apprezzato, se non tenuto alla larga dai marxisti ortodossi, è stato bussola d’orientamento per molti poeti e intellettuali siciliani che non volevano perdere l’orizzonte politico del far poesia e dei fatti estetici nel senso più ampio del temine. È un altro dei pensatori, infatti, che alla poesia, nella dinamica storica del Novecento, ha associato anche una giusta significazione politica. Di questa storia discreta e zigzagata, frammentata e ricucita con schemi di relazioni di significazione allegorica, ha, infatti, valorizzato le esperienze avanguardistiche e antiborghesi del Novecento. Per questo ha scelto l’allegoria come procedimento intellettuale di visione e come strumento di conoscenza e di analisi rispetto a quello immaginativo del simbolo, che solo astrattamente unifica la coscienza e il mondo o risolve le contraddizioni in una totalità organica e chiusa. “Nel campo dell’intuizione allegorica l’immagine è frammento, runa. La sua bellezza simbolica si vanifica perché lo colpisce la luce della scienza divina. La falsa apparenza della totalità si spegne. Perché l’eidos si oscura, la similitudine viene meno, e il cosmo, in ciò, s’inaridisce. (…). Al classicismo non era dato di cogliere l’illibertà, l’imperfezione e la fragilità della bella physis sensoriale. Ma proprio questo propone l’allegoria del barocco, nascoste sotto una pompa sfarzosa, e con una intensità prima sconosciuta. (…). Ma ambiguità, molteplicità di significato è il tratto fondamentale dell’allegoria; l’allegoria, il barocco sono fini della ricchezza di significati. Questa ambiguità è però la ricchezza dello spreco; la natura invece è non in ultima istanza legata, secondo le vecchie regole della metafisica e non meno secondo quelle della meccanica, alla legge dell’economicità”(37).

La politicizzazione del fatto estetico era anche un antidoto all’estetizzazione diffusa e mistificante della società industriale. Questa, infatti, si avviava ad essere sempre più civiltà dell’immagine-spettacolo e a diventare radicalmente pervasiva nella civiltà postindustriale dell’era telematica, della telepresenza e dell’immagine totale. Occorreva quindi una forza di contrasto, e questa poteva essere ritrovata nel rinnovato uso pubblico, cioè politico, della parola dell’arte connessa alla responsabilità dell’agire insieme. L’estetizzazione spettacolare, di cui la tecnologia video-telematica d’oggi dà prova di forza e di crescita, è talmente ridondante che non condiziona più solo i processi psicologici e subliminali. Essa, alienando con più massiccia e intrigante penetrazione, incide e stravolge anche gli stessi schemi percettivi, di pensiero e di visione della vita delle persone. Le previsioni pasoliniane, che parlavano di una civiltà industriale che avrebbe sacrificato l’esteticità all’utensilità più bruta, erano smentite. Qualcuno dice, addirittura, invece, che la nuova società di fine millennio ha capovolto il grido di battaglia del ’68: non l’immaginazione ha preso il potere, ma il potere si è impadronito dell’immaginazione.

La politicizzazione della poesia dei poeti dell’Antigruppo, tranne qualche caso, per di più ristretto al campo di singoli testi poetici, non sconfina mai nella “propaganda” o nella bassa retorica del compiacere e del compiacimento. Nella poesia di questi autori siciliani messaggio politico e modus poetico di dirlo, in genere, si fondono in maniera funzionale.

Ma c’è un testo poetico che sfugge all’ideologia dell’autore?

L’Antigruppo, dice Emanuele Schembari, è “un movimento importantissimo che esamina criticamente le strutture socio-economiche della Sicilia (…) In pratica l’unico gruppo compatto, che opera in Italia tra gli anni ‘60 e ‘70. L’Antigruppo, movimento che risente anche del ’68 e dei beat americani (…), determina una poesia di denuncia, rancore e rabbia, in un intervento, che è politico, didattico e letterario, nello stesso tempo”(38), e porta i recitals dei suoi poeti ai contadini, ai minatori, ai pescatori, agli studenti e ai giovani nelle scuole e nelle piazze, legandoli all’immaginario del paesaggio e della cultura memoriale storico-proiettiva dei suoi destinatari mediato, come era stato messo in luce dalle ricerche di Adorno, anche con il ricorso alle metaforiche poetiche della modernità.

L’estetica di Adorno, “eterodossa nei confronti della tradizione storicista, idealista e marxista (…), tendente a cogliere la relazione tra letteratura e antropologia, per quanto riguarda il particolare ambito dell’ lirico”(39) del surrealismo, fu, infatti, punto di riferimento perché l’allegorico, metaforico e simbolico del surrealismo fosse rapportato anche al contesto socioculturale della nostra memoria culturale e storica per rivitalizzare l’humus antropologico meridionale. Il “surreale” diventava allora un modo diverso di comunicare l’opposizione alla realtà descritta dal linguaggio e dalle immagini dell’ideologia dominante, che nel frattempo si rinnovava sincreticamente fagocitando le differenze e le novità. Il non realismo o l’anti-realismo della poesia surreale così passa dalla dimensione soggettiva della lirica moderna a quella di oggettiva opposizione al mondo standardizzato e alienante della borghesia neocapitalista. L’opposizione è individuata nelle contraddizioni della società e riversata, così, nella pratica di una scrittura fortemente ossimorica, ambigua e polisemantica. La parola soggettiva, che ha dentro lo schema dell’imagery collettiva, diventa anche il campo di lotta dell’anima del gruppo sociale cui appartiene e la presa di coscienza e di azione di un intero popolo. “Lo stesso <visionarismo> metafisico e onirico è mediato da una base culturale, per cui la <trascendenza > si <interrompe > ed entra in rapporto con la < mimesi> sociale e con la razionalità (aperta), avendo una modalità per la quale la <memoria collettiva delle opere d’arte non è separata dal soggetto bensì si ha passando attraverso esso; nell’emozione idiosincratica del soggetto si rivela la forma di reazione collettiva>”(40).

Brecht, negli scritti intitolati Popolarità e Realismo, sosteneva che in una comunità di oppressori e oppressi, di sfruttatori e sfruttati, di ingannatori e ingannati, dove sono aumentate le sofferenze e le persone che soffrono, ancorati a una concezione realista dell’arte, occorre affermare la verità con urgenza. E il realismo non è una questione di sola forma o di moduli specifici da osservare. Lo dimostra il caso di Rilke che “non è popolare”. Nell’arte e nella poesia la popolarità e il realismo possono essere espressi e comunicati in forme insolite. “Che un’opera letteraria sia o no popolare non è una questione formale. Non è affatto vero che per essere compresi dal popolo si debbano evitare le espressioni insolite e assumere soltanto punti di vista consueti (…) Il popolo capisce le espressioni audaci, approva i punti di vista nuovi, supera le difficoltà formali, quando ci sono in gioco i suoi interessi (…) La realtà stessa è ampia, varia, piena di contraddizioni; la storia crea e rifiuta modelli (…) Per giudicare le forme letterarie occorre interrogare la realtà (…) La verità può essere taciuta in molti modi e in molti modi dichiarata.  Noi deriviamo la nostra estetica, così come la nostra moralità, dai bisogni della nostra lotta”(41).

Anche Maiakovskij indicava la stessa linea di lavoro. Il reale non si esaurisce nel contenuto, né tanto meno  è una questione solamente di forma e di forme determinate.  In Come far versi, aveva scritto che la creazione di regole e forme di ogni lavoro determinata dalle situazioni, dal fine della poiesis non come ispirazione-creazione romantica ma come produzione, composizione o systasis, come avrebbe detto Aristotele. ” Le situazioni che esigono una formulazione, che esigono delle regole, sono proposte dalla vita stessa. I modi della formulazione, il fine delle regole sono determinati dalla classe, dalle istanze della nostra lotta (…). Bisogna dare di colpo tutti i diritti di cittadinanza a un nuovo linguaggio: l’urlo al posto del canto, il fracasso del tamburo al posto della ninnananna (…). Il materiale delle parole e delle combinazioni verbali, in cui si imbatte il poeta, deve essere rielaborato (…). Di qui una prima sommaria indicazione degli elementi indispensabili per dare inizio al lavoro poetico, ossia: 1.la presenza, nella società, di un problema la cui soluzione è concepibile soltanto come un’opera poetica. (…) 2. La conoscenza esatta o, meglio, la percezione delle aspirazioni della propria classe (…) riguardo al problema dato, ossia un orientamento finalistico (…) 3. Il materiale. Le parole. L’ininterrotto arricchimento dei depositi, dei magazzini del proprio cranio con parole necessarie, espressive, rare, inventate, rinnovate e di ogni altro genere (…) 4. L’attrezzatura dell’officina e gli strumenti di produzione (…) 5. Le abitudini e i procedimenti di lavorazione delle parole, infinitamente individuali, che si acquisiscono dopo anni di lavoro quotidiano: rime, misure, allitterazioni, immagini, abbassamenti di stile, enfasi, finali, titoli, forme grafiche ecc. ecc.”(42).

J. P. Sartre ci aveva insegnato che scrivere è un impegno per la libertà dell’uomo, ma la libertà e l’uomo non sono quelli universali bensì gli altri, quelli “imbarcati” come affermava lui. Non esiste una libertà data: ” (…) bisogna liberarsi dalle passioni, dalla razza, dalla nazione, e liberare, con sé, gli altri uomini… Una caratteristica intrinseca alla nozione di uomo universale è quella di non impegnarsi in nessuna epoca particolare e di non commuoversi sulla sorte dei negri della Louisiana più di quanto non ci si commuove su quella degli schiavi romani all’epoca di Spartaco (…). Uno scrittore è impegnato quando cerca di acquistare una coscienza chiara e completa di essere imbarcato, cioè quando trasferisce l’impegno, per sé e per gli altri, dal piano della spontaneità immediata a quello della riflessione (…). Lo scrittore impone alla società una coscienza inquieta, perché è in eterno antagonismo con le forze conservatrici che mantengono l’equilibrio che lui vuole rompere”(43).

In un tempo come il nostro, del resto, anche il poeta spagnolo Rafael Alberti, convenuto a Mazara del Vallo nel 1982, in occasione del II Incontro fra i popoli del Mediterraneo sul tema “poeti per la pace“, “perché scrivere, per chi scrivere“, sottolineava l’impegno dei poeti: ” (…) mentre viviamo tra il garofano e la spada, credo che in questo momento il poeta è obbligato a essere la coscienza del suo popolo.  E con la poesia si può fare tanto.  Si possono commuovere le montagne, si può far ribellare la gente e i poeti oggi non muoiono nel loro letto”(44).

Nello stesso convegno, c’era chi rilevava l’urgenza di un impegno che si progettasse  anche come azione ora che il capitalismo avanzato aveva messo le mani sull’informazione e “del terrore e del massacro organizzato aveva fatto materia e forza produttiva e riproduttiva del suo nuovo modello industriale e sociale. Dalla «grande crisi» il neocapitalismo, per arrestare la tendenza dei popoli e delle classi verso una comunitas liberatoria democratico-socialista, aveva adottato, e sul piano internazionale e sul piano interno, una politica di assistenza e di pseudo «relazioni umane» onde attutire le cause e gli effetti del disagio socio-economico dei soggetti e del dissenso culturale. In quest’ultimo caso, anzi, si può dire che il dissenso culturale delle avanguardie e delle neoavanguardie è stato ingabbiato 1) dalla macchina pubblicitaria, 2) dai mass-media (nella cui gestione sono stati coinvolti gli stessi contestatori come mediatori consapevoli o inconsapevoli), 3) dall’emarginazione forzata, 4) dall’autoemarginazione per polemica fine a se stessa (…). Oggi il capitalismo maturo ha cambiato rotta e direzione: ha buttato via la maschera della tattica liberaldemocratica e si è avviato verso la «disciplina totale» delle soggettività, dei popoli e delle classi, programmando la produzione e la riproduzione computerizzata, pianificando il dominio con il consenso amministrato secondo il ricatto della paura e del terrore o per arresto e involuzione di ulteriore sviluppo o per minaccia di distruzione atomica, svuotando gli organismi e i movimenti partecipativi di valore e democrazia reali. (…). Un impegno volto a realizzare nella società contemporanea e futura i valori della dimensione utopico-scientifica in un soddisfacimento dei bisogni fondamentali ed irrinunciabili, come quelli della pace, della libertà, dell’eguaglianza, dell’Eros, che sono la negazione di quelli che padroni e dirigenti hanno fatto assimilare alle masse e agli individui nel sistema costituito.  Ciò richiede naturalmente un linguaggio nuovo, se vogliamo sperimentale, non conformista nel senso più ampio, nuove forme comunicative ed espressive, adeguate a nuovi obiettivi, per spezzare codici ed immagini interiorizzati, ormai cristallizzati e naturalizzati, inventando magari o reinventando in senso sovversivo, per esempio gli strumenti tradizionali dell’arte e della poesia: la natura, lo spirito, la psiche, il sociale, il politico, il sogno, le passioni, il male e la gioia di vivere e di esistere, le metafore, le analogie, la semiotica sintattica, semantica e pragmatica, ecc., ma certamente non in maniera inintelligibile e priva di poiesis. Lungi dal voler dire e sostenere che l’arte e la poesia siano solo quelle dell’impegno (il pluralismo è salvo), sicuramente si può dire che la teorizzazione del caos, dell’irrazionalismo assoluto o relativo, dell’anticonformismo elitario e chiuso, non aiuteranno l’arte e la poesia nella opportuna, anzi naturale e necessaria dimensione dell’impegno: le contraddizioni e le manipolazioni rimarrebbero occultate e sotterranee perpetuando il vecchio mondo”(45). E noi, specie al Sud, o d’Italia o d’Europa, cui particolarmente vogliamo riferirci, come luogo delle maggiori contraddizioni e manipolazioni – dei padroni del vapore ieri, dell’atomo, della cibernetica, dei computer della telematica civile e militare oggi – non possiamo rapportarci ad esse se non con quello scarto espressivo-comunicativo che qualifica le parole-concetti-immagini ambigue polisemiche del linguaggio poetico come valenza percettiva dirompente e significato di azioni sovversive.

Le nuove immagini estetico-intellettuali e il nuovo linguaggio, nell’iter del loro processo di pratica significante destrutturante e ricompositiva, devono comunicare, infatti, contenuti e valori nuovi che non siano l’espressione dell’uomo come ente generico del vecchio umanesimo borghese metafisico e astratto, diviso tra una cultura materiale e una spirituale, entro cui spesso sono rimaste le avanguardie che sono rimaste imbrigliate nelle polemiche interne, ma di un uomo concreto e in situazione che al futuro guardi immerso nell’ontologia sociale e politica rivoluzionaria.

(continua)

[leggi la puntata precedente  Uno sguardo sulla poesia a Sud e l’”Antigruppo” (1/4): Il contesto]

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NOTE

(16) Lucio Zinna, Il tema dell’insularità nella poesia siciliana del secondo Novecento, in Storia della letteratura, Vol. I, Guido Miano Editore, Milano 1993.

(17) Id., La dimensione insulare e il connotato del “restare/partire”, in Atti sul Convegno di studi su la poesia del secondo novecento siciliano, op. cit., pp.137-139.

(18) Mario Lunetta, Codice siciliano, o del moderato artificio, in Et dona ferentes, op. cit., pp. 175-176.

(19) Giuseppe Zagarrio, Febbre, furore e fiele, op. cit., pp. 323, 325-327.

(20) Ibidem.

(21) Lucio Zinna, La dimensione insulare e il connotato del “restare/partire”, in op. cit., pp. 175-176.

(22) Antonino Contiliano, Somos la tierra, in Equivalencias, (18), 1989, p. 44.

(23) Elio Giunta, , in Equivalencias, op. cit., p. 74.

(24) AA. VV., Trinacria Poeti siciliani contemporanei, a cura di Rolando Certa, Facla, Timisoara 1984.

(25) AA. VV., Antologia della poesia italiana contemporanea, a cura di Naum Kitanovski, Struga 1993.

(26) Nuova Corrente, (88) (89), 1982.

(27) Herbert Marcuse, Arte e Rivoluzione, in op. cit…

(28) Domenico Cara, Le figure del gioco e del (ri)fiuto nell’immaginario poetico degli Anni Ottanta, in Traversata dell’azzardo, Forum/Quinta Generazione, Forlì 1990, pp. 5-6,.

(29) Mario Lunetta, Codice siciliano, o del moderato artificio, in Et dona ferentes, op. cit., p.176.

(30) Stefano Lanuzza, Antonio Pizzuto, “poeta della scrittura”, op. cit., p. 309.

(31) Galvano della Volpe, Logica come scienza storica, Editori Riuniti, Roma 1969.

(32) Id., Critica dell’ideologia contemporanea, Editori Riuniti, Roma 1980.

(33) Stefano Lanuzza, Edoardo Cacciatore e la poesia della filosofia (Le “papille cosmiche” dell’inappartenente), in Lo Sparviero sul pugno, Spirali, Milano 1987, p. 311.

(34) Guido Guglielmi, Idea e ideologia della letteratura moderna, in Letteratura come sistema e come funzione, Einaudi, Torino 1967, p. 25.

(35) Giuliano Manacorda, Per un neoimpegno, in Storia della letteratura italiana contemporanea 1994-1996, 745,  Editori Riuniti, Roma 1996, pp. 742-743.

(36) Galvano della Volpe, Critica del Gusto, Feltrinelli, Milano 1979.

(37) Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1980, pp. 182-183.

(38) Emanuele Schembari, Le correnti della poesia siciliana del dopoguerra e i grandi isolati, in Atti del Convegno di studi su la poesia del secondo novecento siciliano, op. cit., p. 124.

(39) Antonio Motta – Carlo A. Augeri, Oltre Eboli: la poesia, Vol. II, Lacaita, Manduria 1979.

(40) Ibidem.

(41) Bertolt Brecht, Scritti sulla letteratura e sull’arte, Einaudi, Torino 1973, pp. 206-219.

(42) Mario Rossi, Majakovskij e Brecht, in Cultura e Rivoluzione, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 624-625.

(43) J.P.Sartre, Che cos’è la letteratura, Il Saggiatore, Milano 1966.

(44) Rafael Alberti, Discorso, in Atti del Convegno  degli Incontri fra i popoli del Mediterraneo, anno II, a cura di Rolando Certa, Città di Mazara del Vallo 1994, p.100.

(45) Antonino Contiliano, Il filo rosso della poesia in Il profumo della terra, Impegno 80, Mazara del Vallo 1983.

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* Antonino Contiliano, La soglia dell’esilio, Catania, Prova d’Autore, 2000, pp.114-131

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