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Valdez – il mezzosangue

Creato il 23 dicembre 2014 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

in In questa rubrica mai concetto fu più ribadito di quello che il West cinematografico è, più di qualsiasi altra cosa, uno stato mentale. Un teatro in cui tragedie greche e simbolismi si srotolano su un vasto lenzuolo di incontaminata nostalgia. Figure mistiche e severe, giusto per citare una nota traccia di Ennio Morricone, le cui storie sono trasportate dalla polvere e che spettrali si muovono in quello spazio vuoto tra cielo e terra. Abbiamo spesso parlato di quanto e come il genere si sia prestato alle metafore più disparate – Vietnam, caos sociale, disillusione nelle istituzioni, razzismo, ingiustizia – e di quanto al contempo il western sia stato, per gli uomini di molte generazioni, un punto di ritrovo e di forti transfert emotivi, quasi un non-luogo dove poter far galoppare una romantica visione della nostra più pura mascolinità. Tempo fa, su questa pagina, si scriveva che l’amore maschile per il West cinematografico nasce dal fatto che la lotta diventa chi sei. Per quanto la natura si possa accanire contro di te e per quanto la violenza possa circondarti, un uomo è definito dalle cose che fa e non da quello che dice, da come si veste o dal lavoro che ha. La propria stretta di mano, la propria parola e la propria reputazione sono le cose più preziose che uno possiede. Spesso queste riflessioni, su Dust, si sono intersecate con la figura di Charles Bronson e nel parlare del film di Tom Gries Io non credo a nessuno questo è quello che stato scritto su di lui:

Il talento, la bellezza o “l’importanza storica”, per quanto paradossale, non sono necessariamente i fattori determinanti, o perlomeno non appartengono a un ragionamento conscio, che ci inducono a legarci a un attore, che infiammano la voglia di vedere e rivedere quel volto che ci ha stregato. Come gli incontri sorprendenti, come uno sguardo tra la folla, come l’amicizia inattesa. Anche in questo il cinema somiglia tanto alla vita. Scorgiamo nella selva di nomi, facce e luoghi una figura che ci cattura più delle altre e ci trasporta nel suo mondo e sul suo percorso. Sul perché proprio quel volto, quell’attore, è impossibile dare spiegazioni. Del resto le passioni sono difficili da decifrare e, se non lo fossero, forse non sarebbero tali. Interpreti che si muovono sullo schermo con un magnetismo che ci ingloba e per cui le terminologie di rito perdono di efficacia. Charles Bronson rientra pienamente tra quegli attori capaci di catturarti e, perché no, di infonderti un’innocua forma di dipendenza. Forse è proprio questo il termine che più rappresenta lui e la fonte della lieve ossessione che sembra colpire tanti che lo scoprono: l’inafferrabilità. Tutto nella carriera e nella vita di Bronson sembra sfuggire a facili catalogazioni. Schivo, sensibile, imprescindibilmente legato a una donna che, molto più che la sua carriera, ha dato un senso alla sua vita, che ha alleviato i ricordi di un’infanzia difficile. Molti registi a cui è stata chiesta, negli anni, una dichiarazione su Bronson si sono trovati in difficoltà: puntuale, professionale, silenzioso. Amato dagli autori europei eppure perfettamente rappresentativo della virilità a stelle e strisce. Spesso in conflitto con la violenza rappresentata nei suoi film. Amante della pittura. Prolifico come pochi, solo negli anni cinquanta recita in circa trenta titoli, rendendo la sua una delle gavette più lunghe della storia del cinema. La carriera di Bronson è complessa e somiglia molto a una ricerca. Quello che sembra legare quasi tutti i film che lo vedono protagonista è che il racconto passa attraverso la sua fisicità: la sua presenza, i segni sul suo volto dalle mille etnie, le rughe, il fisico scolpito e infine il suo sguardo stanco. Bronson racconta con il viso una storia nella storia.

Si potrebbe arrivare, però, quasi a dire che la presenza così totalizzante di Bronson abbia in sé proprio il suo più grande limite: un film con Charles Bronson diventa un film di e su Charles Bronson. Tutto –storia, comprimari – viene spazzato via dal suo granitico sguardo. Sarà forse anche per questo che, da un certo momento in poi, l’attore ha molto di rado diviso lo schermo con colleghi della stessa fama. Il suo mondo cinematografico era troppo piccolo (o troppo grande) per poterlo condividere con qualcun altro. Troppo specifico e fatto su misura.

Che Bronson avesse problemi a relazionarsi con i suoi registi è cosa nota ai più, e che nel primo decennio di carriera – quello della gavetta più dura – ci siano state molte incomprensioni e dissapori lo è altrettanto, quindi non c’è da stupirsi che appena avuto il potere contrattuale per poterlo fare Bronson si sia praticamente scelto, volta per volta, i registi a cui affidarsi. I suoi parametri non erano però dettati dalla reputazione degli autori o dal loro pedigree, bensì dalla loro propensione a lasciarlo fare. Registi che non cercassero con lui uno scontro, che capissero come prenderlo, che sostanzialmente lo facessero stare in pace. Tutto sommato se consideriamo quanto l’attore sia stato prolifico – tra il 1970 e 1991 realizza più di trenta film – non sono molti i registi ad averlo diretto. Certamente questa lunga fetta della sua carriera vede come figure di punta Michael Winner (6 film insieme) e J. Lee Thompson (9), ma sono anche i due registi che hanno segnato l’inizio della fine e che con lui hanno visto le loro rispettive carriere deteriorarsi fino a morire, flebili, tra le fauci al neon della Canon. In una visione globale della carriera di Bronson chi ha senza ombra di dubbio il ruolo più importante è John Sturges. Più di Sergio Leone (C’era una volta il West rappresenta l’apoteosi del “fenomeno Bronson” in Europa), più di Robert Aldrich (che gli regala uno splendido ruolo in Quella sporca dozzina), più di Roger Corman (che gli dà i suoi primi ruoli da protagonista in “drive-in movies” a basso budget), più di Renè Clement, più di Terence Young: su tutti campeggia Sturges.

Il regista di Giorno maledetto (1955) e Bronson si conoscono, fugacemente, per la prima volta sul set del bellissimo Omertà (The people against O’Hara) nel 1951. In questo dramma giudiziario il piccolo ruolo dell’attore non viene nemmeno menzionato nei titoli di coda. Passano circa otto anni prima che le strade dei due si incrocino di nuovo. Impossibile sapere se Sturges si ricordasse del suo breve incontro con Buchinsky (che nel frattempo aveva sostituito il suo vero nome con quello più americano di Bronson), ma fatto sta che il regista lo sceglie per il ruolo del sergente John Danfroth ne Il sacro e il profano (1959) al fianco di Frank Sinatra, Gina Lollobrigida e il nascente Steve McQueen. Un dramma bellico-melò poco riuscito, Never so few (così recita il titolo originale) sarà importante però come prova generale per quello che avverrà l’anno successivo. Nel 1960, infatti, Sturges mette in piedi il cast dei cast: sette attori speciali pescati tra rodati caratteristi, star consolidate, giovani promesse e giovanissime promesse. I magnifici sette cambia tutto: la storia del cinema, del genere e le vite degli attori che vi prendono parte. Sottrarre questa pellicola seminale alla carriera di Bronson vuol dire modificarne del tutto i connotati. Lo stesso si può dire per La grande fuga (1964), altro capolavoro di Sturges in cui all’attore viene affidato un ruolo ancor più consistente. Questi film non daranno i loro frutti immediatamente nella carriera di Bronson, che continuerà un percorso da caratterista ancora per molti anni a venire, ma faranno sì che venga preso sul serio e che altri registi notino in lui quello che forse prima era più difficile da scorgere. Aldrich – che come Sturges lo aveva diretto in piccoli ruoli negli Cinquanta – lo richiamerà, giovani registi (Sydney Pollack, Questa ragazza è di tutti) e vecchie firme (Ken Annakin, La battaglia dei giganti) saranno incuriositi dal carisma anomalo dell’attore, ma sarà soprattutto in Europa, in pieno fermento cinematografico, che si muoverà qualcosa. Se negli USA era ancora un comprimario, per la Francia Bronson già era una stella, mentre in Italia Sergio Leone lo vuole per il suo primo western (fu lui la prima scelta, il nome di Eastwood arriverà in un secondo momento). Quando Bronson partirà per il vecchio continente nulla sarà più come prima. Se questa macchina si è messa in moto è solo grazie a John Sturges.

Arrivati al 1973 in Europa Bronson aveva mantenuto la promessa, sodisfatto le aspettative ed era ormai un gigante consacrato e a pieno diritto inserito nel firmamento delle star; in patria, seppur molto famoso, a dividerlo da questo titolo mancava ancora il fenomeno mediatico che sarebbe divampato all’uscita de Il giustiziere della notte (1974). Fatto sta che era ormai da tempo diventato un “leading man”, un attore protagonista a tutti gli effetti e di sicuro dovunque andasse godeva di un potere contrattuale che solo cinque/sei anni prima sarebbe stato impensabile. Se la carriera di Bronson, da La grande fuga in poi, non aveva fatto altro che crescere, quella di Sturges stava lentamente scemando. Nonostante alcuni titoli pregevoli realizzati nella seconda metà degli anni sessanta (uno su tutti L’ora delle pistole, 1967), il regista statunitense non aveva più goduto di un grosso successo di botteghino, sicuramente nulla di minimamente paragonabile alla pellicola bellica del ’64, e anche la critica ormai lo accantonava in fretta come “buon mestierante”, più interessata ad analizzare la vibrante nascita della New Hollywood con i suoi ruvidi e giovani autori. Sturges non poteva più contare sui budget di una volta e i generi in cui si era specializzato – noir, western e guerra – non interessavano più al grande pubblico, molto preso da film piccoli e sporchi che incarnassero meglio i tempi che correvano.

Per molti sarà difficile pensarlo, ma Bronson portava con sé una forte insicurezza e una palpabile sensazione di inadeguatezza e come si può capire dalle parole del suo grande amore, Jill Irland, che ha firmato più di un libro sulla loro relazione, soffriva non poco di un senso di inferiorità. Nato da una modesta famiglia di immigrati, minatore fin da tenera età, orgoglioso e testardo, Bronson era affamato di conoscenza e nei confronti dei grande registi della sua crescita aveva quasi una forma di riverenza. Con un Aldrich, un Hathaway o uno Sturges, per l’appunto, Bronson non avrebbe mai avuto il coraggio di imporre, dettar legge o dare ordini, cosa che avrebbe fatto con molti registi a seguire negli anni del grande successo. Forse è proprio per questo che da un certo momento in poi Bronson i registi se li è scelti da solo. Attenzione, non si sta implicitamente sostenendo che Bronson sia entrato nel merito di scelte registiche (anche se non è poi così azzardata come ipotesi), ma voleva di certo che sul set il carisma a dominare fosse il suo e che un regista nell’approcciarlo fosse cauto e attento alle sue particolari esigenze, cose che non avrebbe potuto pretendere da un autore come Sturges. Da un certo momento in poi Bronson ha preferito scegliere autori su cui sapeva di poter esercitare un potere. Il periodo dell’apprendimento finì arrivato il successo, o forse l’orgoglio prese il sopravento.

“Well, Charlie you’ve come a long way”. “Hello John”. A prescindere, o forse amplificato proprio da questo, è impossibile non immaginare che sotto la superficie calma sul volto di Bronson ci fosse una forte emozione nel rivedere Sturges sul set di Valdez – Il mezzosangue, a distanza di poco meno di dieci anni dal loro ultimo film insieme. A riunirli è il Re Mida Dino De Laurentiis (che poi sarà artefice del botto di Bronson con Death wish) con questa co-produzione italo-francese-spagnola (Produzioni De Laurentiis International; Coral Producciones Cinematográficas; Universal Productions France)

Tratto liberamente da un modesto romanzo di Lee Hoffman, la sceneggiatura, come ogni produzione che si rispetti targata De Laurentiis, ha una vita travagliata. La firma ufficiale è quella di Clair Huffaker, vero e proprio specialista del genere (Carovana di fuoco, Rio Conchos, I Comancheros) ma si sentono le mani di Massimo De Rita e Arduino Maiuri, che però risultano non accreditati. Da notare che in alcune versioni spagnole affianco al nome di Huffaker appare quello di Rafael J. Salvia, la cui presenza è giustificata solo ed esclusivamente per ragioni di quote.  Chino Valdez (Bronson) è un solitario allevatore di cavalli, un meticcio, mezzo yankee e mezzo indiano. Un giorno un adolescente in fuga chiamato Jamie (Vincent Van Patten) si presenta al ranch di Chino e, dopo un momento di esitazione, l’uomo decide di prenderlo con sé. Imparano a lavorare e vivere insieme. Ma i problemi sorgono quando uno dei cavalli di Chino viene tagliato a brandelli sul recinto di filo spinato di un allevatore di bestiame locale (il francese Marcel Bozzuffi). Quando Chino affronta il bovaro su quanto è accaduto conosce la sorella di quest’ultimo (Jill Irland) e se ne innamora perdutamente. Il rapporto con il ragazzo, il suo allevamento e la storia d’amore con questa donna: tutto è destinato a durare un attimo.

La storia è di una semplicità disarmante. Poche location (tutti gli esterni sono girati in Almería) seppur molto suggestive e ben sfruttate, grazie anche alla bella fotografia di Armando Nannuzzi, dialogo scarno e pochissimi attori. Tutta la pellicola si basa quasi esclusivamente sullo scenario naturale, lunghe sequenze di cavalli liberi nei pascoli e il volto di Bronson. Il tutto avvolto dalle note country-nostalgiche di Giudo e Maurizio De Angelis. Parlare di film che va a sottrazione è riduttivo anche per un western, il genere essenziale per antonomasia. Siamo davanti all’apoteosi del minimal cinematografico. Questo però non deve far pensare che la pellicola sia vuota o povera, anzi. Lo sguardo di Sturges e la sua capacità di saper direzionare al meglio le potenzialità di un attore si vede tutta, e Bronson ci regala uno dei suoi ritratti più precisi. Il film ha un genuino gusto per il romanticismo, elemento che sorregge tutta la pellicola. Romanticismo da intendere nella sua accezione più ampia e completa: il sentimento d’amore, la nostalgia, il languore e l’attaccamento alla terra e ai suoi paesaggi. Un lettera sentita e sentimentale al West e all’indomabilità delle sue leggende, che stride moltissimo con la quasi totalità dei western che venivano sfornati all’epoca, rendendolo ancor più delicato e fuori luogo. Arrivati ai primi anni settanta, il western italico era agli sgoccioli e aveva già assunto caratteristiche comico-grottesche, mentre negli Stati Uniti quei pochi titoli che uscivano seguivano il tracciato disegnato da Il mucchio selvaggio di Peckinpah. In questo magma iperbolico di sangue e risate nasce Valdez (conosciuto all’estero sia come Valdez horses che come Chino).

Il film non ebbe il successo sperato e ad oggi rimane poco ricordato e amato anche dagli stessi fan del genere, del regista e persino di Bronson stesso. Basti vedere quanti pochi saggi e recensioni si trovino online sul film per rendersene conto. Il problema è che Valdez non nasce sotto nessuna particolare egida, è un film concettualmente e stilisticamente apolide. Anagraficamente si tratta di uno spaghetti western essendo un film del tutto europeo, ma soprattutto appartenente all’Italia, che ne ha la quota maggioritaria. Ma il film ha pochissimo in comune con il western italico: un perno narrativo che ruota intorno a una storia d’amore (elemento poco utilizzato nel genere italiano); un montaggio e una messinscena classici; una quasi totale mancanza d’azione; una fotografia al limiti del flou. Non aiuta di certo che l’aspetto del film sia costellato da piccole macchie stridenti, da corpi estranei di difficile comprensione stilistica. Come se certe parti del film fossero state girate da qualcun altro, come se subentrasse a gamba tesa un registro diverso, uno sguardo non riconducibile a Sturges. Infatti è così. Non ci è possibile sapere a che punto sia successo, anche se giudicando dal film dev’essere stato verso la fine della realizzazione, ma quel che è certo è che il produttore de La strada e il regista de I magnifici sette sono arrivati ai ferri corti, tanto che quest’ultimo lascia il film. A concluderlo è il fido Duilio Coletti, che con De Laurentiis aveva un rapporto pluridecennale e che non era nuovo al ruolo di tappabuchi. Ecco spiegata la goffa esecuzione dell’unica vera “scazzottata” del film (nel primo atto, quando Chino va in città), ecco spiegata la presenza musicale dei fratelli De Angelis, che per quanto efficaci non avrebbero mai avuto l’ok di uno Sturges, ed ecco spiegati gli sbalzi stilistici. Ormai rimane del tutto impossibile tracciare un preciso percorso del film, ma mettendo insieme quel pochissimo che si sa è probabile che Sturges non abbia seguito il montaggio ma che gran parte del film sia stato girato da lui e che l’apporto di Coletti si limiti a delle scene integrative.

Per quanto negli ultimi anni il film abbia ricevuto qualche elogio, e al di là del fatto che chi ama il film sembra amarlo visceralmente, l’eredità cinematografica di Valdez – il mezzosangue è pari a zero. Poco determinante nella carriera di coloro che vi hanno partecipato, rimane però un piccolo tassello gonfio di significato. Significato che amplifica il finale così naturalmente malinconico del film. Creatore e creatura, regista e attore, passato e presente si incontrano su terra spagnola, simbolo della rinascita di un genere reso grande anche grazie a questi due giganti.

Eugenio Ercolani  

La prossima puntata: Alvarez Kelly

 

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