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“Valperga”– Mary Shelley XVII

Creato il 11 gennaio 2012 da Marvigar4

giudizio di dio

Mary Shelley (1797-1851)

VALPERGA

o

La vita e le avventure di Castruccio, Principe di Lucca

Traduzione integrale di Marco Vignolo Gargini dall’originale in inglese Valperga; or the Life and Adventures of Castruccio, Prince of Lucca

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Capitolo 17

Il Giudizio di Dio. Rivoluzione di Ferrara.

Il vecchio vescovo, triste e depresso, si ritirò presto per pregare. Castruccio non aveva dormito la notte precedente, i suoi occhi erano affaticati, anche se la mente era scossa e irrequieta. Riposò qualche ora, facendo subito sogni agitati che lo riempirono d’angoscia, sogni in cui Eutanasia e la povera Beatrice, in pericolo, piangevano e imploravano il suo aiuto. Fu svegliato prima dell’alba dal servitore del vescovo. Si recò nella camera del prelato, che stava seduto su un divano con un’aria tesa e gli occhi arrossati dalla veglia.

«Mio caro signore», esclamò il vescovo, «Perdonatemi se ho disturbato il vostro riposo. Non riesco a dormire. Fra due ore questa cerimonia, questa farsa, comincia. Io non ci sarò. Non s’addice al mio carattere essere presente a certe tentazioni della giustizia di Dio: questa è la mia scusa. Ma non potrei andarci, morirei a vedere Beatrice legata e sofferente. Ma voi dovete andarci e tornare subito qui a riferirmi del suo successo… Andate, vedete se l’abate mantiene la sua parola e se mai rivedrò la mia bambina.»

Castruccio provò a consolare l’amico infelice, ma l’affetto illimitato e la paura del vescovo erano inconsolabili. «Che si salvi», disse, «e io sarò contento; ma questo dubbio, questa orribile pausa di attesa va oltre le mie forze; io la amo più di quanto un padre possa amare sua figlia, e lei era mia sotto ogni vincolo… Sento la mia vita incrinarsi, talvolta sono apprensivo… morirò nella sofferenza estrema del dubbio… andate, andate, mio carissimo, e tornate presto, se mi amate!»

La campana della chiesa cominciò a suonare e annunciò che i frati stavano pregando prima della cerimonia. Castruccio si precipitò. Il rito era officiato in una gran piazza di Ferrara, sotto le mura del giardino del convento di Sant’Anna e davanti alle porte del monastero dei monaci a cui il Giudizio era affidato. Castruccio avvicinandosi trovò ogni strada intasata dalla folla, i tetti con la gente sopra… persino sulle torri, da dove la piazza poteva sembrare solo un puntino confuso, il popolo s’ammassava in trepida attesa. Castruccio raggiunse quei pochi nobili che erano ammessi al giardino del monastero. Superati i confini consacrati, vide la cappella piena di monaci che pregavano, mentre si teneva una messa solenne per consacrare i loro procedimenti, e l’eucaristia fu distribuita come garanzia della loro verità.

La piazza presentava una scena animata ma agghiacciante: le case, le finestre del monastero, le mura del convento erano affollate, alcuni erano attaccati agli stipiti e ai muri, puntavano i piedi su piccole protuberanze di pietra, e là stavano come sospesi in aria. Una buona parte della piazza era separata da un semicerchio attorno alla porta del monastero, e fuori la gente era ammessa, mentre dentro vigilavano i soldati guasconi, che con le spade sguainate intimorivano gli spettatori impazienti, il cui furore di speranza e timore rasentava la follia. Le loro voci, è vero, tacevano, perché il solenne rintocco della campana li spaventava e li zittiva, come il ruggito del leone nella foresta zittisce la mandria timorosa, ma i loro corpi e muscoli erano in continuo movimento: alcuni schiumavano dalla bocca, altri allungavano il collo per guardare con gli occhi fuori dalle orbite.

In questo perimetro un’area era assegnata ai fratelli domenicani che, vestiti di nero con le croci rosse sul petto, avevano occupato i loro posti in anticipo, addossati gli uni agli altri a formare un piccolo anfiteatro. L’altra area era assegnata ad alcuni nobili di entrambi i sessi, spettatori di questa scena pietosa. Dentro c’era un’altra piccola area, vicina alla porta del monastero: v’erano due entrate corrispondenti, di fianco ad una fu eretta una gran croce, e accanto all’altra uno stendardo bianco con le parole Agnus Dei intessute. Questa cerchia all’inizio fu riempita, eccetto che in un angolo dove si trovava una catasta di legna.

Mezz’ora trascorse in un’attesa tremenda: Castruccio dalla paura ebbe la nausea: il rintocco pesante e monotono della campana lo scuoteva completamente, la testa gli doleva e si sentì mancare. Alla fine le porte del monastero si spalancarono e un numero di monaci uscì in processione, portando torce e cantando inni. Resero omaggio alla croce e poi si disposero intorno all’esterno della cerchia. Dopo una piccola pausa, altri monaci uscirono con Beatrice in mezzo a loro. Lei era avvolta nel suo mantello, il cappuccio tirato sul suo viso. La folla non parlò quando lei apparve, ma un rumore, come il vento sordo del nord tra i grossi alberi di una foresta oceanica, si levò in mezzo a loro: un terribile, profondo e oscuro respiro, un sospiro di molti cuori. Lei fu portata davanti alla croce e lì s’inginocchiò in silenzio, mentre i frati continuavano a cantare alternando strofe di un inno malinconico.

Uscirono poi altri monaci, con vomeri, torce, gravine e altri strumenti che provocarono di nuovo un gemito d’orrore tra la folla. La pira fu accesa, le parti si unirono in mezzo intorno alla legna che bruciava, mentre altri monaci rimossero la terra dell’area con le loro gravine, formando sei solchi, distanti due piedi gli uni dagli altri. Alla fine la campana, che per pochi minuti era rimasta in silenzio, cominciò di nuovo a suonare dando il segnale dell’inizio della cerimonia. Al cenno dei monaci Beatrice si alzò e tirò indietro il suo cappuccio: era vestita con una veste corta di stoffa nera, chiusa alla vita con una cintura di corda, senza maniche, le belle braccia conserte al seno, i capelli neri fluenti ricadevano sulle spalle, i piedi, più bianchi del marmo dei monumenti, erano nudi. Lei non notò la gente intorno, ma pregò assorta: le guance erano pallide, però gli occhi brillavano, e nel volto e nella persona c’era un misto indescrivibile d’apprensione e di forte fiducia nell’aiuto di un potere superiore. Uno dei monaci le legò le braccia e mise una benda sui suoi occhi: i vomeri, bianchi per il calore eccessivo, furono tolti dal fuoco con grandi pinze, e i frati, ammassati intorno, li fissavano nei solchi. La terra sembrava fumare per il calore emesso dai vomeri posati.

La barriera dell’entrata al perimetro fu poi buttata giù, i monaci si allontanarono dal lato opposto e uno di essi a voce alta, affidando Beatrice alla giustizia divina, le intimò di avanzare. Tutti i cuori battevano all’impazzata. Castruccio sopraffatto da una compassione ingovernabile, si sarebbe scagliato per salvarla, ma qualcuno lo trattenne, e in un momento, prima del secondo battito del suo cuore, prima di tirare di nuovo il fiato, l’orrore si mutò in gioia e stupore. Beatrice, con gli occhi coperti, le braccia legate, scalza, passò sui vomeri ardenti con passo veloce e leggero, raggiungendo la barriera opposta, cadde in ginocchio con un’esclamazione di ringraziamento a Dio. Queste furono le prime parole che disse, ad esse seguì un lungo e assordante urlo di trionfo della folla, che adesso manifestava sfrenatamente la sua gioia, come prima aveva trattenuto fin troppo la pietà e l’indignazione. Non si poté più contenere le palizzate del semicerchio, tutto fu travolto e distrutto. Gli inquisitori se la svignarono e le truppe guascone fuggirono al galoppo.

Immediatamente, a conclusione del suo compito, Beatrice fu sciolta e le fu rimesso il mantello. Le nobili dame presenti si affollarono intorno. Lei restò in silenzio, raccolta, il colorito accesissimo per l’agitazione, tutto il corpo tremante per l’intima agitazione, eppure, dominati il contegno e lo spirito, assunse se non altro un’apparente serenità. Ricevette con affettuosa cordialità le congratulazioni e il saluto ossequioso dei suoi amici, mentre nell’aria risuonava il trionfante Te Deum dei monaci e la gente si accalcava, intimorita, ma allegra. Cercavano di toccare i lembi della veste della santa appena consacrata, le madri portarono i loro figli malati gli sventurati imploravano le sue preghiere e, sebbene stordita e indisposta, la ragazza fu obbligata a dare benedizioni dappertutto. Improvvisamente una processione di suore uscì dal giardino del convento: coperte con i loro lunghi veli, cantando i loro inni, circondarono Beatrice e la condussero, accompagnata dalle altre dame, al loro chiostro, dove la sua amica materna, la viscontessa Marchesana, rimaneva in attesa d’abbracciarla.

Castruccio tornò subito dal vescovo, ma non così in tempo, perché la notizia del successo della sua Beatrice, passata di bocca in bocca, era giunta a lui. Le sue prime emozioni furono gioia, gratitudine e meraviglia, ma queste si placarono e il buon vecchio s’inginocchiò umiliato, tremante e penitente, a considerare che il nome di Dio era stato nominato invano, che i suoi servi consacrati erano spergiuri e la menzogna era stata stabilita con fermezza là dove avrebbe dovuto sussistere solo la verità. Ascoltò il racconto di Castruccio interrompendolo con esclamazioni e lacrime, e quando finì gridò: «Questo è il più miserabile… il più felice giorno della mia vita!»

La sera il palazzo del prelato era affollato dagli amici che, conoscendo l’interesse che aveva per Beatrice, vennero a congratularsi per la vittoria ed esprimere la gioia perché Dio aveva considerato la loro città degna di questa manifestazione della sua grazia. Il vescovo, allegro, ma pieno di pudore, ascoltava in silenzio le loro supposizioni, le esclamazioni e i lunghi resoconti dell’evento mattutino; il suo cuore era felice, ma era arrabbiato con se stesso per il fatto di provare piacere al trionfo della menzogna e, seppure con il sorriso sulle labbra, un rossore si diffuse sulle sue vecchie gote.

Entrarono la viscontessa Malvezzi, raggiante di gioia, e la bella Beatrice emozionata per il suo onore riconquistato. I nobili s’accalcarono intorno alla profetessa, baciandole la mano e l’orlo del vestito, mentre lei, umile, imbarazzata, pur credendo di meritare il rispetto dei suoi amici, sorrise a tutti. Castruccio non fu l’ultimo degli ammiratori. Lei non era mai apparsa così bella, i suoi occhi brillavano della luce del trionfo, anche se per metà nascosti dalle palpebre, le guance erano rosse, la sua graziosa persona, con un modesto vestito di lana bianca, si muoveva con gesti sempre nuovi e avvenenti: sembrava un’altra rispetto a quella vista prima da Castruccio, ugualmente ispirata, eterea, ma più bella.

Dopo che la folla di visitatori si ritirò, pochi amici intimi che formavano la cerchia del vescovo rimasero, Madonna Marchesana li invitò senza indugio a adottare un progetto per far entrare il loro principe in città, e proseguì: «Parlo con le parole della mia bambina, quando dico questo, e perdonami, santa Beatrice, se ti chiamo bambina. È dolce per me immaginare che tu sei mia figlia, anche se sono indegna come madre, perché tu sei soltanto figlia del cielo.»

Beatrice baciò la mano della sua eccellente amica con deferenza e gratitudine. Il vescovo era molto turbato dell’espressione della sorella, il ricordo della madre eretica e l’episodio in carcere con Magfreda erano ancora nella sua mente, e rivolse lo sguardo al cielo, come per chiedere a Dio di perdonarlo ed allontanare dalla candida Beatrice la punizione per l’inganno perpetrato.

Uno dei nobili presenti chiese alla santa fanciulla di fissare il giorno per l’ingresso del principe in città. Lei disse con voce gentile: «Miei signori, l’ora della vittoria è giunta: i papi, a dispetto del dovere, hanno abbandonato la loro città sacra, hanno rinunciato al loro ruolo legale e stanno per imporci la tirannia… così non sarà. Da qui a quattro giorni, lunedì sera, riavremo il nostro sovrano e la mattina seguente il suo stendardo sventolerà sui merli della nostra città.»

Un nobile gridò: «Il mio cuore mi fa sorgere un dubbio, mi pare che sia un giorno egizio. Nessuno ha un calendario?»

«Sì, è un giorno egizio», esclamò Beatrice con vivacità, «ma gli aspetti avversi delle stelle ricadono sui nostri avversari, mentre per noi ci sarà gioia e vittoria.»

«Lunedì è un giorno prematuro», disse Castruccio, «ma sia pure come ordina la santa Beatrice. E, mio venerabile signore, mi congederò da voi all’alba di domani. Non vi vedrò, divina profetessa, fino a quando verrò con il vostro principe per far valere i suoi diritti. Vi prego dunque di benedire le mie armi e la causa perché siano due volte energiche, una volta approvate da chi ci ha inviato il cielo. »

Castruccio si inginocchiò davanti alla bella ragazza, la guardò con i suoi occhi ardenti, le sue labbra appassionate e il volto pieno di sincera e nobile bellezza. Lei arrossì ponendo la sua mano sui capelli corvini di Castruccio e disse: «Che Dio benedica e favorisca voi e la vostra causa!». Poi, facendo un cenno alla sua anziana amica, salutò in silenzio la compagnia e si ritirò emozionata, confusa, ma con il cuore che batteva con una nuova e strana sensazione di piacere.

Il piano per l’ingresso del marchese adesso era pronto. La notte del 4 agosto doveva passare Lago Scuro e fermarsi con le sue truppe sul sentiero che conduceva al passaggio segreto di Palazzo Malvezzi. Il marchese, Castruccio e un piccolo gruppo sarebbero entrati nella casa della viscontessa, e Galeazzo avrebbe guidato il grosso dei rimanenti alle porte della città l’alba del mattino seguente: una parte doveva restare come guarnigione di riserva [1], se la piccola scorta del marchese si fosse rivelata insufficiente a forzare le porte e a far entrare Galeazzo. In quel caso questa truppa più grande sarebbe entrata in città attraverso la casa della viscontessa e portato il necessario soccorso al loro principe.

L’assemblea si sciolse e Castruccio, stanco per gli avvenimenti della giornata e per la mancanza di riposo, con i nervi rilassati dopo la forte eccitazione sostenuta, andò presto a coricarsi. Prese congedo con affetto dal buon prelato, che gli affidò molti messaggi di fedeltà e attaccamento da portare al suo principe.

L’alba vide Castruccio sulla strada per Rovigo. La vasta pianura lombarda si svegliava sotto il sole nascente. Era una mattina chiara, la nuvolaglia all’orizzonte accolse le meraviglie rosate del sole che spuntava, e le soffici nubi d’oro e rosa che aspettavano la sua comparsa a est, avrebbero ricordato a un occhio greco il cocchio di Aurora, o le auree porte che le Ore spalancavano appena Febo entrava nel suo sentiero diurno.

E la bella profetessa non cercava la sua torre per vedere lo splendore del mattino? Beatrice era sul mastio[2] del palazzo, ed è vero che i suoi occhi erano diretti al sole nascente, ma c’era un elmo che riluceva sotto i primi raggi, un cavaliere che galoppava via da Ferrara, la cui forma lei cercava di scorgere anche quando appariva solo un puntino nero in lontananza. Con una guancia appoggiata su una mano, persa a meditare, lei, molto sfortunata, aveva confuso le ispirazioni celesti con i sogni folli della giovinezza e dell’amore: ma il suo cuore ancora era nascosto anche a lei da un velo che nemmeno lei voleva scostare. Si sentiva lievemente agitata, ma felice, una specie di felicità Elisia, che temeva i mutamenti e sperava solo in una sua eternità sicura.

Castruccio fu accolto con gioia dai suoi amici a Rovigo e, quando udirono la notizia che portava, tutti si congratulavano, ogni mano si preparava all’azione. I cavalieri assistevano gli scudieri nel riordino delle armi, assicurando le varie giunte e lacci della loro pesante armatura, controllando che la lama della spada fosse ben fissata all’impugnatura, scegliendo le lance più robuste e preparando tutti gli altri equipaggiamenti di guerra. Le belle mani delle dame invece preparavano le fasce che, legate sulle teste dei loro cavalieri, li avrebbero difesi da ogni colpo. Nessuno pensava al pericolo e alla morte, questo sembrava più un torneo, in cui con le lance tese puntavano al potere, e l’idea del papa, dei suoi avversari mangiapreti e delle loro guardie straniere suscitavano soltanto la derisione.

Il sole si alzò il quarto giorno e le truppe del marchese Obizzo in numero di quattrocento unità erano schierate davanti alle porte di Rovigo. La spedizione fu predisposta come previsto, e nel pieno della notte la viscontessa, aprendo la porta bassa dell’entrata segreta, trovò il marchese, Castruccio e i loro seguaci che aspettavano in silenzio attorno al piccolo incrocio seminterrato sulla brughiera paludosa. Poche parole bisbigliate di riconoscimento furono pronunciate, la viscontessa condusse tutti lungo le gallerie e su per le scale verso le stanze abitate del palazzo, sollevando la tappezzeria della prima sala. Castruccio non aveva ancora visto la vecchia camera abbandonata con i mobili rovinati. V’erano appese sete, festoni floreali e un centinaio di ceri erano accesi; una tavola era piena di vino, frutta, carni prelibate e altri cibi più sostanziosi; c’erano anche parecchi divani sistemati nella stanza in caso che qualcuno volesse riposare.

La viscontessa con grazia cerimoniosa diede il benvenuto al marchese nel suo palazzo. «Mio signore», disse, «per poche ore dovete restare chiuso in questo appartamento; ho cercato di abbellire il vostro povero alloggio al meglio, e di sicuro questa stanza sarà sempre onorata, dal momento che offre rifugio e protezione al mio sovrano.»

La vecchia dama ricevette i ringraziamenti cordiali del marchese e poi si congedò soddisfatta a riferire a Beatrice l’arrivo dei suoi ospiti e la domanda appena mormorata da Castruccio sulla salute della profetessa. Ma, nonostante lei avesse rivestito d’oro la loro gabbia, le ore passavano pesantemente per i capi lì rinchiusi: guardavano le stelle brillare in cielo e quasi urlavano di gioia quando si accorgevano che, una ad una, svanivano alla luce del mattino. Alla fine si sentirono passi di uomini per le strade e i cavalli che il vescovo aveva allestito per la truppa giunsero al portone del palazzo. Il tramestio di questi cavalli, mentre venivano condotti alla loro destinazione, attirò una piccola folla e, quando gli strani cavalieri li montarono e avanzarono lentamente lungo le strade, la folla aumentò e si mormorò il nome del marchese, mentre tutti guardavano impressionati. Finalmente, quando la truppa raggiunse la strada principale di Ferrara, misero i cavalli al galoppo e lanciarono il grido di battaglia dei ghibellini attraverso la città, invitando la gente ad unirsi a loro e invocando la caduta del tiranno straniero: un gruppo di cittadini, che era già pronto, obbedì all’invito e fu seguito da altri gruppi, che sposavano la causa del principe e con gioia sostenevano la sua restaurazione.

Il calpestio dei destrieri, il clangore delle armi, i cavalieri che percuotevano gli scudi con le lance, il grido di battaglia delle truppe e i viva [3] della folla svegliarono il governatore papale, che richiamò i soldati guasconi. Ma era troppo tardi. Il marchese aveva raggiunto la porta della città, messo le sentinelle in fuga e fatto entrare Galeazzo dentro le mura: poi, raggiunto da tutta la nobiltà di Ferrara, cavalcò in direzione del palazzo del governatore. I guasconi erano schierati nella gran piazza della città, ma furono incapaci di resistere al primo assalto della fazione d’Obizzo. Se la diedero a gambe e si rinchiusero in Castel Tealdo, la fortezza di Ferrara, dove almeno erano al sicuro dagli attacchi improvvisi. Il marchese schierò le truppe intorno, diede ordini per impedire la loro uscita e, lasciando al suo comandante capo il compito dell’assedio, tornò al suo palazzo per ricevere le congratulazioni dei suoi sudditi soddisfatti.

Adesso la gioia era all’ordine del giorno: gli italiani, che erano stati incaricati di sorvegliare alcune porte della città, gettarono le chiavi ai piedi del loro sovrano, mentre le altre porte erano spalancate. Tutti i magistrati rassegnarono le dimissioni, molti fecero domanda di grazia, e dei bugiardi traditori, che assicuravano Obizzo di non aver mai perso la fede in lui, affollarono la sala udienze. Il trono fu eretto nella gran piazza, ricoperto dai tessuti più ricchi e sormontato da un magnifico baldacchino, le truppe furono raccolte davanti a lui, gli stendardi portati e abbassati ai suoi piedi. Una delegazione dei più nobili conti e cavalieri di Ferrara fu inviata a scortare il Caroccio [4] davanti al trono del principe. Questa delegazione si recò alla cattedrale e i monaci portarono il Carroccio, adornato con splendidi drappi e stendardi, la croce d’oro e la bandiera bianca dei papi a sventolare sopra. Ci aggiogarono quattro belle giovenche bianche, su cui misero dei ricchi ornamenti di tessuto color scarlatto, e poi, al suono delle trombe, circondato dai cavalieri e seguito da una processione di sacerdoti che cantavano il Te Deum, fu portato nella piazza davanti al trono d’Obizzo. Allora, con un esultante sventolio, lo stendardo del papa fu abbassato e quello della casa d’Este innalzato alla sua antica altezza. Festeggiamenti d’ogni tipo seguirono l’evento gioioso, festeggiamenti trionfali, senza spargimento di sangue, poiché pochi sudditi del marchese erano ostili al ritorno d’Obizzo, e questi o andarono in volontario esilio, o si unirono ai rifugiati a Castel Tealdo.



[1] corps de reserve nell’originale.

[2] donjon nell’originale.

[3]The vivas in originale.

[4] N.d.a. Il Carroccio fu introdotto dopo il X secolo. Era un grande carro, dipinto di rosso, ornato con molti stendardi, le spoglie del nemico vinto e sormontato dal gonfalone del comune al quale apparteneva. Svolse un ruolo importante nelle guerre contro Federico Barbarossa, la sua perdita era una disgrazia indelebile e la sua presa il più grande trionfo.



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