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“Valperga”– Mary Shelley XXXVII

Creato il 21 maggio 2012 da Marvigar4

castruccio castracani

Mary Shelley (1797-1851)

VALPERGA

o

La vita e le avventure di Castruccio, Principe di Lucca

Traduzione integrale di Marco Vignolo Gargini dall’originale in inglese Valperga; or the Life and Adventures of Castruccio, Prince of Lucca

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Capitolo 37

Eutanasia in prigione.

Avendo disposto così di Tripalda, Vanni si sedette per studiare la lista dei congiurati che lui gli aveva dato. Conteneva trecento nomi. «Che cane omicida è questo prete!», esclamò. «Perché ogni nobile famiglia ha uno o più dei suoi membri coinvolti in questo complotto. Mi prenderò la libertà di accorciarla molto prima che passi sotto gli occhi del principe. I capibanda sono troppi per lui: il resto lo punirò per conto mio. Poche punizioni li riporteranno alla ragione e dopo saranno migliori. Ma Valperga! Avrei creduto di più che un asino potesse bersi la luna che quel dannato potesse tirar fuori lei dalla sua sfera illustre, per essere ingoiata insieme al resto dei creduloni, quando lui vuole far baldoria con pochi assassini. Ma, per San Martino! Come lei ha seminato così deve raccogliere e io la odio dieci volte di più per il suo viso ipocrita da angelo. Cospirare contro Castruccio! Lui l’ha maltrattata, ma l’amore mite e indulgente di donna che perdona tutte le offese è ciò di cui lei s’è sempre vantata, se non a parole almeno negli sguardi e nei modi. Per il tuo bene, tu dipinta come una santa, come il resto di loro, fuori fai una bella figura ma i vermi e la corruzione sono dentro, non mi fiderò mai più di nessuno del tuo sesso! E non scapperai. Gli altri pagheranno una pena paurosa per il loro tradimento, e il tuo, che merita molto più del loro, non la passerà liscia. Potrei scommettere la mia vita su Eutanasia, la conosco da quando è bambina. La ricordo come un cherubino sorridente con profondi occhi azzurri e capelli ricci e solo il suo nome sembrava portare con sé una divinità. Io ho molti peccati nella mia testa e, quando morirò, ci vorranno molti anni di purgatorio per la mia assoluzione, ma mi sembra che quando contemplavo e quasi adoravo le virtù d’Eutanasia la mia anima fosse a mezza strada dalla sua purificazione… e lei alla perdizione!»

Vanni, che nell’accezione comune era davvero fedele al suo padrone, fu preso dal disgusto quando gli apparve la profondità del tradimento d’Eutanasia. Sapeva poco dell’animo umano, la sua meravigliosa complessità e le distinzioni da leguleio, non riusciva ad immaginare i mille cavilli che avvolgevano l’intento d’Eutanasia, i veli tessuti dal vento che rendevano il suo evidente tradimento come la più pura verità per lui. Non riusciva a giudicare l’entusiasmo che, pur consentendole di prevedere l’obbrobrio e la condanna che sarebbero seguite alla sua condotta, le faceva tuttavia schiacciare tutto. Camminava sulla strada da lei ritenuta giusta e né i rimorsi del dubbio, né il rischio imminente che attendeva la sua fermezza potevano fermarla, o, cosa peggiore di tutte, l’opinione severa dell’uomo, la censura sempre pronta di idee che non sapeva capire, il fiero disprezzo della virtù che non poteva mai conseguire. Lei ci passava sopra dritta al suo scopo, impavida e sprezzante delle ‘lingue taglienti o dei pensieri più affilati delle lingue’[1] che minacciavano di ferire i suoi sentimenti più sacri.

Ma Vanni non riusciva a penetrare il tempio interiore del cuore di Eutanasia, che incoronava l’auto-approvazione come propria divinità e non si curava degli dèi falsi che usurpano i boschi graziosi e le alture del mondo. Dopo aver dato sfogo alla sua bile con quella infallibilità suprema che gli uomini assumono, e condannata lei e tutto il suo sesso sconosciuto, Mordecastelli andò avanti con impegni più pratici e tutti i capi della congiura furono messi in prigione prima del calare della notte.

La mattina seguente sul presto Castruccio tornò a Lucca. Mordecastelli lo incontrò con un volto nel quale l’occhio di falco del principe poté leggere notizie insolite. «Perché hai quest’aspetto, amico mio?» disse. «Sia che tu rida o pianga o mi dica perché non fai niente, anche se sul punto di fare entrambe le cose.»

«Mio signore, ne ho motivo. Ho scoperto una congiura che minaccia il vostro potere e che non è da poco, tanto che debbo augurarmi che voi siate contento per essere di nuovo sfuggito a queste arpie. Ma, quando sentirete i nomi dei cospiratori, anche voi sarete dispiaciuto. Molti dei vostri amici sono coinvolti e i nomi, che sono stati ripetuti nei vostri elogi quotidiani insieme alle benedizioni che riservate loro, ora sono nella lista dei traditori.»

«Quando ho assunto il mio potere, mio caro Vanni, sapevo bene che mi sarei coperto di sospetti e avrei sposato il pericolo, il tradimento e molti altri mali. E sia così! Ero ancora ragazzo e pregavo di diventare un principe, anche con una corona di spine. Ma chi sono questi? Chi dei miei vecchi amici è così cieco da vederci un profitto nella mia caduta?»

Mordecastelli diede la lista dei capi che aveva preparato e osservò il viso di Castruccio mentre la leggeva. Vide il disprezzo e l’indifferenza sul suo volto fino a che i suoi occhi non incontrarono il nome della contessa di Valperga. Allora vide cambiare la sua espressione e un leggero tremito sulle labbra, che evidentemente cercava di reprimere. Vanni non ce la fece più a trattenersi.

«Vedete, mio signore, il suo nome. E, quant’è vero che c’è il sole nel cielo, lei è falsa. Questa Eutanasia che fa la santa s’è insozzata con il tradimento. Ho le prove, eccole. Farebbero dubitare chiunque sulla sua salvezza, vederla con la sua faccia da Madonna strisciare in questo nido di traditori. Devono essere stati là, rinchiusi in una cantina, o nascosti in qualche oscuro buco, perché altrimenti le mie spie le avrebbero scovate già da tempo. E me la immagino con i suoi capelli d’oro e gli occhi che illuminavano anche la notte, così tanto abbaglianti… entrare in una stanza scura quanto basta per nascondere il tradimento… e credere che il pipistrello diabolico non volasse fuori dalla finestra al suo arrivo! ma no, lei lo cullava sul suo petto.»

«Sei eloquente, Vanni.»

«Lo sono, mio signore. L’ho presa per un angelo e la ritrovo donna… una di quelle fragili, folli creature che noi tutti disprezziamo…»

«Zitto, zitto, mio caro Vanni. Dici sciocchezze insopportabili. Occupiamoci di cose più serie. Che ne hai fatto di questa gente?»

«Sono tutti in prigione.»

«La contessa è con loro?»

«Perché, mio signore, l’avreste risparmiata?»

«Allora è in prigione?»

«Sì.»

«Vanni, tu devi sorvegliare questa gente. Ti assicuro che in nessun modo avrò pietà nei loro riguardi. Questi continui complotti e questa ingratitudine folle, per non dire di peggio, disturbano troppo il nostro governo. Li estirperò fino all’ultimo e la punizione di costoro sarà un monito terribile per quelli che pensano di tradire allo stesso modo.»

Castruccio guardò fisso Mordecastelli, ma c’era un’espressione nei suoi occhi che faceva abbassare a terra quelli del fiducioso. Ardevano e il suo volto impallidiva, tanto che le labbra s’imbiancarono. Osservò immobile Mordecastelli per alcuni minuti e poi disse:

«Devono tutti morire.»

«Sì, mio signore.»

«E non una morte qualsiasi. Sarebbe una vendetta da poco. Moriranno come hanno vissuto, da traditori e sulle loro tombe vi sarà sempre scritto “Così Castruccio punisce i suoi ribelli”. Mi sono ammazzato, esposto al pericolo, sono diventato il terrore e la speranza della Toscana per macchiare con il mio nobile sangue il pugnale di uno di questi miserabili delinquenti? Vanni, guarda che facciano una fine in modo da soddisfarmi.»

«Sì, mio signore. E la contessa?»

«Lasciala a me. Io sarò il suo giudice e il suo carnefice.»

«Castruccio?»

«Non essere pallido, Vanni. Non capisci. Ti dirò di più tra poche ore. Adesso lasciami.»

La solitudine è un’alleata schiva per un principe, e poco amata. Ma Castruccio aveva di che occupare i suoi pensieri, soprattutto quelli angosciosi. «Vendetta!» Serrò i pugni e alzando gli occhi esclamò: «Sì, la vendetta è tra quei pochi beni nella vita che la compensano per i suoi molti mali. Eppure è poca cosa: è una passione che non può avere fine. Ardente nella tensione, fredda ed deludente nel suo esito, è come l’amore, che consuma la sua anima con carezze non richieste. Ma ancora, sarà mia e questi la patiranno. Conosceranno in ogni loro nervo ciò che hanno risvegliato in me. Non avrò paura, non sentirò la mia vita dipender solo dalla parola di questi schiavi ormai impotenti. Moriranno e tutto il mondo saprà che Castruccio può vendicarsi.»

Così pensava: eppure c’era un senso interno che gli rivelava la grettezza dei suoi sentimenti, quando immaginava che la gloria fosse mettere i nemici sotto i suoi piedi. Avrebbe ascoltato questa piccola mite voce, ma, lasciando queste idee, cominciò a riflettere su ciò che lo riempiva d’amarezza e che per lungo tempo non aveva provato.

«Allora, lei ha cospirato contro di me e, scordati tutti quei legami che ci univano malgrado la sua freddezza, lei ha tramato la mia morte! Sapeva, doveva sapere, che nonostante l’assenza e la ripulsa, era la santa della mia vita e che mi restava questa debolezza o virtù umana anche se il potere e una forte determinazione avevano per altri aspetti trasformato la mia persona. Non ricorda che io ho sempre portato vicino al mio cuore un medaglione con incisi sopra i giuramenti della nostra infanzia? Ha dimenticato tutto. E non solo ha dimenticato l’amore, ma ha messo da parte l’onestà del suo intelletto e macchiato la purezza della sua anima.

È bene per me parlare così, io che, al posto di quelle che furono le mie virtù, ho adesso come ministri la vendetta, l’odio e la conquista. Però, pur avendo deciso d’essere così e scelto che questi demoni trascinassero il carro della mia vita, non ho perso il senso di ciò che è giusto o sbagliato in mezzo a tutti i miei ostinati errori e il mio degrado, e potrei distinguere e ammirare la pura grazia d’Eutanasia. Per tutti i santi! Credevo che, se fosse morta come la Beatrice di Dante, avrebbe perorato la mia causa davanti al trono del Padre Eterno e grazie a lei sarei stato salvo. Adesso lei è perduta e la perdizione può contenere tutta l’inetta razza umana dal momento che è caduta su di lei!

Ma deve essere salvata. Le mie mani non si macchieranno del suo sangue e la mia anima non sopporterà il peso di quel crimine. Lei però non deve rimanere qui e nemmeno in Toscana. Deve andare lontano tanto ch’io non possa più udire il suo nome: quella sarà la sua punizione e dovrà sopportarla. Ora devo darmi da fare perché non resti un’altra notte in prigione.»

Eutanasia in prigione! Sì, era l’inquilina di questa casa del crimine, benché la sua nobile mente fosse al di sopra dell’umana colpa. Se di errore si trattava, il suo era un giudizio. Ma perché chiamarlo errore? Togliere il potere a un tiranno crudele… dedicare i suoi giorni, che lei poteva passare nel lusso e nella gioia, a un’immensa solitudine, dove né l’amore né la compassione l’avrebbero accolta… sostenere l’ira e forse l’odio di Castruccio e in tutto questo conservare una fermezza e una dolcezza che l’avrebbero sostenuta e placata… lasciare per sempre tutti gli amici e il suo paese nativo per seguire i passi di chi aveva cessato d’amare, ma per il quale si sentiva ancora legata dal desiderio di proteggerlo dalla miseria causata alla fine dai suoi crimini: questi erano i suoi errori.

Dopo che Quartezzani aveva lasciato Eutanasia la notte del suo arrivo a Lucca, lei non aveva dormito, era invasa da vari pensieri di terrore e d’attesa angosciosa per far riposare il suo spirito. Tutti i secondi lei avvertiva l’eternità e ogni ora sembrava avanzare lenta formando un ampio, infinito cerchio attorno a lei. Quando spuntò l’alba non stava dormendo, ma guardava a occhi aperti l’ultima stella che svaniva ad occidente, richiamando alla mente mille associazioni, mille speranze, ora morte tra le ceneri di quella pira che il tempo aveva ammucchiato e consunto. Aspettava con ansia anche se era ferma, non osava tentare di insinuarsi nel futuro… tutto era così tempestoso e buio.

S’alzò all’alba e scese nel giardino per respirare l’aria gelida ma rinfrescante per i suoi spiriti febbrili di un mattino di dicembre. E a mezzogiorno Quartezzani irruppe: aveva un pallore mortale e i capelli sembravano ritti dalla paura.

«Per tutti i santi! Che è successo?» gridò Eutanasia.

«Siamo tutti perduti! Morti, o peggio che morti,! Siamo stati traditi!»

«Tripalda ci ha traditi?»

«Sì.»

«E non c’è scampo?»

«Nessuno. Le porte sono chiuse e rimarranno così finché non saremo tutti catturati.»

«Allora moriremo senz’altro?»

«Quant’è vero che Cristo è morto sulla croce! Moriremo sicuramente.»

«Allora coraggio, amico mio, e mettiamo da parte ogni speranza mortale, ogni paura. Ve l’avevo detto, Ugo, vi avevo preparato a questo, ma non mi avete creduto fino a che adesso le mie previsioni sono state suggellate dai fatti. Moriamo, come avremmo vissuto, per la causa della libertà e non avviliamoci tremando, nessun vile timore faccia di noi lo zimbello dei nostri nemici.

Altri uomini in varie epoche sono morti di morte prematura e noi oseremo imitarli. Altri hanno retto il loro fato con la forza, e che la fede e la sottomissione al volere celeste siano con noi, invece di quello spirito audace d’innata virtù che sosteneva gli eroi dell’antichità.»

Eutanasia si risollevò mentre parlava e un’attesa senza timore e qualcosa come il trionfo illuminò il suo volto, alzando gli occhi in alto e stringendo la mano dell’amico. Non ebbe calore dalla stretta, una paura fredda s’impossessò di Quartezzani e rimase in piedi ancora più sconfortato davanti a lei… pianse.

«Sì, piangete», continuo lei, «e anche io, non avendo la tempesta dell’anima spazzato via tutte le nubi, anche io potrei piangere. Piangete perché lasciate quelli che amate … è un colpo pesante. Piangete perché vedete soffrire i vostri compagni, ma ognuno deve risollevare l’altro da quel dolore con l’allegria e il coraggio. Però…», proseguì vedendo l’amico completamente atterrito dalla paura, «non c’è speranza di fuggire? Sforzate il vostro ingegno: una volta oltrepassate le porte sarete presto fuori dal territorio di Lucca. E Castruccio…»

«Oh, quell’odiosissimo nome! Sanguinario, esecrabile tiranno! Sia maledetto! Che il diavolo…»

«Basta! Non sapete che la maledizione di un uomo che sta per morire ricade più su di sé che sulla persona contro la quale impreca l’ira celeste? È puerile, Ugo, riprendetevi, avete una moglie… l’ingegno femminile è pronto, consultatevi con lei, vi può suggerire qualche piano per la vostra salvezza.»

«Siete un angelo della consolazione, Eutanasia. Che Dio vi benedica! E anche voi riflettete sul vostro pericolo.»

Se n’andò: e lei (senza stare a pensare a vani rimorsi, essendo troppo preziosi i suoi istanti) si mise a sedere e scrisse una lunga lettera a Bondelmonti. Una lettera pacata e affettuosa: si sentì sollevata dalla mortalità e le parole espressero l’estrema serenità della sua anima. Dette un ultimo addio ai suoi amici. «Può sembrarvi strano», scrisse, «che mi esprima così: certamente, quando ragiono con me stessa, mi pare di non dovermi aspettare la morte dalle mani d’Antelminelli. Né dalle mie. E allora aspetto una fine solenne di questa scena, una catastrofe che mi separerà da voi per sempre. E non è l’Italia, amata e nativa Italia, che io lascerò, ma anche quest’aria, questo sole e la bellezza della terra. Così io sento e perciò debbo scrivervi il mio eterno addio.»

Aveva appena finito la sua lettera che giunse un messaggero di Mordecastelli. Le disse che la congiura era stata resa nota e che lei doveva stare in prigione ad attendere gli ordini di Castruccio. Lei sussultò alla parola prigione, ma, riavendosi, fece segno ch’era pronta a seguire il messaggero. Così, senza parole, senza un sospiro, lasciò il suo palazzo e, salendo sulla portantina, fu condotta al luogo del suo confino. Percorse le stesse strade che il carceriere le fece fare per portarla alla cella di Beatrice. Una piccola e strana teca incavata della Madonna con una lampada davanti, le riportò alla mente questo avvenimento. «Tu sei in pace, benedetta», disse, «là dove spero d’essere presto.»

Il guardiano della prigione, lo stesso che l’aveva cercata per venire a confortare la povera Beatrice, la ricevette con volto amareggiato e la condusse nella stanza più decente, su nella torre, che dominava il resto dell’edificio. Là fu lasciata sola a rimuginare sulla sua sorte e a raccogliere quella forza che l’avrebbe portata con onore ad affrontare i processi che l’attendevano. Ciò che la opprimeva più dolorosamente era la morte che i suoi alleati dovevano patire. Provò a non pensare a sé, a non temere la morte, che non s’aspettava dalle mani di Castruccio, e le sue previsioni e idee erano troppo vaghe per permetterle di avere un gran terrore di ciò che sarebbe avvenuto e che la riguardava. La finestra della sua cella non aveva grate e da lì poteva osservare la campagna vicina. Mille sentimenti le passarono per la mente e non riuscì a mettere ordine ai suoi pensieri. Il sonno si rifiutò di visitarla, ma le riflessioni divennero miti e piene d’immagini piacevoli e ricordi.

Il mattino venne dopo una notte invernale. Era chiaro, sereno, ma freddo. I raggi vivaci invasero la stanza. Lei guardava con strano piacere il cielo azzurro e lo stuolo di montagne giganti accovacciate intorno. Provò la sensazione di vederle per l’ultima volta, ma come se fosse capace di godere fino all’estremo queste delizie che la natura le aveva dato. Ripeteva alcuni versi di Dante in cui il poeta descrive con sforzi divini la calma solenne e la bellezza celestiale del paradiso. «Quando toccherà anche a me di vagare laggiù», disse, «quando godrò l’aria ferma e i prati fioriti di quel paese?»

Così tutto il giorno passò e fu presto buio. Lei, che aveva vegliato per due notti ed era quasi sopraffatta, ammirando ancora una volta la stella della sera, la stella che aveva sempre amato e che per lei era sempre stata il buon genio del mondo che sorvegliava i suoi figli che riposavano, ripeté la giaculatoria cattolica, ‘Stella, alma, benigna, ora pro nobis!’ e poi, facendosi il segno della croce, si sdraiò per dormire e s’addormentò subito, tranquilla e felice come un bimbo cullato nelle braccia della madre.



[1] Nell’originale “the barbed tongues, or thoughts more sharp than they”, variazione del verso 213 di Adonais di Percy Bysshe Shelley, “And barbèd tongues, and thoughts more sharp than they”.



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