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Variazioni su un verso di Marino Moretti

Da Bruno Corino @CorinoBruno

Variazioni su un verso di Marino Moretti (1885-1979)

Da giorni c’è un verso che mi martella nella testa,

Piove. È mercoledì. Sono a Cesena,

trattasi del famoso incipit di A Cesena nella raccolta Il giardino dei frutti di Marino Moretti..

…non è un bigliettino appiccicato dal poeta al fine di informare la sua cara famigliola sulle condizioni meteorologiche di Cesena – stop – o dir o far saper luogo ove trovasi giorno mercoledì – stop – …

Ecco, non è un’informazione, non è una notizia diffusa a privato uso…

Eppure, se qualcuno, dopo anni dalla sua morte, avesse trovato tra le sue carte un bigliettino con sopra scritto Piove. È mercoledì. Sono a Cesena senza conoscere il seguito non avrebbe mai saputo se in realtà fosse un verso/disperso o un foglietto sperso, “postit” d’altri tempi insomma…

il dubbio avrebbe arrovellato la di lui coscienza:

inizio di un verso, aborto poetico? O altro?

o trattasi, semplicemente, di messaggio scritto sul primo fogliaccio capitatogli tra le mani?

Chissà….

In mancanza di un contesto specifico, quell’enunciato rimarrebbe esposto al limbo dell'ambiguità, in eterno:

è un'informazione o “altro”? Questione indiscernibile… direbbe il Leibniz teutonico…

Ma noi sappiamo che non è un’informazione. Sappiamo che il poeta non voleva comunicare a suoi parenti et amici ove  si trovasse quel giorno e che tempo facesse a Cesena. Sappiamo, appunto, che è il primo verso di una nota poesia. Assodato che trattasi di un verso di una famosa poesia, cosa comunica il suo Autore? Niente! Come niente? Marino Moretti, lui di persona, uomo nato a Cesenatico nel 1885 e vissuto tra la città natale e Firenze, firmatario del manifesto antifascista di don Benedetto Croce, etc. etc. purtroppo non comunica niente… O che blasfemia dice codesto omo?!? Forse che non pare abbastanza evidente che il succitato poeta comunichi la sua crepuscolare malinconia? C’è tutto: la pioggia, la sorella sposa, il grigio borgo, la tristezza, l’ombra grigiastra, etc. etc. insomma che te tu vuoi di più? Che ce lo scrivesse a tergo: “poesia melanconica”?

Calma, calma, buonuomo, io ti dico che Moretti – Autore esterno – non comunica niente, anzi forse il giorno che buttò giù i primi versi il poeta, l’uomo, era allegro e gaio come non gli capitava da tempo perché rapito da un forte demone creativo. Non ho le prove, ma capisci cosa intendo dire? Intendo dire, lui, Marino, la persona non c’entra un bel niente. Te lo assicuro. A Cesena non mi parla della di lui malinconia, ma della Malinconia. Se lui voleva parlare della malinconia a sé o a qualcuno avrebbe scritto qualcosa di questo tipo: “Sono a Cesena, in visita a mia sorella da poco sposatasi.. come è triste questa città… poi oggi che è mercoledì piove pure, etc. etc.”. Vedi, buonuomo se lui avesse voluto parlare della sua malinconia si sarebbe più o meno espresso in questi termini, certamente più raffinati dei miei, ma il tono non sarebbe cambiato di tanto… lui avrebbe informato qualcuno di come si sentiva quel giorno, e in quell’ora, ne avrebbe spiegato le ragioni, se ne aveva voglia, per filo e per segno… e se poi, a distanza di anni avessimo letto questa lettera avremmo saputo come Moretti si sentiva quel giorno… ma in fondo, a pensarci bene, a me o anche a qualcun altro come si sentisse quel giorno il tal Moretti non sarebbe importato un bel niente, che l’avesse scritto in verticale o in orizzontale! Chi non ha avuto la giornata uggiosa? Chi non s’è sentito oppresso da un senso di malinconia o di solitudine almeno una volta alla settimana nella vita? Non ci trovo nulla di strano, nulla di interessante. Insomma, il poeta, l’uomo non m’informa su un suo stato d’animo quando decide di scrivere un verso, l’Autore non mi comunica un bel nulla. E se lo facesse gli risponderei: senti fratello, puoi chiamarti anche Moretti Marino, ma io ho già tanti guai che non mi va d’ascoltare i tuoi anche se me li metti in versi o in prosa! Avrai pure una vita interessante, piena di emozioni, ma ne parliamo a cena magari attorno a un calice di vino amaro!

Sono a Cesena,

in visita alla mia povera sorella sposa,

e piove, e ciò rattrista il mio animo,

…………………………………….

Se tu Moretti avessi scritto questi “melanconici” versi, e m’avessi chiesto: “Senti come sono malinconico in questi versi?”; io t’avrei risposto: “Ti sbagli, Marino, questi versi non sono affatto malinconici, forse lo eri tu mentre li buttavi giù. Vedi, Marino, in questo sono un po’ kantiano: non è perché tu mi parli per iscritto di monete sonanti, io ne sento il suono, così: non è perché tu mi parli in rime di malinconia io ne odo il timbro. Il concetto è così semplice che lo capisce anche un bambino. Non ti pare?”.

 

Ma che vai cianciando, diamine! Egli mi parla di Cesena, della sua sorellina, de’ “il nonno ricco del tuo Dino”, insomma, mi parla delle cose della propria vita! È vero, è vero, è tutto vero, ma non ha importanza, può darsi pure che il Moretti fosse figlio unico (si fa per dire), la qual cosa non cambierebbe punto. Son cambiati i tempi! Tutto qua. Il buon Cesarotti o il divino Metastasio t’avrebbe parlato non di sorelle o amanti sue, ma di Aminta, Megacle, Licida, Alcantro, Aristea; non senti che nomi belli? Magari sotto le vesti antiche di Argene, il Trapassi ci vedeva i moti e gli affanni della sua ultima amata, il dolor del suo commiato e il rapido furtivo bacio, e da poeta esperto avrebbe detto dell’Amor e dell’Amicizia, con eleganza e, secondo il suo consueto stile arcadico, li avrebbe messi assieme in scena, travestiti da due pastorelli. Allora, che vuol dire? Il Trapassi non aveva le giornate tristi? Non era anch’egli uomo come il Marino?

Ma la poesia è sfogo, è anima che si proietta in parole, è manifestazione di stato d’animo, è umore… vale a dire, invece di ingurgitare sana camomilla, e aspettar che il manifestato umore passi o cessi è meglio scriverci su’ quattro versi? Fa bene al tuo organismo spurgare in versi il cattivo umore? O bene! Allora, fallo, spurga, sputa fuori la tua gioia o la tua delusione, mettila pure in versi o in rime, ma ciò non toglie che infine trattasi di “sana” terapia, di “cura” alla tua malinconia, e se funziona, intendo dire se ciò alla fine ti guarisce, ti solleva l’umore, ti provochi effetto catartico, fallo e fallo pure bene se ti riesce. Ma non restarci male quando il tuo lettore non si commuove, non rimane scosso dal tuo terapeutico sfogo! Ma come t’ho parlato di un bimbo a cui sfugge di mano un aquilone a significare quanto la vita sia crudele nei confronti di chi è fragile e tu non ti commuovi? O sei un insensibile o non capisci un tubo! Volevi che ci mettessi anche un cane per moltiplicare l’effetto? Ma no, dico io, è che me lo potevi dire anche a voce! Se trattasi di storia inventata o immaginata non vedo il motivo del perché commuovermi, se trattasi di storia vera capitata a tuo figliolo mentre correa sulla spiaggia, t’avrei risposto: “Mi dispiace… per il dolor provato dal bimbetto”, cioè t’avrei manifestato tutta la mia commozione per l’accaduto, così come avrei fatto nel caso in cui tu m’avessi comunicato scomparsa di tuo parente affine…

Vedi, per dirla brutalmente, a me del contenuto non me ne frega niente! Che sia bello o brutto è uguale. Che Moretti sta a Cesena, un mercoledì qualunque in visita a sua sorella a me sinceramente non importa niente! Ciò che a me importa è la poesia A Cesena e non Moretti che neanche conosco!

Insomma, in questa poesia si mette in moto all’improvviso quel processo descritto da Mario Luzi secondo il quale un vocabolo comune (Piove), una qualunque parola (Mercoledì), legandosi ad altre quasi con algebrica precisione, crea un circuito che brucia tutta la quotidianità! In questo “bruciare” muore il “segno linguistico”, quello usato ai fini della comunicazione pragmatica, quel segno brucia perché, appena buttato dentro il fuoco della comunicazione pragmatica, immediatamente si consuma, come un pezzetto di carta, dopo aver assolto il suo compito: “Mercoledì sono a Cesena”: sms comunicato da amico ad amica, appena assolve la sua funzione informazionale cessa di esistere, finisce nel cimiterio delle cose dette o scritte, svanisce. Altro è il segno linguistico quando supera la soglia del livello pragmatico, e non absolve il compito di comunicare un moto d’animo: in questo andare oltre il limite, come insegnano valenti semiologi, nasce surplus di comunicazione letteraria per cui il segno si configura come ipersegno. È l'ipersegno che guida l'autore implicito nella suddetta lirica, e non l'autore reale a guidare il segno come capita nella comunicazione pragmatica. E trattasi di ipersegno poiché i «“significanti” in poesia, se, da un lato, rimandano pur sempre ai ‘significati’, dall’altro si costituiscono invece come entità autonome e, al limite, depositarie esse stesse di senso» (A. Marchese). Nella poesia o in un testo letterario ogni “significante” rimanda a una complessa articolazione di significanti supplementari: fonetici, timbrici e ritmici. Quindi, cambia completamente lo statuto del segno. Siamo su un altro piano, non più quello della comunicazione pragmatica, ma letteraria: su questo piano il segno non è più un “tocchetto” che arde in veloce combustione, ma potenza, forza che si sprigiona ogniqualvolta gli si dà voce. Recitato in mille modi, reiterato più e più volte, il testo letterario aumenta la sua potenza, la sua combustione, il suo valore: nulla si consuma, nulla si distrugge, ma tutto si compie.

 


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