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Venere in pelliccia, film teatrale di polanski, con emmanuelle seigner

Creato il 26 novembre 2013 da Postpopuli @PostPopuli

di Francesco Gori

Quando si parla di un film di Roman Polanski, non stiamo trattando certo di una pellicola qualsiasi. Un regista complesso il polacco naturalizzato francese, capace nella sua filmografia di capolavori acclamati come Rosemary’s Baby e Il pianista, e di stupire ad ogni sua nuova opera. Non fa eccezione Venere in pelliccia, adattamento cinematografico del romanzo erotico di Leopold von Sacher-Masoch e della pièce teatrale di David Ives.

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Polanski replica Carnage in quanto ad ambiente che fa da base alla sceneggiatura: se nel precedente film era la casa di una coppia il luogo adibito alla vicenda conflittuale, stavolta è un teatro “in carne ed ossa” a fare da sfondo a quello che è anche un thriller claustrofobico. È in questo contesto che avviene l’incontro tra la svampita Vanda (Emmanuelle Seigner, moglie di Polanski), attrice che arriva in ritardo per un’audizione, e il curatore dell’adattamento teatrale della tragedia “Venere in pelliccia”, Thomas (Mathieu Amalric). Un incontro surreale che pian piano si trasforma in un gioco dal crescente erotismo. La donna, dopo grande insistenza, riesce ad ottenere il provino dall’uomo, convinto dell’incapacità attoriale della bionda. Che nei panni della vera Wanda si trasforma in sorprendente musa ammaliante, in femme fatale che irretisce la compostezza di Thomas. I due entrano in scena, ma soprattutto nei personaggi, e sono incapaci di dire basta, portando avanti un copione che diventa commistione tra finzione e realtà.

Sta proprio nel gioco delle dicotomie il fascino di Venere in Pelliccia, in quel sottile e continuo scambio di ruoli – padrone e schiavo – e spazio – reale e virtuale -, in quell’ambivalenza-ambiguità, termine che non a caso risuona dalla bocca dei due protagonisti. Severin von Kusiemski, il protagonista del romanzo-scandalo è Thomas, così come Thomas è Polanski. Un’equazione perfetta, dove il cinema si fa biografia della complessa psiche del franco-polacco: del resto non potrebbe essere altrimenti, visti i tanti lati oscuri della vita del regista, segnata dall’uccisione della moglie Sharon Tate nel 1969 ad opera di seguaci della setta Charles Manson, e dalle accuse di violenza sessuale, con arresti annessi.

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E complessa è l’analisi interpretativa di una pellicola dalle mille chiavi di ricerca. Punti fermi sono il potere evocativo del teatro, strumento che – come ogni forma di arte – rende l’artista strumento a sua volta. Di qualcosa di più grande, di qualcosa di divino, che va oltre la spiegazione razionale. I dialoghi intensi della sceneggiatura richiamano con forza anche il potere della parola: ognuna di esse calza a pennello e cade alla perfezione quando esce dall’anima oscura dei due attori, magistrali nella loro performance, con ovvia luce suprema per la sensuale Vanda-Emmanuelle, Venere-Afrodite, dea dell’amore e della sessualità.

Venere in pelliccia è dissacrante nella maestria con la quale sfonda il velo del perbenismo per trasportarci in un mondo inesplorato, ribaltando il luogo di retroscena, per gettarci nelle ragnatele del gioco dominante-servo, sadico-masochista, dove il lato oscuro di ognuno di noi, non solo di Polanski, può firmare un contratto a tempo determinato. Proprio come Severin.

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