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Venere in pelliccia, Polanski ci riscalda corpo e mente

Creato il 02 dicembre 2013 da Irene_snapi @irene_snapi

Mathieu-Amalric

Polanski torna con questo Venere in pelliccia, presentato a Cannes in concorso lo scorso maggio, dall’impianto in tutto simile al precedente Carnage: un kammerspiel giocato in un unico ambiente e con pochissimi attori, anzi, qua il gioco si fa ancora più duro, poiché al posto delle stanze di una casa vi è la scena aperta e unica di un teatro e gli attori si dimezzano e diventano due. E forse ricorda il precedente film proprio perché anche questo è tratto da un’opera teatrale (di David Ives, qui in veste di co-sceneggiatore), e infatti si gioca con l’ambiente e coi personaggi con maestria, come di solito il teatro richiede. Polanski ci aggiunge la sua abilità con la macchina da presa e con la direzione degli attori ed il gioco è fatto: Vénus à la fourrure non ha bisogno di visti censura e doppie versioni per arrivare dritto al cuore (e al cervello) dello spettatore – cosa che si era vista necessaria nel precedente adattamento cinematografico del romanzo di Sacher-Masoch, nel 1969 (Venere in pelliccia alias Venere nuda alias Le malizie di Venere di Massimo Dallamano).

Certo è che Polanski sguazza nella sua essenza primaria, molti dei temi affrontati nella pellicola sono sempre stati un sottofondo più o meno intuibile di buona parte della sua filmografia: l’identità di genere maschile e femminile, svilita del proprio senso e continuamente ribaltata, la compenetrazione tra realtà e finzione e anche una certa insistenza sui temi che accendono un climax che non si avvertiva così forte sulla pelle dai tempi di Repulsione. Come nel già citato Carnage anche qua si gioca al massacro ma ad essere messi alla berlina non sono le convenzioni borghesi e la cosiddetta “società”, bensì l’animo stesso del regista che sventola le proprie radiografie su quel palco da tanto che si mette a nudo, sottomettendosi al suo pubblico. Non è un caso che Polanski scelga per il ruolo del suo alter ego Mathieu Amalric, indubbiamente somigliante anche fisicamente al regista, al quale fa vestire le proprie sicurezze e le proprie complessità emotive, e per il ruolo della donna-dea, Venere piena di vizi e santità, sceglie sue moglie Emmanuelle Seigner (bellissima e bravissima).

La trama è sottile e intelligentissima, s’intuisce già dall’entrata in scena della donna, portata dalla pioggia parigina come la Venere è portata dalle onde dell’Egeo, è un’ulteriore indagine dei rapporti di dipendenza e di sottomissione, fisica o meno, da quella col cellulare subito messa alla berlina, a quella con la psicanalisi, a quella con l’altro sesso. Un grande atto d’amore per il teatro e per la donna, anche se concepita in un’ottica tutta maschile, non nella sua psiche ma in quella dell’uomo: solo così prende significato e senso l’epigrafe del film “E l’Onnipotente lo colpì e lo consegnò nelle mani di una donna”.

Si vanno a mescolare tre piani: quello dei riferimenti al libro (la Seigner si chiamerà Wanda come la protagonista del libro di Masoch: il nome va a circoscrivere e a rendere reale un’identità che poteva esistere solo sul piano finzionale), quello dei riferimenti culturali (attuali e non, si spazia dalla tragedia greca di Euripide a Lou Reed), quello della compenetrazione, di cui già accennato, con la realtà. Facile intuire che con tre dimensioni si raggiunga la profondità: la sceneggiatura ci aggiunge anche un tocco di umorismo, e l’incantesimo è compiuto, e Wanda von Dunajew ci renderà suoi schiavi prendendosi gioco di noi e soggiogandoci, come soggiogherà il regista teatrale Thomas Novachek e come aveva già soggiogato lo scrittore Severin.


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