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Venezia 71: incantesimo Al Pacino

Creato il 30 agosto 2014 da Oggialcinemanet @oggialcinema

Gli Actor Studio che furono la sua prima casa, quando appena venticinquenne non aveva neanche un soldo per comprare delle scarpe, la James Dean Foundation che gli diede ospitalità insieme ai colleghi di allora. E poi Hollywood che “non ho mai saputo e non so cosa sia; probabilmente è quello che è sempre stato anche se le cose oggi sono un po’ cambiate come è giusto che sia, è la vita che necessariamente si evolve”. Con Al Pacino al Lido il tempo sembra essersi fermato, è lui che incanta, parla, intrattiene, ricorda e si racconta attraverso i personaggi che interpreta nei due film presenti nella selezione ufficiale della Mostra: il fuori concorso “The Humbling” di Berry Levinson e “Manglehorn” diretto dall’outsider David Gordon Green in corsa per il Leone d’Oro. Nel primo è un attore sul viale del tramonto, stanco e depresso, nel secondo un vecchio fabbro di provincia, solitario clown che si accompagna mestamente al ricordo di un amore passato e alla sua gattina Fannie.

Cosa l’ha colpita del libro di Philip Roth, “The Humbling”, al punto tale da farne un film?
Mi piaceva soprattutto l’idea che la storia parlasse di un attore e che fosse insieme tragedia e commedia. Dopo aver letto il libro mi sono rivolto a Levinson che l’ha trasformato in sceneggiatura e poi, come spesso accade in questi casi, ci siamo presi delle libertà perché un film è sempre un’esperienza diversa dal libro. Ci sono state svariate prove e tanta preparazione, anche se l’abbiamo girato in venti giorni tutto d’un fiato, scena dopo scena. Ci incontravamo a giorni alterni perché eravamo tutti e due molto impegnati, ma questo era il momento giusto per farlo.

In “The Humbling” interpreta un attore sul viale del tramonto, un personaggio molto complesso. Come lo descriverebbe?
Si potrebbe descrivere in mille modi diversi: Simon Axler ha delle similitudini con tutti noi, è un uomo che sente di aver perso molte opportunità, sta invecchiando, è sempre più confuso ed è scivolato nel panico da depressione. Gli anni passano e i sentimenti verso il proprio lavoro si sono fatti meno forti. Gli attori hanno bisogno di memoria e troppo spesso accumulano la stanchezza di fare sempre le stesse cose; ecco, questo film ha il merito di restituire il logorio dell’essere umano e di come, sia da un punto di vista intellettuale che emotivo, ci si logori con la ripetizione della stessa vita, dei suoi drammi, dei suoi successi e insuccessi. Penso che la chiave di lettura del film sia il suo lato tragicomico.

E lei ha si è mai sentito stanco? Ha mai pensato di abbandonare le scene?
L’ultima volta è stata proprio stamattina prima di venire qui! Non ho rimpianti perché penso di essere stato molto fortunato ad aver trovato nella vita qualcosa che amo davvero fare, e l’aereo della mia carriera non è ancora atterrato. Ho ancora voglia di fare questo lavoro. Ricordo quando con Gene Hackman girammo “Lo Spaventapasseri”; era estate, faceva molto caldo, c’erano 40 gradi. A un certo punto vidi Gene carico di vestiti scendere da una stradina e subito pensai: “Ma è pazzo! Io non riuscirei mai a farlo”. Poi mi disse che non sentiva affatto il caldo perchè aveva l’impulso, l’appetito di recitare quel personaggio.

Al Pacino - Venezia 2014

In entrambi i film interpreta un uomo ormai non più giovane. Che rapporto ha con i due personaggi? Ha mai sofferto di depressione?
Se sono depresso? No, non credo. Forse lo sono, ma senza saperlo! La vita intorno ci può a volte rendere tristi e questo può capitare a tutti, ma non parlerei di depressione. La depressione mi fa paura e io fortunatamente mi sento risparmiato.

Come fa ad accettare tutti i momenti della vita?
Ho tre figli e loro insieme agli amici sono stati sempre la mia fonte di illuminazione; tutto ciò ha contribuito ad alimentare questo mio scioccante viaggio.

In “Manglehorn” è un fabbro di provincia ancorato al proprio passato e con un unico compagno di vita: il suo gatto. Manglehorn è un tipo di uomo molto diverso da quelli in cui siamo abituati a vederla, quanto è stato difficile per lei mantenere la tenerezza del personaggio per tutta durata film?
Non ho cercato di essere tenero, si trattava della natura stessa di Manglehorn. È stato David a guidarmi e l’idea del gatto era presente nel copione sin dall’inizio, uno spunto geniale per aiutare a sviluppare il personaggio, un uomo che tenta di connettersi con gli altri senza riuscire a spezzare il forte legame con il proprio passato, anche se alla fine dovrà lasciarlo andare. Mi è piaciuta l’idea che nel corso del film Manglehorn riesca ad acquistare una sempre maggiore consapevolezza di sè.

di Elisabetta Bartucca per Oggialcinema.net

Foto di Federica De Masi per Oggialcinema.net


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