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Venezia.69: “Pietà” di Kim Ki-Duk

Creato il 04 settembre 2012 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Venezia.69: “Pietà” di Kim Ki-Duk (In Concorso)

Anno: 2012

Distribuzione: Next Entrtainment World Inc./Finecut

Durata: 104′

Genere: Drammatico

Nazionalità: Corea

Regia: Kim Ki-Duk

Il regista coreano esordisce fiero della sua nuova produzione, già dai titoli di testa. “18° film di Kim Ki-Duk”: recitano nel più assoluto silenzio i cartelli in doppia lingua. Un silenzio che ritorna costante nelle sue opere, e ancora si pone come motivo di un percorso intimo e personale.

Tuttavia, in questo film c’è molto più rumore del solito: si inizia con i lamenti e la consueta vena di assoluta violenza da cui, in un certo senso, Ki-Duk non può prescindere; dopodiché il dialogo prende spazio per aiutare anche la comprensione di un intreccio invadente, in cui il cammino dei personaggi appare come un decorso connotato da una drastica involuzione all’amore e al diabolico.

Ambientato in un bassofondo cupo e duro come metallo pesante, in cantine strette colme di oggetti e di pericoli, il mondo di Pietà è popolato da ‘ratti umani’, costretti in problemi più grandi di loro, che stentano a tirare avanti e sopravvivono solo grazie ai legami affettivi.

Venezia.69: “Pietà” di Kim Ki-Duk (In Concorso)

La storia è quella di uno strozzino spietato che insegue dei poveracci nullatenenti con debiti da saldare: con eclatanti manovre punitive, rende storpi i morosi, al fine di poter incassare i soldi dell’assicurazione. La sua esistenza sembra consacrata alla solitudine e all’assenza di pietà, – questo personaggio, tra l’altro, è anche un macellatore casalingo di animali – fino a quando piomba nella sua vita una donna misteriosa, la quale sostiene di essere sua madre. Il ragazzo diffida in principio, ma una necessità, non più procrastinabile, di riempire il proprio vuoto agevola l’incontro: la presa di coscienza di questo legame neutralizza le difese del giovane diavolo, facendo emergere il senso di colpa e la vulnerabilità. Lo scontro umano poi si amplifica quando effettivamente la donna pare diventare oggetto di vendetta da parte di uno dei perseguitati.

Ki-Duk riesce in quest’ultima opera a sviluppare riflessioni profonde non solo sui legami affettivi, ma anche sull’isolamento come causa di degenerazione antropologica, e addirittura sull’evoluzione selvaggia dei bassifondi della città di Seul, ma la sua narrazione si rivela appesantita da un cocente dolore che permea tutto il film. I personaggi, infatti, perseguitati dall’occhio a volte violento della cinepresa, infieriscono a loro volta sul pubblico, trasmettendo, nei ritmi pesanti e nelle sensazioni dolenti, un’intollerabile incapacità di vivere serenamente. Peccato che tale atmosfera ci renda a tratti insofferenti sulla poltrona in sala. Che il fine fosse quello di creare un disturbo profondo anche nei più disincantati è dimostrato dalla ricorrente registrazione che Ki-Duk fa dell’odio umano, che angoscia lo spettatore, lavorando per sottrazione di energie e pazienza (sembra che la Pietà sia più per i cattivi che per i deboli);  la relazione dei personaggi col denaro è, in quest’ottica, particolarmente significativa: “Cos’è il denaro? L’inizio e la fine di tutte le cose”.

Venezia.69: “Pietà” di Kim Ki-Duk (In Concorso)

Nella fase registica che l’autore sta attraversando si legge tanta urgenza espressiva quanto una necessità di sublimazione estetica: in Pietà, con evidenti citazioni sia mistiche che pittoriche, tra quadri essenziali con tinte buie e claustrofobiche, Kim Ki-Duk immortala la sua personale, stridente e inappagata visione delle relazione madre-figlio.

Rita Andreetti

Venezia.69: “Pietà” di Kim Ki-Duk (In Concorso)
Scritto da il set 4 2012. Registrato sotto IN SALA, RECENSIONI FILM VISTI AI FESTIVAL. Puoi seguire la discussione attraverso RSS 2.0. Puoi lasciare un commento o seguire la discussione


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