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Venti chilometri di passione - Capitolo 8

Creato il 13 giugno 2014 da Lorenzo Zuppini @lorenzozuppini
Venti chilometri di passione - Capitolo 8Due giorni dopo mi incontrai con Giulia alla stazione di Pistoia per partire.
La accompagnarono suo padre e sua madre.
Aveva sulle spalle uno zaino che era più grande di lei, indossava pantaloncini a mezza coscia e una canottiera fine.
La vidi e pensai subito che quello zaino doveva provocarle un gran dolore sulle sue piccole spalle semi nude.
Partimmo in direzione Firenze, da lì fino a Bologna e poi diretti a Trieste. Ci mettemmo un po’ per trovare l’albergo che avevamo fissato. Era collocato all’ultimo piano di un palazzo, una posizione piuttosto sciatta e poco precisa per un immobile che deve farsi, innanzitutto, notare.
Per quanto volessimo dormire in una struttura decente e pulita, un Interrail impone categoricamente uno stile di vita durante il viaggio piuttosto adattabile, anzi è da preferirsi una stanza semplice ed essenziale ad un hotel di lusso. Fare il viaggio con solo uno zaino sulle spalle ne è la prova. Ci si deve portar dietro solo l’essenziale, che comprende prima di tutto un buon compagno di viaggio che può essere anche la propria mente.
Si decide di optare per un Interrail perché si vuole qualcosa da potersi portare dentro. Poi c’è anche il fatto della novità, dell’avventura, del poter girare diversi posti velocemente e a prezzi abbastanza bassi. Ma principalmente lo si sceglie perché, in effetti, la maggior parte delle nostre attività giornaliere hanno il difetto di portar via molto tempo ed energia lasciando poi pochissimo. Parlo di bei ricordi, di emozioni provate solo in quella particolare situazione o anche di una forte delusione. Da un Interrail si può trarre tutto questo, senza ombra di dubbio. E il fatto che fosse stata Giulia a spingere molto affinché la seguissi la dice lunga su quanto già lei lasci un pezzettino di sé dentro le persone che la circondano.
A Trieste ci facemmo una doccia ed uscimmo alla ricerca di cose da fotografare. Alla ricerca di novità da trascinarci dietro per un bel pezzo.
Ad un certo punto mi scocciai. Giulia sembrava una trottola e le foto scattate non le bastavano mai. Se la prese con me accusandomi di impedirle di godersi il viaggio. Aveva ragione.
Ci sedemmo su un muretto a strapiombo sul mare. Comprai due gelati e ce li mangiammo mentre guardavamo un granchio attaccato al muro che faceva resistenza alle onde. Giulia scattò una foto anche ad esso.
Provati dal viaggio, non restammo molto alzati la sera.
La mattina dopo consumammo la nostra prima colazione, saldammo il conto alla reception e prendemmo un autobus che, da quel che sapevamo, ci avrebbe portati in Croazia, a Plitvice.
Appena varcato il confine si aprì un mondo letteralmente squallido. Gli effetti della guerra sono ancora lì, sia sui muri delle case che nella testa delle persone.
Credo che gli abitanti del posto guardino noi europei occidentali con un po’ di invidia, a ragion veduta aggiungo io.
Scendemmo a Zagabria, da lì ci saremmo dovuti imbarcare per Plitvice ma non esistevano mezzi che facessero quella tratta. Avevamo sbagliato noi due nell’organizzazione.
Giulia scoppiò in un pianto fragoroso, io la presi tra le mie braccia e le dissi di calmarsi. Eravamo a Zagabria, l’avremmo visitata.
Trovammo un ostello vicino alla stazione e prendemmo una camera. Era frequentato solo da giovani e la cosa ci intimoriva abbastanza. Io andai subito a pensare alle noie che Giulia avrebbe potuto avere da qualche ragazzo un po’ troppo sfacciato.
Scattammo un paio di foto alla nostra camera. Per quanto fosse semplice e neanche troppo pulita, era stata arredata in modo da apparire originale. Le pareti erano bianche e l’intonaco mezzo distrutto. E il vecchio armadio si poteva facilmente abbinare al letto e alle sue coperte che, in realtà, coprivano assai poco.
Zagabria è una delle città più calde ed afose che abbia mai visitato. Dalle nove la mattina fino alle nove di sera c’erano quarantadue gradi, ed io ad ogni fontana mi rinfrescavo.
Tutto sommato è una città molto normale. Il centro storico è carino, con delle zone verdi per riposarsi e per dare ossigeno, ma appena fatti due passi verso l’esterno la desolazione prende il sopravvento e si notano solo edifici rettangolari, attaccati l’uno all’altro e della stessa altezza. Tutti di colori spenti, tristi, come il grigio.
Il non dare la possibilità alle persone di elevarsi e poter dare il meglio di sé porta a questo. Lo squallore, la povertà intellettuale.
Trovammo una piccola scritta su uno dei tanti muri grigi fuori dal centro, diceva “how long could you survive in Croatia?”. Sembrava un monito e a pensarci bene era una domanda maledettamente realistica, infatti, abituato come sono, in una realtà del genere non potrei sopravvivere. Il grigio delle abitazioni mi entrerebbe dentro e mi divorerebbe come un cancro.
I colori della Versilia sono invece bianco e blu, come anche i colori della tenda numero due e come anche i colori della magliette che indossano quelli che a Venezia ti fanno fare i giri sulle gondole.
Io e Giulia ci concedemmo solo la prima colazione in un bel bar, e ci abbuffammo a volontà. Per il resto rimanemmo coerenti col senso del viaggio, ovvero arrangiarsi e vivere dell’essenziale.
Compravamo del cibo in una sorta di supermercato malconcio alla fine della via dov’era il nostro ostello. Una sera acquistammo del formaggio tipo Robiola e dei crackers strani. Li mangiammo solo perché ormai li avevamo comprati, altrimenti sarebbero dovuti andare ad intasare il cesso. Erano immangiabili e privi di sapore. Sembrava che anche il cibo avesse un sapore grigiastro.
La seconda sera finimmo al Mc. Al diavolo tutto, camminando come pazzi sotto il sole per tutto il giorno, almeno la sera prima di coricarci avevamo bisogno di zavorrarci lo stomaco.
Quella sera Giulia si indispettì con me perché, mentre ordinava alla cassa, le dissi un po’ insistentemente di prendere una doppia razione di patatine fritte. Si rigirò contro di me e mi mandò a quel paese. A ripensarci ora mi viene da sorridere.
Cenammo, tornammo all’ostello, io lessi qualche pagine del libro che mi ero portato dietro, ovvero “I milionari”, e poi mi misi a dormire.
Quando spensi la luce non ricordo se Giulia stesse già dormendo o no, fatto sta che ero a mia volta indispettito per quella sua rispostaccia.
Decidemmo anche di tenere un diario di viaggio, e il giorno dopo saremmo partiti per Praga.

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