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Verso una fotografia di confine: rassegna di fotografia a Palermo

Da Collettivowsp @collettivowsp

Verso una Fotografia di Confine è una rassegna fotografica che prevede un ciclo di cinque mostre che si inaugureranno tra il 30 aprile e il 25 giugno prossimi, presso la Galleria XXS di via XX Settembre n. 13 a, Palermo.

I cinque autori – rispettivamente Anna Fici (30 aprile – 12 maggio), Carlo Columba (14 – 26 maggio), Lorenzo Maria D’Acquisto (28 maggio – 9 giugno), Giancarlo Marcocchi (11 – 23 giugno), e Maria Cardamone (25 giugno – 7 luglio) si sono riuniti fondando Polpolessolab. 

Con questo nome un po’ scherzoso e un po’ provocatorio, i cinque intendono indicare quale sia oggi la tragicomica posizione della fotografia nel panorama delle Arti e delle forme di espressione culturale. 

La realtà della città di Palermo, a sua volta, rappresenta il Quarto Mondo della sensibilità per la fotografia: tantissimi praticanti da una parte, un pubblico di soli amici dall’altra.

Tutto questo richiede una riflessione da parte dei fotografi, dei galleristi e degli operatori tutti. E’ sicuramente mancato, negli ultimi anni, il supporto della divulgazione, anche giornalistica e della critica per il largo pubblico dei quotidiani cartacei e on line. E’ sicuramente mancato un anello di congiunzione ad accesso gratuito e pubblico, che è l’anello della recensione, il cui compito sarebbe proprio quello di mettere in comunicazione artisti e fruitori, offrendo qualche strumento di lettura. 

PolpolessoLab propone – quale prima azione – questa particolare rassegna dedicata all’esplorazione dei confini dell’espressione fotografica forse perché convinti che affinché oggi la fotografia sia riconosciuta e adeguatamente valorizzata occorre presentarla in una veste poco fotografica. Utilizzando mezzi espressivi quali la Polaroid manipolata (è il caso di Anna Fici e di Giancarlo Marcocchi), la lomografia (Maria Cardamone), la graficizzazione e pittorializzazione dell’immagine (Carlo Columba e Lorenzo Maria D’Acquisto), si intende indagare sulle possibilità di esplorazione del linguaggio fotografico nei territori che si estendono al di là dei classici paradigmi e delle classiche retoriche del linguaggio fotografico come storicamente determinatosi. Ma questo è solo l’inizio… 

Anna Fici è docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università degli Studi di Palermo. Fotografa da molti anni ed ha al suo attivo numerose mostre. Predilige, in maniera non esclusiva, il reportage a sfondo sociale in bianco e nero.  Nel 2002 il suo lavoro Facce di Ballarò è stato premiato all’Internazionale di Fotografia di Solighetto (Treviso). Nel 2003, un suo portfolio in Polaroid manipolate in fase di sviluppo sul World Festival on the Beach di Mondello (Palermo), ha vinto il Photo contest legato a quella manifestazione ed è stato pubblicato dalla rivista Il Fotografo. Qualche anno più tardi, un altro suo lavoro a colori sulla medesima manifestazione ha vinto il premio della critica. Nel 2007 un ulteriore reportage in bianco e nero ha vinto il Photo contest del World Festival on the Beach. Tra il 2007 e il 2011 ha esposto in più ambiti un lavoro – Tam Tam Tamil – dedicato alla popolazione Tamil di Palermo che rappresenta la comunità di immigrati più numerosa in città. Dal 2011 ha lavorato alla produzione del film per le sale cinematografiche Ore diciotto in punto, per la regia di Giuseppe Gigliorosso. Oltre ad aver collaborato alla stesura della sceneggiatura, ne ha in particolare realizzato le foto di scena e di back stage, insieme a Giancarlo Marcocchi. Oggi aderisce ad un progetto fotografico per il web – humansofsicily.photo – che intende sfociare in un work in progress di narrazione visiva sulle realtà siciliane contemporanee.

Info: http://annafici.it  E-mail: [email protected]

30 aprile – 12 maggio 2015

Palermo Polaroid Art di Anna Fici è una mostra che raccoglie ventidue originali Polaroid – da pellicole Image e SX70 – scattate tra il 2000 e il 2002 a Palermo e dintorni. Si tratta di scatti assolutamente unici sia perché ciascuno è stato inciso a mano durante lo sviluppo, e rappresenta quindi a tutti gli effetti un unicum e un ibrido tra fotografia, pittura e incisione, sia perché le pellicole originali Polaroid da circa otto anni non vengono più prodotte. Quelle che le hanno sostituite, le Impossible, prodotte da chi ha rilevato il brand Polaroid, presentano caratteristiche del tutto diverse che non consentono interventi sull’emulsione. 

Si tratta di una visione della realtà cittadina che ne mette particolarmente in evidenza i graffi e le ferite, non con l’intento della denuncia ma con quello della ricerca dell’identità e della firma: essere palermitani ed essere Palermo, senza alcun compiacimento del degrado, sono due condizioni di cui il lavoro presenta il reciproco rispecchiamento. Essere palermitani ed essere Palermo, nelle crepe create dal graffio del tempo, grazie alle crepe create dal graffio del tempo. Agli originali che consistono in piccoli oggetti di pregio, di circa dieci centimetri per dieci, verranno accostate delle stampe Fine Art marcate digigraphie e certificate, in tiratura limitata. 

Carlo Columba, classe 1956, maturità classica, laurea in ingegneria, di fatto, non ha mai esercitato la professione. Insieme alla natura, al silenzio e alle buone letture la fotografia è la sua passione più schietta e duratura con un’esperienza professionale di realizzazione di spettacoli in multivisione datata negli ormai lontani anni Ottanta. Nel tempo bazzica un po’ tutti i media, non tralasciando i cd rom interattivi e i siti web. Approfondisce le tecniche e le tecnologie per l’apprendimento in rete e in ambiente tecnologico. L’avvento del digitale “risveglia il neurone fotografico” dando l’avvio ad una nuova fase, quella attuale, nella quale si dedica ad una ricerca personale verso una fotografia “poco fotografica”

http://fotografia.columba.it mail: [email protected]

14 – 26 maggio 2015

Habitat di Carlo Columba. Chi sono stati i progenitori della specie homo, i più antichi, ancor prima del periodo cacciatore – raccoglitore? Branchi di scimmie ciarliere  (le si possono immaginare perfettamente a richiamarsi e ad inseguirsi) dovevano popolare le foreste vivendo le fronde degli alberi e mangiandone i frutti. Da questa suggestione parte una ricerca fotografica, nonché da una personale predisposizione dell’autore a sentire “vicini” gli alberi come “compagni” di vita sul pianeta Terra. Una suggestione che spinge a tentare di indovinare una visione primordiale dell’ambiente che doveva ospitare quelle popolazioni e una interpretazione, per così dire “in soggettiva”, del campo visivo di individui il cui orizzonte è interamente e solamente costituito dall’intrico dei rami e delle foglie. Il tipo di immagine suggerisce una possibile funzionalità dell’antico occhio di focalizzare l’attenzione solo su determinati elementi lasciando al di fuori della soglia di intellegibilità quella moltitudine di altri che altrimenti costituirebbero solo una distrazione o un sovraccarico cognitivo: lo sguardo va dove la necessità del momento lo conduce e si focalizza su alcuni elementi chiave che sono quelli importanti a determinare l’azione. Si assiste qui, tra l’altro, al ribaltamento del concetto di barriera: se, oggi, per noi una selva intricata costituisce un ostacolo, per le scimmie ciarliere doveva, al contrario, rappresentare la migliore opportunità di spostamento. L’atmosfera non è surreale ma semmai apocalitticamente carezzevole nel tentativo di sottolineare la persistenza di quelle contraddizioni che nelle società evolute vengono chiamate “ferocia” (brutalità, efferatezza, spietatezza) ma che in natura sono da sempre la regola.

Alla luce di queste immagini Il nostro più disinteressato amore per il verde diventa strumento per capire se almeno qualcosa di quel mondo e quella situazione stia ancora vivendo in noi.

Lorenzo Maria D’Aquisto vive sul mare di Porticello. Ha studiato Architettura a Palermo. 

E’ stato per alcuni anni un collaboratore dell’Arch. Prof.ssa Jole Lima, partecipando alla ricerca di etnoarchitettura sul territorio siciliano sfociata nel volume “La dimensione sacrale del paesaggio siciliano” pubblicato nel 1979 da Flaccovio Editore. Negli stessi anni, per una collana di Storia dell’Urbanistica diretta dal Prof. Enrico Guidoni, ha curato il corredo grafico e i rilievi per i numeri dell’Arch. Lima e dell’Arch. Marsala. Con le foto di Giò Martorana ha pubblicato “Porticello” (Ediz. Eidos). 

Si occupa di storia locale e di fotografia.

La fotografia la frequenta dagli anni Settanta, fin dai tempi degli studi in Architettura e Urbanistica,  facendola diventare poi il principale interesse con ricerche personali.

Proprio in questo campo ha partecipato a mostre collettive e ha realizzato alcune personali.

Alcuni suoi articoli di tema turistico sono apparsi su Panorama Travel, Milano Finanza Magazine,  AD – Architectural Digest e Room.

Da qualche anno “gioca” con il dialetto, scrivendo delle ballate in siciliano, di cui sono protagonisti i pesci che “parlano, odiano, amano esattamente come gli uomini”

28 maggio – 9 giugno 2015

Rivugghio” è un termine siciliano che in lingua può essere reso con “Ribollire”. Nel vocabolario a questo termine sono associati, come sinonimi, i termini agitarsi, fremere, palpitare, tumultuare. 

All’autore è successo più volte, nel corso degli anni, di vivere da molto vicino il tumultuare, l’agitarsi del Mare. Vederlo crescere, ingrossarsi ed esplodere nella sua incredibile forza per poi ritornare a illanguidirsi. Lo si osserva poi carezzare la stessa costa, gli stessi scogli che appena prima aveva tentato di squassare e da questi, con pari potente risposta, venire ridotto alla sua essenza di gocce d’acqua che, dopo l’urto, tentano di ricongiungersi alla massa che le ha originate e che sempre le contiene.

Spesso anche l’uomo può essere come un’onda, potente e inutilmente distruttivo per poi acquietarsi in una carezza. 

Giancarlo Marcocchi fotografa da circa quarant’anni. E’ nato e vissuto a Cremona fino al 2003. Da quell’anno vive e lavora a Palermo, dove ha svolto il ruolo di docente di fotografia in diversi contesti. Col tempo si è specializzato nella fotografia di scena: danza, Jazz, teatro d’avanguardia, cinema, ritratto, figura e glamour. 

Ha una lunga esperienza con la fotografia analogica che sviluppava e stampava personalmente.  Ha utilizzato supporti Polaroid manipolandoli in fase di sviluppo o trasferendo l’emulsione su vari tipi di supporti. Oggi utilizza con soddisfazione carta Fine Art per il digitale. Non disdegna la fotografia a colori ma sente di riuscire ad essere più intenso con il bianco e nero.

http://www.marcocchiphoto.it – mail: [email protected]

11 – 23 giugno 2015

Milano in Polaroid fu il suo primo lavoro su materiale Polaroid poi manipolato in fase di sviluppo. Realizzato sul finire degli anni Novanta, racconta la città nel suo rapporto con la pubblicità. Il tratto rende unico il lavoro a metà tra lo street e il reportage. Si tratta di diciannove immagini originali, di dimensioni minute (10×10 cm) che nei colori e nelle inquadrature esprimono egregiamente la milanesità di quegli anni che già prefiguravano il tramonto del clima sociale che aveva caratterizzato la Milano da bere degli anni Ottanta. 

Maria Cardamone si occupa di fotografia dal 2008. Si è laureata in Lettere Antiche nel 2012 con una tesi sull’uso politico della fotografia in ambito geografico.  Dopo le prime sperimentazioni nel mondo della fotografia, si è prevalentemente concentrata sulla fotografia sociale e di reportage, non tralasciando le indagini sul paesaggio. Ha esposto in mostre personali e collettive, in Italia e all’estero. 

Sito: http://www.mariacardamone.com – mail: [email protected]

Penultimo paesaggio in fondo di Maria Cardamone è un progetto fotografico iniziato nel 2012 e realizzato in parte in Italia e in parte in Gran Bretagna. L’autrice si confronta con una tematica classica per la fotografia: cosa è il paesaggio? E ancora: cosa rende il paesaggio, un paesaggio? La figura del testimone fotografico a questo punto ha dato una risposta. Il paesaggio si pone laddove vi è un’interpretazione parziale della realtà: esso cioè il frutto dell’intervento di un osservatore all’interno di un contesto. Per evidenziare questo, l’autrice rinuncia all’oggettività di una visione nitida e descrittiva ed esalta il suo ruolo interpretativo attraverso doppie esposizioni, mosso, effetti fantasmagorici. Il progetto diventa un intimistico viaggio nelle emozioni: ai prolungamenti dell’esposizione fotografica, quasi come fosse la memoria umana ad estendersi verso il passato o il futuro, si aggiungono delle immagini di piccoli particolari, richiami di vita e attimi fuori dal tempo. In tal modo il paesaggio, svuotato dalla pretesa di essere un dato fermo e stabile, si trasforma in movimento e rapporto col tempo, cioè coscienza. In questa visione personale il paesaggio in fondo viene continuamente riscritto, e la visione del paesaggio non può escludere l’essere umano, i luoghi della sua storia e coscienza personale, del significato che ha il paesaggio per lui. Per questo esso non può essere mai definitivo, ma perennemente il penultimo. Il progetto è stato scattato in formato pellicola 120 con macchina fotografica Lomo (Diana).

 

Verso una fotografia di confine: rassegna di fotografia a Palermo
 

 


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