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Viaggiando tra i biscotti del Piemonte [Part 2]

Da Traveltotaste

Viaggiando tra i biscotti del Piemonte [Part 2]

Continua il viaggio tra i biscotti del Piemonte con nuove dolcezze e qualche diatriba.

Come dice il nome, i Brût e Bon, brutti e buoni, sono dei pasticcini secchi poco gradevoli da vedere ma deliziosi da degustare. La tradizione attribuisce l’origine di questi biscotti a Borgomanero ma si preparano anche in Alta Langa, zona votata alla coltivazione delle nocciole, ingrediente base del prodotto. Morbidi, secchi, leggeri o compatti. Diverse caratteristiche per un prodotto tipico piemontese ma che cambia lavorazione in base alla zona in cui viene prodotto.

L’amaretto, avvolto nella pastella e fritto, si può trovare nel tradizionale fritto misto alla piemontese. Sbriciolato è uno degli ingredienti fondamentali per il Bonet, un tipico dolce al cucchiaio. Di tutti i tipi di amaretto che si possono trovare due, in particolare, meritano di essere menzionati, quelli di Mombaruzzo e di Acqui. I primi vengono prodotti secondo una ricetta ideata alla fine del 1700 da Francesco Moriondo. Il segreto di questi amaretti sta nella miscela degli ingredienti che solo se sapientemente assemblati possono creare quell’inconfondibile sapore dolce-amaro unico nel suo genere. Negli anni, il metodo di lavorazione è rimasto invariato e si distingue per la totale assenza di additivi.

I Maestri pasticceri più anziani sono invece la memoria di quando gli amaretti di Acqui venivano prodotti utilizzando una varietà autoctona di mandorle, le “Saccarelle”. Da molto tempo, però, non è più possibile utilizzare quel tipo di mandorla in quanto la produzione è quasi del tutto scomparsa anche se si sta tentando di reimpiantarla per recuperare quell’antico sapore.

I Canestrelli hanno origini lontane nel tempo, la loro nascita infatti risale al Medioevo. Sono delle cialde piuttosto sottili e fragili e si ritiene che già in origine fossero di colore scuro per la presenza del cacao, nonostante il costo elevato del prodotto.
Solamente nel ‘900, la quantità di cacao impiegata è stata raddoppiata e si iniziò a fare la distinzione tra cacao amaro e cacao zuccherato. La produzione è tipica di Crevacuore (Bi), di Borgofranco d’Ivrea (To), di Ivrea (To), di Mazzé (To), tutti comuni canavesani, di Vaie (To) e di altri comuni della Valle di Susa. Il nome ‘canestrello’, probabilmente, deriva dal contenitore in vimini intrecciato, chiamato canestro, nel quale era abitudine farli raffreddare dopo la cottura. Un’altra ipotesi mette in relazione il nome con il disegno tipico dello stampo a pinza in cui venivano cotti, in piemontese canesterlè.
Questi biscotti venivano preparati solamente in occasioni particolari e dovevano conservarsi per molti mesi. A Crevacuore, nel biellese, era usanza farli in occasione dei matrimoni, nel Canavese, invece, per la festa patronale o per il carnevale. La preparazione dei canestrelli prevede la cottura dell’impasto all’interno di due lastre di ferro poste all’estremità di una lunga pinza e, quindi, cotte per circa trenta secondi direttamente sul fuoco o, come dice la tradizione, per il tempo di un Avemaria recitata con devozione. Sulle lastre sono normalmente incise le iniziali della famiglia alla quale appartiene lo strumento insieme ad altri simboli e disegni che durante la cottura vengono trasferiti in rilievo sulla superficie del biscotto.
Esiste la documentazione scritta di alcune ricette delle famiglie crevacuoresi, tutte risalenti alla fine dell’Ottocento o all’inizio del Novecento. Per molti decenni, infatti, la ricetta è stata tramandata di madre in figlia oralmente come una sorta di dote.
Dall’esame degli scritti si può notare come vi fosse la tendenza a personalizzare le ricette con il nome della proprietaria e come ogni preparazione non presentasse i medesimi ingredienti nelle medesime quantità.

Viaggiando tra i biscotti del Piemonte [Part 2]

Il loro nome può trarre in inganno sulla loro origine. I torcetti di Saint Vincent vengono infatti contesi da tre città piemontesi: Lanzo Torinese, Biella e Agliè, senza però dimenticare i torcetti di Saint-Vincent, quindi tipici valdostani, di cui mantengono il nome. Sua Maestà la Regina Margherita di Savoia, infatti, amava molto questi biscottini perciò durante i suoi soggiorni a Saint Vincent non mancava mai di acquistarli personalmente nella più nota pasticceria di allora. In origine i torcetti erano fatti semplicemente con la pasta del pane passata nello zucchero e nel miele. Giovanni Vialardi, aiutante di cucina alla casa Reale dei Savoia ai tempi dei re Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II, nel suo “Trattato di cucina, Pasticceria moderna, Credenza e relativa Confettureria” (1854) prevedeva tre ricette per i “torchietti”, nome con cui venivano chiamati in origine. Una di queste ricette si avvicina molto a quella attuale, fatta eccezione per l’utilizzo del lievito madre al posto di quello di birra. Generalmente, venivano cotti all’imboccatura del forno in attesa che questo fosse sufficientemente caldo per infornare il pane. Con il passare del tempo il prodotto subì una trasformazione: da grossi bastoncini di pane dolce, a partire dal 1800 divenne un vero prodotto di pasticceria. La loro dimensione venne ridotta di circa la metà e la consistenza della pasta si fece più leggera soprattutto grazie all’introduzione del burro.
Si modificò anche la maniera di consumarli. Originariamente erano destinati solamente ai bambini, poi si passò a presentarli a fine pasto durante le ricorrenze familiari a volte accompagnati con panna montana spruzzata di caffè d’orzo macinato e, successivamente, con zabaione.

La storia dei biscotti di Novara risale a qualche secolo fa ma non si sa stabilire con esattezza dove e come abbia avuto origine. Nei monasteri femminili del XVI secolo esistevano laboratori di pasticceria, dove si preparavano ghiottonerie per i forestieri danarosi in transito e pare che proprio in questi luoghi alcune monache abbiano inventato la ricetta di “quel biscotto che avrebbe dato rinomanza al capoluogo novarese”.
A quel tempo era usanza che la prima domenica di Pasqua venissero fatte, per opera del clero della Cattedrale, della Basilica Guadenziana e dei parroci della città, delle distribuzioni ai poveri di un pane di frumento denominato “Pane di Polla”.
Il dolce venne poi chiamato “biscottino delle monache di Novara” e tale rimase sino alla soppressione dei conventi, voluta da Napoleone, nel 1800.
Le suore furono costrette a cambiare la loro vita e parecchie trovarono accoglienza presso le famiglie abbienti della città, dove trasferirono e diffusero le loro conoscenze culinarie. Da quel momento il segreto della confezione del biscotto cadde e il prodotto venne ben presto messo in commercio da un farmacista-droghiere, un certo Prina, che iniziò a venderlo nella sua bottega con il proprio nome: “Biscottino di Novara del Prina”.
Parlando della storia di questi biscotti non si può tralasciare la tradizione del carnevale novarese e della Maschera di “Re Biscottino”. Nel secolo scorso, l’espansione dell’industria richiamava manodopera dai paesi limitrofi e con l’accrescere della popolazione cittadina arrivavano i problemi di inserimento. Così un un gruppo di commercianti, professionisti ed esponenti della nobiltà, diede vita ad un rinnovato carnevale allo scopo di dare sfogo al clima di euforia che si era creato per i mutamenti sociali e che faceva di Novara una città moderna. Questo carnevale però venne ideato anche per celebrare il nuovo andamento dell’economia novarese e per onorare i suoi protagonisti: gli “offalieri”, i pasticceri. Si capisce così anche la scelta della nuova maschera: Re Biscottino e l’incoronazione del biscotto a “simbolo della città”, rimasto tale fino ai giorni nostri.

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