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Viaggio in Orient Express

Da Sophielamour

Viaggio in Orient Express...solo per Pin Up Mata Hari

L'appuntamento è per le 19.30 di domenica. Stazione Ostiense di Roma. Rigoroso dress code, l'invito parla chiaro. Opto per Corneliani, Church's, Paul Smith. Sobrietà, tranne nel calzino. Epperò, vestito così sulla semideserta banchina di una periferica stazione ferroviaria romana, in un tiepido tramonto primaverile, comprendo tutta insieme la malinconia del commesso viaggiatore. E mi ritorna in mente con un po' di sgomento quella volta in cui andai mascherato a una festa che non era in maschera. Ma è un pensiero fugace. Il welcome desk mi sorride a pochi metri di distanza, il boarding pass già in mano, l'originale Venice Simplon Orient-Express davanti a me, tirato a lucido fino all'ultimo bullone.
Prendo possesso della cabina, la F6. Risale come le altre agli anni Trenta, restaurata filologicamente: un microsalotto con tanto di abat- jour, comodissimo divano-letto, piccola toilette a scomparsa in un armadio angolare. C'è una porta comunicante per trasformare lo spazio in una doppia cabina con zona giorno e zona notte. La aprirei anche volentieri, se conoscessi il regolare occupante della F5.
Alle 20.30 i compagni di viaggio mi aspettano al bar per l'aperitivo. Luci soffuse, eleganti divanetti, un pianista e un pianoforte a coda, come da celebre letteratura. Bellini, Rossini e Kir Royal gli anacronistici cocktail che scelgo. Impeccabili.
L'Orient-Express consente una letteraria sospensione dalla realtà, la riconciliazione del non luogo. Un fascino irresistibile per viaggiatori romantici e danarosi, per buona parte nordeuropei e giapponesi disposti a pagare una cifra sicuramente più alta di un equivalente ma più comodo soggiorno in un hotel di lusso. Mi dimentico senza sforzo di essere in movimento. Me ne ricordo quando incrocio, per la prima volta, gli sguardi e i volti perplessi e illuminati al neon dei viaggiatori in attesa del regionale della sera mentre transitiamo nella stazione di Grosseto, lenti e tronfi come un circo. Si passa al vagone Côte d'Azur per la cena. Mice en place perfetta, argenti e cristalli "di peso" per sopportare i sussulti del treno. La cena ha del miracoloso. Non tanto perché sia molto buona, come è, nonostante ingredienti e preparazioni superborghesi. Quanto perché, dopo aver visitato la cucina – forse appena più spaziosa di tre metri per uno – si apprezza ancora di più la professionalità di Christian Bodiguel, oltre vent'anni di servizio sulle spalle. Torniamo al bar per un altro cocktail prima della notte. Nel frattempo, fuori dal finestrino, scorrono le insegne delle stazioni di Livorno, Pisa, Firenze.
Quattordici ore di viaggio Roma-Venezia (8 notti Parigi-Istanbul). Il lusso ha i suoi tempi, allungati. E ha le sue comodità. Penso questo mentre cerco di prendere sonno, e penso anche che l'altezza media degli europei è molto cresciuta dai primi anni del secolo scorso, e intanto incastro i piedi tra la fine del letto e la parete, la testa schiacciata sulla bellissima testiera in legno. La luce dell'alba entra in cabina, nella fessura lasciata scoperta dalla tendina, ma è un gran piacere abbandonarsi in un teporoso dormiveglia, cullati dai rumori e dondolii di cui mai si godrebbe su un algido Frecciarossa. Ai primi morsi della fame basta spingere un pulsante sopra la testa, indossare il kimono griffato VSOE, uscire dalla cabina per sgranchire le gambe e scambiare un buongiorno con i vicini di scompartimento - dormito bene? come un sasso! ma lo sguardo è reciprocamente sospettoso perché mai nessuno ammetterebbe il contrario - per trovare al proprio rientro il letto nuovamente trasformato in sofà e la colazione perfettamente servita sul tavolino: caffè, pane e croissant, marmellate e mieli, macedonia di frutta.
Mancano due ore a Venezia Santa Lucia. Giusto il tempo di perdersi negli orizzonti della campagna veneta, fino alla laguna. Capolinea. Commiato in grande stile dello staff del treno. E Shirley, un gran bel pezzo di Riva nonostante gli anni, che mi aspetta ciondolante nel Canal Grande.

 

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