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Vincenzo Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799” VIII

Creato il 19 maggio 2015 da Marvigar4

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XVII

IDEE DE’ PATRIOTI

Quali dunque esser doveano le operazioni da farsi per spingere avanti la rivoluzione del regno di Napoli?

Il primo passo era quello di far sí che tutti i patrioti fossero convenuti nelle loro idee, o almeno che per essi vi fosse convenuto il governo.

Tra i nostri patrioti (ci si permetta un’espressione che conviene a tutte le rivoluzioni e che non offende i buoni) moltissimi aveano la repubblica sulle labbra, moltissimi l’aveano nella testa, pochissimi nel cuore. Per molti la rivoluzione era un affare di moda, ed erano repubblicani sol perché lo erano i francesi; alcuni lo erano per vaghezza di spirito; altri per irreligione, quasi che per esentarsi dalla superstizione vi bisognasse un brevetto di governo; taluno confondeva la libertá colla licenza, e credeva acquistar colla rivoluzione il diritto d’insultare impunemente i pubblici costumi; per molti finalmente la rivoluzione era un affare di calcolo. Ciascuno era mosso da quel disordine che piú lo aveva colpito nell’antico governo. Non intendo con ciò offendere la mia nazione: questo è un carattere di tutte le rivoluzioni; ma, al contrario, qual altra può, al pari della nostra, presentare un numero maggiore o anche eguale di persone che solo amavano l’ordine e la patria?

Si prendeva però, come suol avvenire, per oggetto principale della riforma ciò che non era che un accessorio, ed all’accessorio si sagrificava il principale. Seguendo le idee de’ patrioti, non si sapeva né donde incominciare né dove arrestarsi.

Che cosa è mai una rivoluzione in un popolo? Tu vedrai mille teste, delle quali ciascuna ha pensieri, interessi, disegni diversi delle altre. Se a costoro si presenta un capo che li voglia riunire, la riunione non seguirá giammai. Ma, se avviene che tutti abbiano un interesse comune, allora seguirá la rivoluzione ed andrá avanti solo per quell’oggetto che è comune a tutti. Gli altri oggetti rimarranno forse trascurati? No; ma ciascuno adatterá il suo interesse privato al pubblico, la volontà particolare seguirá la generale, le riforme degli accessorii si faranno insensibilmente dal tempo, e tutto camminerá in ordine.

Non vi è governo il quale non abbia un disordine che produce moltissimi malcontenti; ma non vi è governo il quale non offra a molti molti beni e non abbia molti partigiani. Quando colui che dirige una rivoluzione vuol tutto riformare, cioè vuol tutto distruggere, allora ne avviene che quelli istessi, i quali braman la rivoluzione per una ragione, l’aborrono per un’altra: passato il primo momento dell’entusiasmo ed ottenuto l’oggetto principale, il quale, perché comune a tutti, è sempre per necessitá con piú veemenza desiderato e prima degli altri conseguito, incomincia a sentirsi il dolore di tutti gli altri sacrifici che la rivoluzione esige. Ciascuno dice prima a se stesso e poi anche agli altri: – Ma per ora potrebbe bastare… Il di piú, che si vuol fare, è inutile…, è dannoso. – Comincia ad ascoltarsi l’interesse privato; ciascuno vorrebbe ottener ciò che desidera al minor prezzo che sia possibile; e, siccome le sensazioni del dolore sono in noi piú forti di quelle del piacere, ciascuno valuta piú quello che ha perduto che quello che ha guadagnato. Le volontá individuali si cangiano, incominciano a discordar tra loro; in un governo, in cui la volontá generale non deve o non può avere altro garante ed altro esecutore che la volontá individuale, le leggi rimangono senza forza, in contraddizione coi pubblici costumi, i poteri caderanno nel languore; il languore o menerá all’anarchia, o, per evitar l’anarchia, sará necessitá affidare l’esecuzione delle leggi ad una forza estranea, che non è piú quella del popolo libero; e voi non avrete piú repubblica.

Ecco tutto il segreto delle rivoluzioni: conoscere ciò che tutto il popolo vuole, e farlo; egli allora vi seguirá: distinguere ciò che vuole il popolo da ciò che vorreste voi, ed arrestarvi tosto che il popolo piú non vuole; egli allora vi abbandonerebbe. Bruto, allorché discacciò i Tarquini da Roma, pensò a provvedere il popolo di un re sagrificatore: conobbe che i romani, stanchi di avere un re sul trono, lo credevano però ancor necessario nell’altare.

La mania di voler tutto riformare porta seco la controrivoluzione: il popolo allora non si rivolta contro la legge, perché non attacca la volontá generale, ma la volontá individuale. Sapete allora perché si segue un usurpatore? Perché rallenta il rigore delle leggi; perché non si occupa che di pochi oggetti, che li sottopone alla volontá sua, la quale prende il luogo ed il nome di «volontá generale», e lascia tutti gli altri alla volontá individuale del popolo. «Idque apud imperitos‘humanitas’ vocabatur, cum pars servitutis esset». Strano carattere di tutti i popoli della terra! Il desiderio di dar loro soverchia libertá risveglia in essi l’amore della libertá contro gli stessi loro liberatori.

XVIII

RIVOLUZIONE FRANCESE

Io credeva di far delle riflessioni sulla rivoluzione di Napoli, e scriveva intanto la storia della rivoluzione di tutt’i popoli della terra, e specialmente della rivoluzione francese. Le false idee che i nostri aveano concepite di questa non han poco contribuito ai nostri mali.

Hanno voluto imitare tutto ciò che vi era in essa: vi era molto di bene e molto di male, di cui i francesi stessi si sarebbero un giorno avveduti; ma non hanno i nostri voluto aspettare i giudizi del tempo, né han saputo indovinarli. Si è creduto che la rivoluzione francese fosse l’opera della filosofia, mentre la filosofia aveva fatto poco men che guastarla. Ne giudicavano sullo stato attuale, senza ricordarsi qual era stata e senza preveder quale sarebbe un giorno divenuta.

La rivoluzione francese aveva un’origine quasi legale, che mancava alla nostra. Il suo primo scopo fu quello di rimediare ai mali della nazione, sui quali eran concordi egualmente il popolo ed il re; ed il popolo riconobbe la legittima autoritá degli Stati generali e poscia delle assemblee, non altrimenti che venerava quella del re, per di cui comando, o almeno col di cui consentimento, tanto gli Stati generali quanto le assemblee erano state convocate.

Quello stesso stato politico della Francia, che faceva preveder ai saggi da tanto tempo inevitabile una rivoluzione, produsse la disunione degli Stati generali; si formò l’Assemblea nazionale, ed il re fu dalla parte dell’Assemblea. Che vi sia stato solo in apparenza e costretto dal timore, ciò importa poco: fin qui non vi è ancora rivoluzione.

Essa incominciò allorché il re si separò dall’Assemblea: allora incominciò la guerra civile, ed il partito dell’Assemblea seppe guadagnare il popolo coll’idea della giustizia.

E fin qui il popolo francese fece sempre operazioni al livello, diciamo cosí, delle sue idee. I Stati generali gli sembravano giusti, tra perché la Francia conservava ancor fresca la memoria di altri Stati generali, tra perché erano convocati dall’autoritá del re, che egli credeva legittima. Il re stesso autorizzò l’Assemblea nazionale; il re contrattò con la medesima, allorché divenne re costituzionale; quando fu condannato, lo fu pel pretesto di aver mancato al proprio patto, a cui il popolo intero era stato spettatore. E quale era questo patto? Quello con cui avea egli stesso riconosciuta la sovranitá della nazione ed aveva giurata la sua felicitá. Il popolo, seguendo il partito dell’Assemblea, credette seguire il partito della giustizia e del suo interesse. Quando io paragono la rivoluzione inglese del 1649 alla francese del 1789, le trovo piú simili che non si pensa: s’incomincia la riforma in nome del re; il re è arrestato, è giudicato, è condannato quasi dal re istesso; il popolo passa per gradi dalle antiche idee alle nuove, e sempre le nuove sono appoggiate alle antiche.

Le operazioni de’ popoli van soggette ad un metodo, non altrimenti che le idee degli uomini.

Se invertite, se turbate l’ordine e la serie delle medesime, se volete esporre nell’Ottantanove le idee del Novantadue, il popolo non le comprenderá; ed invece di veder rovesciato un trono, vedrete esiliato un mezzo sapiente o venale declamatore. Al pari che l’uomo lo è nelle idee, un popolo è nelle sue operazioni servo delle forme esterne onde son rivestite; l’esattezza esterna di un sillogismo ne fa bever, senza avvedersene, un errore; l’esterna solennitá delle formole sostiene un’operazione manifestamente ingiusta. Incominciate per inavvertenza o per malizia da un leggerissimo errore: quanto piú vi inoltrerete, tanto piú vi discosterete da quella retta nella quale sta il vero; e vi inoltrerete tanto, che talora conoscerete l’errore, ma ignorerete la strada di ritornare indietro. Allora pochi ambiziosi dichiareranno giustizia e pubblica necessitá quello che non è se non capriccio ed ambizione loro; ed il delitto si consumerá non perché il popolo lo approvi, ma perché ignora le vie di poterlo legittimamente impedire. Quando l’errore vien da un metodo fallace, il ricredersene è piú difficile, perché è necessitá ritornar indietro fino al punto, spesso lontano, in cui la linea delle fallacie si separa da quella della veritá; ma, ricreduti una volta gli animi, per cagion di un solo errore distruggeranno tutto il sistema. La Convenzione nazionale condannò Luigi decimo sesto contro tutte quelle leggi che essa istessa avea proclamate. I faziosi ragionarono allora come avea ragionato Virginio quando Appio appellava al popolo; ed è cosa «di cattivissimo esempio in una repubblica – dice Macchiavelli – fare una legge e non la osservare, e tanto piú quando la non è osservata da chi l’ha fatta». Tutto il bene che poteva produrre la rivoluzione di Francia fu distrutto colla stessa sentenza che condannò l’infelice Luigi decimosesto.

Nell’epoca istessa in cui la Francia credette acquistar piena libertá, incominciarono anche quelle riforme che noi chiamiam superflue. Qual effetto produssero queste riforme? Vi fu una continua lotta tra partiti e partiti; finalmente i partiti non si intendevano piú tra loro, ed il popolo non ne intendeva nessuno. Si correva dietro una parola, che indicava una persona piú che una cosa, e talora non indicava né una cosa né una persona; e le controversie, che non potevano decidersi colla ragione, si decisero colla forza. Robespierre surse; ebbe una forza maggiore e contenne tutte le altre col timore.

Robespierre ritenne le parole per perdere i suoi rivali, ma attaccò a queste parole delle cose sensibili, sebbene tutte diverse, per guadagnar il popolo. Il popolo non intendeva né Robespierre né Brissot; ma sapeva che Robespierre gli accordava piú licenza degli altri, e scannava tutti quelli che Robespierre voleva scannati. Robespierre non poteva durar molto tempo, per la ragione che i suoi fatti non avean verun rapporto colle sue idee e si potevano conservar le cose senza conservar le idee. Che volle significare infatti quella parola di «oltre rivoluzionario», che i suoi rivali inventarono per caratterizzarlo e perderlo?

Robespierre salvò la Francia, facendo rivoltare tutt’i partiti contro di lui ed, in conseguenza, riunendoli (30); ma Robespierre non salvò né potea salvare la sua persona, le sue idee, la costituzione sua.

Le idee erano giunte all’estremo e doveano retrocedere. Si era riformato piú di quello che il popolo volea; e, siccome queste riforme superflue non aveano in favor loro il pubblico costume, cosí conveniva farle osservare col terrore e colla forza: le leggi sono sempre tanto piú crudeli quanto piú son capricciose. Il sistema de’ moderati rimenava le cose al loro stato naturale e non dava loro altra importanza che quella che il popolo istesso lor dava; cosí il suo rigore e la sua dolcezza erano il rigore e la dolcezza del popolo.

L’uomo è di tale natura, che tutte le sue idee si cangiano, tutt’i suoi affetti, giunti all’estremo, s’indeboliscono e si estinguono: a forza di voler troppo esser libero, l’uomo si stanca dello stesso sentimento di libertá. «Nec totam libertatem, nec totam servitutem pati possumus», disse Tacito del popolo romano: a me pare che si possa dire di tutt’i popoli della terra. Or che altro avea fatto Robespierre, spingendo all’estremo il senso della libertá, se non che accelerarne il cambiamento?

La vita e le vicende de’ popoli si possono misurare e calcolare dalle loro idee. Vi è tra l’estrema servitú e la libertá estrema uno stadio che tutt’i popoli corrono, e si può dire che in questo corso appunto consiste la vita di tutt’i popoli. La plebe romana era serva addetta alle glebe di pochi patrizi, non aveva proprietá di beni né di persona. Incominciò dal reclamar leggi certe; ottenne la sicurezza delle persone e de’ beni, ma rimaneva ancora senza nozze, senza auspíci, senza magistrature; chiese ed ottenne la partecipazione a tutte queste cose, ma le chiese con temperanza, le furon concesse con moderazione; e ciò non solo prolungò la vita della repubblica, ma la rese, per la vicendevole emulazione delle parti che la componevano, piú energica e piú gloriosa. Pervenute le cose a quella che chiamar si potrebbe «eguaglianza di diritto», i tribuni pretesero anche l’eguaglianza di fatto: s’incominciò a parlar di leggi agrarie, e la repubblica perí. Si era giunto a quell’estremo oltre del quale era impossibile progredire. Nel primo anno della rivoluzione francese, non si pensava che a stabilire quella eguaglianza di diritto, alla quale tendevano irresistibilmente gli ordini pubblici di tutta l’Europa; nel terzo però si pretendeva l’eguaglianza di fatto: in tre anni voi passate dall’etá di Menenio Agrippa a quella de’ Gracchi. Che dico io mai? Nell’etá de’ Gracchi, mentre si pretendeva eguagliare i beni, si riconosceva la legittimitá del dominio civile. Il rispetto, che il popolo ancora serbava per la legge delle doti, lo trattenne dall’eseguire la divisione de’ beni.

In Francia le idee eran corse molto piú innanzi: erasi messa in dubbio la legittimitá delle doti, quella de’ testamenti, l’istessa legge fondamentale del dominio, senza la quale non vi è proprietá. Le idee della rivoluzione francese erano un secolo piú innanzi di quelle de’ Gracchi: ed ecco perché, contando da quest’epoca, la repubblica francese ha avuto un secolo meno di vita della romana.

Quando le pretensioni di eguaglianza si spingono oltre il confine del diritto, la causa della libertá diventa la causa degli scellerati. La legge, diceva Cicerone, non distingue piú i patrizi dai plebei: perché dunque vi sono ancora dissensioni tra i plebei ed i patrizi? Perché vi sono ancora e vi saranno sempre i pochi e i molti: pochi ricchi e molti poveri, pochi industriosi e moltissimi scioperati, pochissimi savi e moltissimi stolti.

Le idee di Robespierre non potevano star insieme né colle altre idee della nazione francese né con quelle delle altre nazioni di Europa. Togliendo, se però era possibile, alla sua nazione le arti, il commercio e la marina, avrebbe fatti de’ francesi tanti Galli: li avrebbe resi piú guerrieri, ma meno capaci di sostener la guerra; avrebbe potuto in un momento invadere tutta la terra, ma a capo di qualche tempo la terra tutta si sarebbe vendicata e la nazione francese sarebbe stata distrutta. Di un antico si diceva che o doveva esser Cesare o pazzo; di Robespierre si avrebbe potuto dire che o doveva essere il dittatore del mondo o pazzo.

Ho cercato nella storia un uomo a cui Robespierre si potesse assomigliare. Alcuni de’ suoi amici ed anche de’ suoi nemici lo han paragonato a Silla; ma convien dire che i primi non conoscessero Robespierre ed i secondi non conoscessero Silla. Robespierre ha molta somiglianza con Appio. Differivano nelle massime che predicavano; non so se differissero nello scopo che si avean prefisso, perché per me è ben lontano dall’esser evidente che Robespierre, predicando libertá, non tendesse al dispotismo; ma ambedue egualmente ambiziosi e, nella loro ambizione, egualmente crudeli, egualmente imbecilli. Ambedue volevano stabilir colle leggi quel dispotismo, il quale non è altro che la forza distruttrice della legge. Ambedue ebbero quell’autoritá, che Macchiavelli chiama «pericolosissima», libera nel potere, limitata nel tempo, onde nell’uomo nasce brama di perpetuarla, né gli mancano i mezzi; ma questi, non essendosi dati dalle leggi a quel fine al quale egli li indirizza, debbono per necessitá divenir tirannici. Né l’uno né l’altro comprese la massima o di non offender nessuno, o di fare le offese ad un tratto e dipoi rassicurare gli uomini e dar loro cagioni di quietare e fermare l’animo; ma rinfrescavano ogni giorno ne’ cittadini, con nuove crudeltá, nuovi timori, e rendevan feroce quel popolo che volevan dominare. Ambedue volevan stabilire l’impero col terrore; non eran militari, né soffrivano la milizia della quale temevano, ma aveano alla medesima sostituita l’inquisizione ed una prostituzione di giudizi, che è piú crudele di ogni milizia, perché è costretta a punire i delitti che questa previene ed accresce i sospetti che questa minora.

Questa specie di tirannide, che chiamar si potrebbe «decemvirale», è la piú terribile di tutte, ma per buona sorte è la meno durevole.

Per gli uomini che riflettevano, il «moderantismo» non era che uno stato intermedio, il quale ne dovea produrre un altro. La nazione respirava dopo la lotta che avea sostenuta con Robespierre, ma non ancora avea scelto il punto del suo riposo. Un eccesso di energia ne dovea produrre un altro di rilasciatezza. La guerra contro Robespierre era stata desiderata dalla nazione; ma era stata fatta da un partito, il quale poi, come suol avvenire, avea affidata la somma delle cose a mani perfide e sciagurate. La nazione sotto Robespierre fu costretta a salvar la sua libertá: sotto il Direttorio la sua indipendenza (31).

Questo è il corso ordinario di tutte le rivoluzioni. Per lungo tempo il popolo si agita senza saper ove fermarsi: corre sempre agli estremi e non sa che la felicitá è nel mezzo. Guai se, come avvenne altre volte al popolo fiorentino, esso non ritrova mai questo punto!

(30) Robespierre operò sulla Francia come lo stimolo opera sull’eccitabilitá umana, nel sistema di Brown.
(31) Questo punto oggi è provato.

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