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Visage di Tsai Ming-liang

Creato il 02 luglio 2010 da Monietta

Visage di Tsai Ming-liang
Viviamo nel tempo dell’incontinenza verbale, così assuefatti dal subire continuamente delle voci che il silenzio non fa più parte della nostra quotidianità; eppure la suggestione non nasce soltanto dalla parola, anzi, più frequentemente è lo spettacolo del visibile a far risvegliare le emozioni più intime. Allo stesso modo la natura profonda del cinema non è quella della parola, la sua grammatica l’ associa ad un’arte primitiva e “silenziosa”, la pittura, con la quale condivide il suo tassello portante, il quadro, oggetto iconico bidimensionale al cui interno il regista, come il pittore, si esprime.
Come suggerisce il titolo il cineasta vuol far accedere lo spettatore ad una dimensione che non tratta di storie ma di volti e quindi metaforicamente si ricollega al ritratto, un particolare che è tipico della pittura, di un’immagine che è sguardo sulla realtà, che può essere sia un viso che uno scorcio di paesaggio. È attraverso questi sguardi, spesso costruiti su inquadrature fisse, che Tsai Ming-liang riducendo i dialoghi a battute minime e immortalate come moniti profetici, indaga nell’animo dei suoi protagonisti riuscendo solo con lo sguardo a far trasparire dai volti i motivi fondanti dell’esistenza: la vita, l’amore e la morte.
Il soggetto metacinematografico, del film sulla Salomè, altro non è che il pretesto necessario ad arrivare all’universale partendo da un contesto determinato: Kang gira un film sulla Salomè all’interno del Louvre, ma il tournage è l’espediente per riflettere sui meccanismi del sentimento che si dipanano tra le persone mentre il celebre museo diviene un luogo fuori tempo i cui sotterranei, palcoscenico prediletto da Visage, sono le viscere della storia dell’umanità.
Come tra reale ed onirico, il regista si muove tra il presente, l’amore tra la giovane attrice che interpreta Salomè ed il regista Kang, e il passato che si risveglia nelle figure del cinema francese: il volto di Jeanne Moreau che appare come spirito, quello sfiorito ma ancora splendido di Fanny Ardant e quello segnato di Jean-Pierre Léaud; attori che mantengono il loro nome o che s’immedesimano nel nome che per molto tempo è stato il proprio: Léaud ancora una volta Antoine, chiaro omaggio del regista taiwanese a Truffaut.
In questo splendido tessuto di volti si affaccia la primigenia traccia della terra e dei suoi elementi ed in primo luogo l’acqua. Acqua che sprizza vigorosa come la furia della creazione nella sequenza iniziale, l’acqua che culla la bella Casta ed il suo amato ed infine quella immobile, congelata: la neve nella quale Fanny sprofonda e sotto i cui fiocchi, che cadono lenti, dorme in primo piano un magnifico Antoine.
Jean-Pierre Léaud torna al cinema e Tsai Ming-liang lo fa apparire per ciò che è, senza racchiuderlo in un personaggio, senza ingabbiare il suo manierismo ancora intatto, lo chiama soltanto Antoine, questa è la libertà che si prende il regista davanti al suo attore, cosciente che la bravura non sta tanto in racchiudere un attore in un personaggio quanto nel farlo esprimere al meglio per ciò che egli può dare; Tsai Ming-liang ha scelto e poi ha mostrato ma non ha costruito, ha lasciato che gli eventi si dipanassero da soli e li ha fotografati, immortalati con una purezza tale da rendere il minimo gesto carico di significato. Antoine raccoglie un uccellino dalla neve, lo mette sul cuore, quell’uccellino è un regista, è un attore è il cinema stesso; è Orson Wells e Chaplin, Keaton e Pasolini, il passato e il futuro sono là, dietro lo schermo di una macchina da presa, ciò che è stato e ciò che sarà, un vecchio attore ed un giovane regista, l’occidente e l’oriente s’incontrano grazie al cinema e per il cinema. Ed il cinema è quel piccolo uccellino, a cui Tsai Ming-liang regala uno splendore senza pari poiché esso rappresenta il fil rouge che collega le dicotomie, è l’immagine del cinema che è stato e di quello che sarà, che vola, cade ma poi rivolerà ancora: il concetto per cui da un qualcosa di minimo possa nascere qualcos'altro di grandio.
All’acqua si affiancano gli specchi, il riflesso, altro motivo che insieme al quadro è nel cuore del cinema: riflettere la vita senza sentire il bisogno di costruirla ex-novo. Negli specchi si ritrova l’immagine che da un peso al corpo, donando di nuovo la realtà al reale: Fanny trucca Antoine non per nasconderlo ma per meglio mostrare le sue ferite simbolo dell’angoscia della vita vissuta cosicché il trucco, come il cinema, diviene il mezzo per far sbocciare il vero.
Il vero è l’attore che non interpreta ma è, è Erode, Antoine e Léaud che dai sotterranei del Louvre riemerge come da sé stesso, appare sotto il San Giovanni Battista, splendida figura che mostra come riproducendo la semplice realtà si arrivi alla favola, e l’attore esce infine dal quadro mentre un quadro antico rimane lì a simboleggiare il tempo della vita e dell’arte.


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