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Vito Catalano, “Il vicerè giustiziere”

Creato il 10 novembre 2011 da Retroguardia

Vito Catalano, “Il vicerè giustiziere”Vito Catalano, Il vicerè giustiziere, Roma-Caltanissetta, Salvatore Sciascia editore , 2011, p.64.

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di Mario Minarda

Leggendo le pagine del secondo libro di Vito Catalano, Il vicerè giustiziere, pubblicato per Sciascia editore, l’impressione iniziale è quella di avere tra le mani un breve saggio storico dal piglio eminentemente divulgativo, il cui vero sapore è però venato da sapienti intarsi di natura letteraria. Si è di fronte al racconto denso e scorrevole delle vicende riguardanti la figura di Pedro Giròn, duca di Ossuna, divenuto vicerè della Sicilia nel 1611. Costui, personaggio sui generis del quale viene fornita sin dall’inizio una vivace ritrattistica («coraggioso, ambizioso, e amante delle donne…»; «…affilato e arguto ma spesso agiva e parlava d’impeto» pp. 8 – 9) si preoccupa unicamente di amministrare la giustizia in maniera coerente e autoritaria, per scongiurare il pericolo di eventuali disordini sociali, che come tanti piccoli fuochi sono pronti a divampare nell’isola.

Trovandosi ad operare in un contesto alquanto farraginoso in cui le condizioni di vita della popolazione civile sono precarie, e dove a situazioni igieniche pessime si aggiungono angherie e illegalità di ogni tipo, il suo pragmatismo mira ad essere quanto più politico possibile: («Il duca voleva imporre la sua autorità, ma desiderava essere amato dal popolo e non rappresentare esclusivamente la parte del governatore autoritario lontano dalla gente (…) in un tempo in cui abusi, omicidi, ricatti e scorrerie di pirati avvenivano quotidianamente e dovunque regnava una pericolosa anarchia» p. 15).

Facendo leva sullo spirito duplice della «golpe e del lione», per dirla con Machiavelli, il duca alterna così episodi di crudeltà sommaria ed eccessiva (come quando «fece impiccare uno spagnolo, davanti alla taverna di Sant’Antonio, colpevole di non aver pagato il taverniere dopo avere consumato il pasto» p. 23) ad altri di rara magnanimità: si mostra tollerante con la comunità musulmana e con varie categorie sociali, dispensando loro denaro «lanciato» dalla finestra.  Protagonista eccentrico, la cui bizzarria sfiora a volte il paradossale, il vicerè ama le maschere e i travestimenti, divertendosi a manipolare e stuzzicare la sua stessa integrità morale e quella dei semplici sudditi.

Oltre alla giustizia si sente tuttavia l’eco di altri temi sciasciani come l’amore per la verità, ma anche il raggiro e l’impostura visti con disinvoltura e adeguato cinismo («Il vicerè dava alla verità il volto che gli conveniva e adottò un sistema intelligente e ambiguo» p. 40). Aldilà dei contenuti, che immettono nel testo viva curiosità per i fatti dell’epoca, quello che colpisce di più è come Catalano costruisce il suo libello e quindi come va componendo la stessa immagine del duca. Lo stile somiglia a quello di un pamphlet limpido che non indugia in asperità retoriche o ampollosità linguistiche. La precisione del periodare unita al palese citazionismo tratto da fonti diverse fanno di questo breve scritto un prezioso documento di ricostruzione storica, corredato di opportuna bibliografia finale.  Una certa perizia filologica è presente tra le pagine dell’autore de L’orma del lupo. Infatti a volte il macro racconto/descrizione delle imprese del duca si interrompe per fare posto a piccoli quadri di insieme come quello che riguarda l’espulsione dei moriscos dalla Spagna e le ripercussioni che tale cacciata ebbe in Sicilia. In altri passi invece lo stesso ritratto di Pedro Giròn è costruito grazie a brevi aneddoti tratti da storie inventate che hanno però un qualche fondamento nei manoscritti o in documenti letterari specifici. Le storie vere si mescolano alle leggende che circolavano sul personaggio, e le stesse leggende si basano sulle dicerie popolari tramandate oralmente attraverso i secoli. Quello che sembrava un semplice saggio di argomento storico diventa così via via uno scritto dal carattere parzialmente polimorfo, una sorta di testo mosaico che procede per incastri, i cui tasselli tuttavia si raccordano sempre al disegno principale.  Letteratura e realtà si intridono l’una con l’altra quasi a creare un fascinoso vortice ritrattistico colmo di passioni, stramberie e amarezze a tinte forti. D’altronde il riferimento patente a personalità letterarie come Miguel de Cervantes (del quale sono citate le Novelle esemplari), Jorge Luis Borges, Francisco de Quevedo (il cui romanzo Vita del briccone offre più di uno spunto per l’elaborazione del personaggio), Giovanni Verga e altri, conferma dall’interno la volontà di avvalorare la realtà storico sociale con la finzione ‘verosimile’ proveniente dal mondo delle lettere e dell’arte in generale. Nella tessitura stilistica che accompagna la scrittura del Vicerè giustiziere non mancano né precise notazioni linguistico-culturali (si cita la voce ‘zingaru’ dal Dizionario Siciliano Italiano Latino di Del Bono e le osservazioni sullo stesso lemma avanzate da Giuseppe Pitrè) né spunti in cui si mostra tutta la preziosa ambiguità della storia narrata come si evince a proposito delle avventure erotiche del duca definite dal narratore «un miscuglio di realtà e fantasia… che dovevano comunque sempre intrecciare vicende romanzesche» (p.48). Elementi che contribuiscono a spargere sui fatti «più di un’ombra di dubbio». Così come una buona dose di scetticismo critico che mira a fare riflettere il lettore è fornita dalla citazione conclusiva delle parole degli Avvertimenti cristiani di Argisto Giuffredi (autore siciliano del tardo cinquecento non a caso messo in luce dal nonno dell’autore Leonardo Sciascia) sulla giustizia, o di Pietro Verri sulla tortura, la quale «non è un mezzo per iscoprire la verità …ma un mezzo per confoderla». Frasi e considerazioni che lasciano il giudizio finale circa l’efficacia dei mezzi giustizieri (o giustizialisti si direbbe oggi) operati dal duca quanto mai aperto.

M.M.

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