Magazine Cultura

Vivalascuola. Viva l’Italia

Creato il 14 marzo 2011 da Fabry2010

Vivalascuola. Viva l’Italia

La data del 17 marzo 2011 non può costituire una semplice ricorrenza di routine, ma invece l’occasione perché nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle piazze, nelle famiglie, si rifletta sulla nostra storia, senza alcuna retorica, senza squilli di trombe, considerando invece le luci e le ombre del nostro recente passato. (Maurizio Tiriticco, qui)

Italianità, Risorgimento e dintorni
Tra storia, memorie e (speranza di) futuro
di Silvana Citterio

Diventare cittadino italiano

Nel gennaio 2009 sono diventato cittadino italia­no. Faccio parte di un flusso costante di stranieri, cir­ca 40000, che ogni anno assumono la cittadinanza italiana. Non basta per fare dell’Italia un paese multiculturale, ma certo è un inizio. Alla cerimonia di conferimento della cittadinanza l’allora presidente del Consìglio comunale fiorentino, Eros Cruccolini, mi invitò a leggere ad alta voce due articoli della Costituzione e mi consegnò una bandiera italiana, la bandiera arcobaleno della pace e una copia della Co­stituzione italiana.

I miei amici in gran parte rimasero stupiti all’an­nuncio della mia naturalizzazione. «Ma chi te lo ha fatto fare, mi dicevano, e proprio ora, poi». Uno o due si affrettarono a sincerarsi che avessi avuto il buon senso di mantenere anche la cittadinanza bri­tannica. Il commento più caustico è stato: «Beh Paul, almeno potrai dire assieme a tutti noi altri: “Mi ver­gogno di essere italiano”.

Così Paul Ginsborg nel suo bel libro Salviamo l’Italia racconta come è diventato un nostro connazionale. Voglio sottolinearne due elementi.

Il rituale simbolico, con consegna delle bandiere, italiana e della pace, e lettura-consegna della Costituzione, allude in modo chiaro alla condivisione consapevole dei principi ispiratori della nostra Repubblica: la nascita e la formazione di una nazione democratica che “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, il riconoscimento del patto fondativo che definisce le regole della convivenza fra le italiane e gli italiani.

Il secondo aspetto riguarda invece la reazione degli amici italiani di Paul Ginsborg, increduli e quasi sbigottiti per la sua scelta. Una reazione che ben traduce un sentimento oggi assai diffuso fra i nostri connazionali: tristezza e rassegnazione circa il destino del paese.

Italiani e non-Italiani
Perché un tale disprezzo per la nostra italianità? Perché c’è poco o nessun orgoglio nel sentirsi italiani e italiane? Che questo abbia a che fare con “lo spostamento o il rovesciamento di significati e la loro assunzione inconsapevole”, come suggerisce Gustavo Zagrebelsky nel suo recente opuscolo Sulla lingua del tempo presente? (1)

Alla voce “Italiani” l’autore annota come una parola “descrittiva e a prima vista del tutto neutrale”, se non addirittu­ra significativa di “unione e fratellanza, secondo le parole dell’inno nazionale”, sia invece diventata “parte di un lessico dell’ostilità”. Infatti, prosegue:

“Sempre più spesso la si pronuncia in contesti che le attribuiscono un sottinteso polemico: in un caso, per così dire, per ecces­so e in un altro per difetto di «italianità». C’è un partito che dal suo capo è stato definito «partito degli italiani», con un’espressione che contiene un ossimoro: partito è per defi­nizione una parte; italiani dovrebbe signifi­care il tutto. [ …]

Queste sono usurpazioni tollerate, anzi nemmeno percepite, come se non significas­sero nulla. Invece significano molto: che chi non appartiene a quel partito o, certamente, chi lo avversa; che chi non si riconosce in quel presidente del Consiglio o addirittura se ne vergogna o, almeno, lo disistima, non fa par­te degli italiani, cioè appartiene alla catego­ria di coloro che vogliono non il bene, ma il male dell’Italia: in breve, sono non solo dei pessimisti (già una mancanza di fede), ma ad­dirittura dei traditori disfattisti [ …]

In sostanza, questo uso di «italiani» vale a dire che non tutti lo sono al medesimo livello di cittadinanza. Questo è il veleno della discriminazione che, se non conduce per ora a misure concrete conseguenti, certo produce un senso di superiorità e d’arroganza «naziona­le» cui corrisponde il disprezzo nei confronti dei cosiddetti «anti-italiani».

Sul versante opposto, ci sono poi quelli che all’italianità attribuiscono un valore negativo. «Italiano», per costoro, è sinonimo di estra­neo alla buona appartenenza, dunque vale come un’offesa o, almeno, come una presa di distanza a partire da una diversa cittadinanza particolare, localizzata in un’identità che non si intende compartecipare. Quest’uso della parola porta con sé non discriminazione, ma separazione, distacco, secessione.

È un paradosso, destinato prima o poi a sciogliersi, che questi due opposti significati di una parola primordiale per ogni vita asso­ciata, la parola che indica l’ambito dì coloro che fanno parte dell’associazione, si trovino rappresentati da forze che stanno insieme al governo.”

Dunque chi non si sente rappresentato da questo “partito degli italiani (e gli amici di Paul Ginsborg possono ben rientrare in questa categoria) quasi si vergogna della sua italianità e, come uno straniero in patria, si sente del tutto escluso dal “sistema-paese”.

E i giovani? Qual è il loro punto di vista sulla comunità nazionale?
C’è senso di appartenenza nei giovani? Che cosa – nel bene e nel male – fa sentire italiani e italiane le giovani generazioni? Al riguardo qualche indicazione interessante si ricava dal progetto Verso il 150° dell’Unità d’Italia. Identità nazionale e culture a confronto, un concorso nazionale (2) che nell’anno scolastico 2009-10 ha coinvolto nella Regione Marche istituti scolastici del primo e secondo ciclo.

Dal questionario somministrato in tale ambito a 230 studenti, così ripartiti: 167 di scuola secondaria di 1° grado, 54 di scuola secondaria di 2° grado, 9 di corsi post-diploma, possiamo dedurre qualche elemento di riflessione.

Il questionario, strutturato in 16 item, si articola intorno a conoscenze rilevanti della storia nazionale e locale (con attenzione al patrimonio culturale) e al sentimento di appartenenza alla comunità degli italiani e delle italiane.

Le risposte dei 167 studenti di scuola media mettono in evidenza una forte sensibilità per valori quali la libertà, la democrazia, il rifiuto di ogni discriminazione, la solidarietà e una fiducia nelle potenzialità dell’Unione Europea come fattore di rafforzamento dell’identità nazionale.

Le risposte dei 63 studenti più grandi (15-25 anni) dimostrano invece una maggiore accentuazione delle posizioni “critiche” e della sfiducia riferita al futuro, strettamente legate a una visione più pessimista della realtà attuale.

Infine notiamo come fra le motivazioni che suscitano l’orgoglio di essere italiani, la più “gettonata” dai più piccoli e dai più grandi riguardi la vittoria conseguita dalla Nazionale di calcio ai Mondiali del 2006. Insomma i giovani e, a quanto si sa, anche i meno giovani si sentono “orgogliosamente italiani” solo quando vince la Nazionale di calcio.

Il Risorgimento tra identità, storia e memoria
A 150 anni dall’Unità a che punto siamo nel percorso di dialogo e incontro al fine di raggiungere una cultura condivisa? Che significa per noi essere italiani nel contesto di una realtà multiculturale fortemente globalizzata, quale è quella in cui ci troviamo a vivere oggi? Qual è, in altre parole, la nostra identità specifica rispetto agli altri popoli e alle altre culture del Pianeta?

Se queste domande, come credo, hanno un senso, il progetto che abbiamo sopra indicato è, a mio avviso, una buona proposta per affrontare lo studio del Risorgimento e dell’intero processo di unificazione nazionale, sottraendolo da una parte al rito di una commemorazione retorica e vuota e dall’altro all’abuso della memoria o, più correttamente, agli abusi della tante memorie soggettive e particolari, tutte “frantumate” e – sul piano della storia – indimostrabili e insignificanti.

Una proposta in cui la Scuola viene chiamata ad assumersi un ruolo fondamentale nel processo di formazione di una memoria storica “costruttrice di identità che consente di “attivare e oggettivare l’incontro tra punti di vista diversi, tra individuo e comunità, tra conoscenze e culture differenti, tra locale e globale”. (3)

Se la funzione della Scuola è quella di sviluppare la “competenza storica, ovvero non tanto saper riconoscere e ordinare gli eventi del passato, ma comprendere la complessità del presente come un portato articolato e dinamico di quel passato e, inoltre, avere curiosità verso ciò che siamo stati per diventare consapevoli dei processi di trasformazione che ci fanno oggi essere quello che siamo e non altro; e, ancora, individuare come e perché agiscono – nei diversi periodi storici e rispetto a differenti avvenimenti, fenomeni, soggetti – i meccanismi della memoria e dell’oblio, allora occorre ripristinare una corretta dialettica fra storia e memoria.

Un riequilibrio necessario per affrontare il Risorgimento, un tema che, avendo a che fare con i concetti di identità e unità nazionale e quindi di cittadinanza, è caldo e addirittura bollente se si pensa al cortocircuito istituzionale che si è scatenato sul 17 marzo (festa si, festa no, festa come) e che – dopo i “cannoneggiamenti antirisorgimentali” avviati da parte leghista e le analoghe reazioni dal “fronte filo borbonico” – si è concluso con una spaccatura interna al Governo, all’atto della promulgazione del decreto.

Tornare alla Storia, non abusare delle memorie
Nell’imminenza del 150° dell’Unità sono stati pubblicati molti testi a taglio sia divulgativo sia specialistico. Ecco qualche indicazione utile per affrontare un tema tanto caldo e attuale, come insegnanti di storia e formatori di cittadini del mondo.

Così sul processo di unificazione nazionale Mario Isnenghi, autore de I luoghi della memoria, vera e propria enciclopedia dell’ Italia unitaria, riproposta nel 2010 da Laterza dopo la prima edizione del 1996.

«Figurarsi tutto il Risorgimento come congiura massonica e imposizione dei protestanti inglesi può valere a tardive vendette e ideologici risarcimenti. Ma certo, sporcare con le politiche della memoria la storia così come è stata non porterà a sostituirla con nessuna antistoria. Si può solo riuscire ad essere tutti ancora più confusi, disancorati, poveri di autostima. […] Siccome i grandi progetti non ci riesce più di pensarli e realizzarli noi neghiamo e sporchiamo anche quelli che hanno fatto gli altri. Processiamo il Risorgimento, riduciamo la Resistenza a truci ammazzamenti». (4)

E circa l’appassionato neorisorgimentismo che negli ultimi anni sta accomunando studiosi di culture politiche differenti, così argomenta:

«È una difesa reattiva all’ attacco sferrato a quella tradizione. Forse è successo anche ad altri quel che è accaduto a me o a studiosi come Silvio Lanaro. Novecentisti quali eravamo, abbiamo cominciato a ragionare sulla genesi dello Stato così vilipeso, opponendo alla spinta frammentatrice del discorso pubblico un ragionamento storico illuminista in difesa dello Stato e di una dialettica civile decorosa». (5)

Insomma tornare al Risorgimento, a un progetto ispirato da grandi ideali e realizzato (forse anche un po’ fortunosamente), ma con molti sacrifici, tra rinunce e compromessi, per rifondare storicamente le ragioni e i modi della nostra civile convivenza.

Nazionalismo? Avrei preferenza di no
In modo ancora più netto Alberto Mario Banti, altro noto studioso del periodo, ci invita a non schierarci, come in opposte tifoserie pro Mazzini e contro Cavour o viceversa e per Garibaldi, “eroe dei due mondi” o contro Garibaldi, “assassino e ladro di cavalli”, ma a considerare con maggior discernimento, data la distanza storica, gli avvenimenti di un periodo così lontano.

La sua indagine si articola intorno alla formazione dello Stato-nazione, un processo non solo italiano ma europeo, perché l’Europa dell’Ottocento è l’Europa dei nazionalismi.

Nello Stato-nazione “la sovranità appartiene non a un singolo (il re), o a gruppi ristretti (i nobili), ma all’intera popolazione di un territorio, una collettività che dalla fine del Settecento viene identificata prevalentemente col termine di «nazione” (6). E la “nazione” viene descritta – sin dal primo Ottocento – come “una comunità di destino, cementata dal sangue, dotata di una terra, di una cultura, di una tradizione religiosa e storica, e pronta a combattere per riscattarsi da secoli di oppressione.” (7) Si tratta quindi di “un’ideologia che invoca la libertà nazionale, anche se dev’essere ben chiaro che la libertà di cui si parla riguarda solo una parte ben specifica della comunità nazionale” (8) più ristretta secondo i nazionalisti liberali (no al diritto di voto per donne, poveri, ceti medi, stranieri) più allargata per i nazionalisti democratici (niente donne, niente stranieri).

Banti, dopo averci ricordato le divisioni interne al movimento risorgimentale circa l’assetto politico-istituzionale del nuovo stato (repubblicani o monarchici; centralisti o federalisti; liberali o democratici, in combinazioni varie) e aver sottolineato che il Risorgimento è stato, come ogni processo di formazione della nazione, una guerra civile (che ha avuto nello Stato pontificio un fomentatore e il più fiero oppositore sul cammino dell’Unità) conclude la sua disamina sull’utilizzo politico e attuale della “questione identitario-risorgimentale” affermando che:

“se c’ è da difendere l’unità dell’ attuale Repubblica italiana contro ipotesi di secessione, piuttosto che tirare in ballo il Risorgimento dovremmo ponderare altre ragioni. Per esempio dovremmo considerare che storicamente sono pochissimi i casi di rilevanti mutamenti geopolitici che non siano stati preceduti o accompagnati da gravissime violenze: e questo, per me, sarebbe più che sufficiente per opporsi a ogni ipotesi secessionista, chiunque la avanzi. Oppure potremmo anche semplicemente osservare che il senso di uno Stato dovrebbe giudicarsi non dalla congruenza della sua territorialità con presunte identità etniche, quanto dai valori fondamentali che si pensa debbano regolare la sua vita collettiva: da questo punto di vista, i valori ideali della Repubblica italiana sono scritti nella Costituzione (se e per quanto ancora reggerà), e sono molto belli, se solo uno si prendesse la briga di leggere il testo e di rifletterci su. D’ altro canto non saprei dire quali potrebbero essere i valori di un possibile Stato padano o neo-borbonico; e da quel che si vede c’ è da dubitare che sarebbero altrettanto belli di quelli difesi dalla carta costituzionale della Repubblica italiana.“ (9)

Insomma se l’unità nazionale è in pericolo e si intende salvaguardarla non si potrà farlo attraverso la retorica risorgimentale esemplificata nel famoso verso manzoniano “Una d’arme, di lingua, d’altare/ di memorie, di sangue e di cor”, ma attraverso pratiche di cittadinanza inclusive, quale potrebbe essere l’esplicito riconoscimento da parte di tutte le italiane e gli italiani, ossia di quanti oggi vivono sul territorio nazionale, della Costituzione come patto fondativo e regolativo della loro civile convivenza.

Nel recentissimo Sublime madre nostra (10), Banti chiarisce come il concetto di nazione – attraverso le sue figure profonde di comunità di sangue, terra e genere (maschile) – diventi la categoria retorica fondante la comunità degli italiani dal Risorgimento al fascismo, senza sostanziale soluzione di continuità, pur nella differenziazione degli obiettivi politici.

«Il nazionalismo risorgimentale si struttura intorno a una concezione biopolitica della comunità. Si appartiene alla comunità per nascita, per legame di sangue, non per scelta. Questa nozione biopolitica è stata irrigidita e radicalizzata dal fascismo, fino all’infamia delle leggi razziali, che rappresentano però il coerente sviluppo del criterio della purezza della discendenza.

In questa accezione la nazione non è un “prodotto storico”, ma – come “dato naturale” e come comunità identitaria chiusa – è eterna e immutabile. Non un’ idea che si forma piuttosto lentamente fra XVII e XVIII secolo e che prende corpo, a partire dalla Rivoluzione Francese, negli stati europei dell’Ottocento, ma un tratto costitutivo e quindi performativo ab origine della umana convivenza. Le nazioni ci sono sempre state, almeno come aspirazione dei popoli, e quindi sempre ci saranno.

Una diversa idea di nazione e patria
Due altre recenti ricostruzioni storiche del Risorgimento: Giorgio Ruffolo, Un paese troppo lungo. L’unità nazionale in pericolo, Einaudi, 2009 e il già citato in apertura Salviamo l’Italia di Paul Ginsborg (Einaudi, 2010), individuano invece nell’idea di nazione (o meglio di patria) un fattore positivo e propositivo. Accomunati dall’istanza di guardare indietro per guardare avanti, entrambi gli autori rileggono il passato per avere (qualche) speranza nel futuro.

Giorgio Ruffolo guarda all’unificazione nazionale come a un processo di lunghissimo periodo: mancato al tempo di Federico II, incompiuto nel Risorgimento, minato in epoca fascista e oggi minacciato in modo esplicito.

Dopo aver distinto due fasi “quella di un Risorgimento caldo animata dal sogno di un’Italia che fa da sé la sua unità, nazionale e popolare; e quella di un Risorgimento freddo, costruita sulla trama-capolavoro di un grande statista, Cavour, ma anche sulla paradossale intesa tra il moderatismo monarchico e il radicalismo repubblicano.” (13) Ruffolo individua nel 1861, “l’anno in cui si compie il grande moto del Risorgimento, ma anche quello in cui esso comincia a invischiarsi nella grande palude dell’Antirisorgimento.” (14)

L’Antirisorgimento si svilupperà in tre forme storiche: “la corruzione del patriottismo risorgimentale nel nazionalismo aggressivo”, che condurrà alla Prima guerra mondiale e all’avventura del fascismo, “il condizionamento dello Stato italiano da parte della Chiesa cattolica” e, ultima, ma non ultima, la questione meridionale, nata dai modi della conquista piemontese che sostituì le istanze libertarie delle camicie rosse con la guerra al brigantaggio, scavando tra le due parti del paese un solco che attualmente si sta radicalizzando in senso secessionista tra “rivolta del Nord” e “deriva criminale del Sud”.

Alle masse rurali del Mezzogiorno, private degli usi comuni feudali ma costrette al servizio militare e a un maggior prelievo fiscale, restarono due alternative: una “esterna”, l’emigrazione, e l’altra “interna”.

Dal 1901 al 1923 “bastimenti per terre assai lontane, in viaggi transoceanici molto meno costosi di quelli ferroviari diretti verso i paesi europei, portarono in America 4.701.000 italiani, di questi 3.374.000 erano meridionali.” (15) Una popolazione, per lo più analfabeta, destinata a implementare i ranghi del proletariato urbano del Nord America, a differenza dei migranti provenienti dal Nord Italia che si diressero prevalentemente verso l’America Latina.

La seconda soluzione venne ricercata in loco, dove le “buone relazioni” potevano assicurare ai più istruiti un posto tra la burocrazia impiegatizia e ai meno alfabetizzati un ruolo di servizio o di manovalanza per il potere mafioso, che già alla fine del XIX secolo si era ben delineato. Da quel periodo il sistema delle famiglie e delle clientele ha costruito nei decenni, estendendosi man mano all’intero territorio nazionale, una società bloccata, strutturata in caste chiuse e in lobbies separate e confliggenti fra loro.

L’esclusione dei ceti subalterni e del genere femminile dalla comunità nazionale, il non averli fatti sentire – almeno fino al secondo dopoguerra – “cittadini e cittadine a casa loro è un prezzo che ancora stiamo pagando. Insomma i guasti di quel processo di unificazione incompiuto sono oggi ben presenti e addirittura rischiano di metterlo in discussione.

E allora come uscirne? Ruffolo indica nella “nazione” una forza ideale contro il populismo di Berlusconi e dei suoi alleati (basato sulla triade “paura, spettacolo, successo”), intravvedendo nell’unità nazionale una nuova forma di solidarietà sociale da perseguirsi con politiche di cittadinanza inclusive e di sostenibilità ambientale, che puntino a restituire vivibilità alle nostre cento (e più) città degradate e a ridare dignità di “Stato-nazione” all’Italia nel consesso dell’Unione Europea.

Sulla stessa linea Paul Ginsborg che, nel suo Salviamo l’Italia, si riappropria in senso positivo e proiettivo del concetto di “patria-nazione” e, rifacendosi a George Orwell, Simone Weil, Carlo Rosselli, definisce il patriottismo:

“un sentimento semi-inconsapevole, ‘reale benché impalpabile‘ (come scriveva la Weil) . Era l’amore per un luogo, la sensazione di appartenervi, la celebrazione di storie sia personali sia pubbliche. Era fatto di memorie e tradizioni, paesaggi e itinerari, poemi e dipinti, canti, sia laici sia religiosi, cibo e bevande.” (16)

Un sentimento, quello patriottico, che, nonostante la violenza aggressiva del nazionalismo, aveva – nello spirito dei patrioti che combattevano una guerra di popolo per la libertà e la giustizia – un carattere difensivo. O forse sarebbe meglio dire: avrebbe potuto avere un carattere difensivo, perché, conclude Ginsborg,

“la distinzione fra patriottismo e nazionalismo è potenzialmente più valida come strumento per leggere il futuro piuttosto che il passato. [ …] Ci furono sprazzi di luce come nella primavera del 1848, si levarono voci isolate, ma nulla più. Il patriottismo che vogliamo deve essere ancora costruito.” (17)

Ginsborg individua poi nel “ceto medio riflessivo” l’erede dei patrioti risorgimentali, quei volontari giovani, maschi e acculturati che fecero l’Italia, ma non ebbero modo di fare gli italiani. In questo ceto di persone istruite composto da professionisti, insegnanti, amministratori, impiegati, operatori del terzo settore, con un’alta percentuale femminile, si riconosce il soggetto sociale e politico che potrà salvare il paese, rifondandone su regole di cittadinanza condivise e inclusive il patto costitutivo.

In tal senso Alberto Mario Banti (e con questo torniamo al nostro incipit) suggerisce, come auspicio verso un paese più accogliente e vivibile, di far giurare sulla Costituzione anche gli italiani figli di italiani.

“Anche oggi la cittadinanza italiana è fondata sul sangue: è italiano chi è figlio di genitori italiani, mentre per i figli degli immigrati c’ è una procedura che prevede la sottoscrizione d’un patto di fedeltà alla Costituzione. Perché in nome di un’appartenenza naturale i nostri figli possono acquisire diritti civili e politici, mentre quelli degli altri devono firmare un patto? Non sarebbe più giusto se anche i nostri figli fossero soggetti a un accordo collettivo di lealtà costituzionale?». (18)

Verso una pedagogia del Risorgimento
Le argomentazioni di Banti sul concetto di nazione e, in particolare, l’uso che il fascismo fece del mito risorgimentale possono – a mio avviso – spiegare le resistenze più o meno esplicite che un insegnante democratico ha spesso avvertito nell’affrontare il Risorgimento come tema di studio. Questo più o meno il suo ragionamento. Se devo selezionare i contenuti lo faccio scegliendo temi e percorsi con cui mi sento in sintonia dal punto di vista emotivo e cognitivo e problematiche che, coprendo scale temporali e spaziali più ampie, meglio possono sviluppare la competenza storica negli studenti. Per esempio le migrazioni, trattato come un fenomeno di lunghissima durata sulle carte del mondo.

Per questo motivo come associazione di insegnanti che si riconoscono nell’acronimo IRIS (19) (Insegnamento Ricerca Interdisciplinare di Storia) abbiamo provato a trattare il “Risorgimento” come un processo di lunga durata, il processo di unificazione nazionale che, avviatosi con le repubbliche napoleoniche, consolidatosi nell’Italia liberale e fascista, rifondato sulla Costituzione nata dalla Resistenza, rischia ora di infrangersi sugli scogli della secessione o forse di evaporare nel miraggio di un federalismo poco definito e, a quanto pare, poco solidale.

Riteniamo infatti che nella ricorrenza del 150° dell’Unità e nella attuale situazione di emergenza democratica il tema della fondazione e – a nostro parere – della necessaria rifondazione della comunità nazionale non possa essere eluso, ma vada affrontato come problema storico strettamente correlato all’educazione alla sostenibilità sociale e ambientale e a una ridefinizione aperta, inclusiva e agita del concetto di cittadinanza.

Coerentemente con tale intenzione mi permetto di segnalare il progetto Italiani ieri e oggi. 150 anni dall’Unità che una cooperativa di La Spezia, Artemisia – servizi culturali, in collaborazione con il Museo Tecnico Navale della città, ha rivolto alle scuole del capoluogo ligure e di Sarzana per ricordare non retoricamente la ricorrenza, legando storia locale, nazionale, europea, utilizzando l’educazione al patrimonio come strumento di conoscenza consapevole del proprio passato e di dialogo interculturale con i nuovi cittadini e le nuove cittadine del nostro paese. Un progetto che, con un approccio interdisciplinare, usa fonti e linguaggi diversi per far comprendere la ricchezza delle nostre tradizioni ai giovani studenti e alle giovani studentesse di oggi.

Note

1) Paul Ginsborg, Salviamo l’Italia, Einaudi, 2010, pag. 3.

2) Gustavo Zagrebelsky, Sulla lingua del tempo presente, Einaudi, 2010, pagg. 33-35.

3) Il concorso è stato promosso dal Comitato Italia 150 che ha affidato alla Fondazione Napoli 99 la gestione del bando di concorso per le scuole di ogni ordine e grado.

4) Bando di concorso Nazionale “Verso il 150° dell’Unità. Identità nazionale e culture a confronto” promosso da Comitato Italia 150 , Città di Torino, Fondazione Napoli 99.

5) Da La Repubblica del 20 agosto 2010, intervista di Simonetta Fiori a Mario Isnenghi, “Liberateci dall’abuso della memoria”.

6) Ibidem.

7) La citazione è ricavata da La Repubblica del 16 novembre 2010 in cui con il titolo “Il Risorgimento non è un mito” si presenta parte dell’introduzione al libro di Alberto Mario Banti, Nel nome dell’Italia, Laterza, 2010.

8) Ibidem.

9) Ibidem.

10) Ibidem.

11) Alberto Mario Banti, Sublime madre nostra, Laterza, 2011.

12) Da La Repubblica del 5 gennaio 2011, “I miti risorgimentali che piacquero al fascismo”, intervista di Simonetta Fiori a Alberto Mario Banti per la pubblicazione di Sublime madre nostra.

13) Giorgio Ruffolo, Un paese troppo lungo. L’unità nazionale in pericolo, Einaudi, 2009, pagg. 4-5.

14) Ibidem, pag. 5.

15) Ibidem, pag. 164.

16) Paul Ginsborg, Salviamo l’Italia, Einaudi, 2010, pag. 40.

17) Ibidem, pagg. 40-41.

18) Da La Repubblica del 5 gennaio 2011, “I miti risorgimentali che piacquero al fascismo”, intervista di Simonetta Fiori a Alberto Mario Banti per la pubblicazione di Sublime madre nostra.

19) I materiali prodotti nei seminari del 22 e 29 novembre 2010 sono scaricabili all’indirizzo: http://www.storieinrete.org/storie_wp/.

* * *

Intermezzo

Mi scusi Presidente
se arrivo all’impudenza
di dire che non sento
alcuna appartenenza.
E tranne Garibaldi
e altri eroi gloriosi
non vedo alcun motivo
per essere orgogliosi.
Mi scusi Presidente
ma ho in mente il fanatismo
delle camicie nere
al tempo del fascismo.
Da cui un bel giorno nacque
questa democrazia
che a farle i complimenti
ci vuole fantasia.
(Giorgio Gaber, Io non mi sento italiano)

* * *

Materiali

Una rassegna stampa sul tema dell’Unità qui.

Un’antologia dell’identità degli Italiani qui.

Appunti sparsi sull’Italia e gli Italiani qui.

Un dossier sull’opinione pubblica sulla festa dell’Unità qui.

La spesa dello Stato dall’Unità ai nostri giorni qui.

*

La questione

Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio.
(Giuseppe Garibaldi in una lettera ad Adelaide Cairoli, 1868).

Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti.
(Antonio Gramsci in “L’Ordine Nuovo”, 1920)

Vedi anche qui e qui.

*

Confronti

Il recupero acritico del Risorgimento come mito fondativo della Repubblica italiana fa correre il rischio di rimettere in circuito valori pericolosi come sono quelli incorporati dal nazionalismo ottocentesco: l’idea della nazione come comunità di discendenza; una nazione che esiste se non ab aeterno, almeno dalla notte dei tempi; l’idea della guerra come valore fondamentale della maschilità patriottica; l’idea della comunità politica come sistema di differenze: «noi» siamo «noi» e siamo uniti, perché contrapposti a «quegli altri», gli stranieri, che sono diversi da noi, e per questo sono pericolosi per l’integrità della nostra comunità. (Alberto Maria Banti qui)

Se mi avessero domandato trent’anni fa se sarei arrivato a caldeggiare la festa dell’Unità d’Italia, ci sarei rimasto male. Pensavo che nell’Unità, per come si era fatta, ci fossero più cose cattive che buone… Nondimeno, nonostante i loro limiti e i loro errori, il Risorgimento e l’Unità significarono il riscatto di un paese che era stato per secoli preda di monarchi e monarchetti, di signori e signorotti… per non parlare del regime oscurantista e tirannico dei Papa-Re; un’Italia, quella, che per il suo degrado civile e morale era divenuta lo zimbello d’Europa. (Massimo La Torre, qui)

* * *

L’occhio del lupo
Svelato l’arcano: il ministro dell’Economia fa il ministro dell’Istruzione

Giacomo Russo, un insegnante precario, è andato in tv e ha detto al signor Tremonti, uno che fanno passare per un genio (così come fanno passare l’otre di lardo ratzingeriano ex comunista, ex craxiano, antiabortista ma libertino, guerrafondaio e sedicente e vanagloriosa spia della Cia per uno “molto intelligente”), ha detto l’ottimo Giacomo quello che sanno tutti, che Tremonti è il vero ministro dell’Istruzione e che non capisce una mazza di economia. Che sono buoni tutti a tenere in ordine i conti tagliando come fa lui. E’ sembrato così ovvio che non lo hanno nemmeno commentato, in studio. A Santoro tutto il suo dibattito precedente deve essere apparso farlocco. E Bertinotti lo avrà trovato poco elegante. Morta lì – difatti erano, come usa dire oggi, due icone della sinistra. Morta lì, o molto prima.
(michele lupo)

* * *

La settimana scolastica

Più di un milione di persone ha partecipato il 12 marzo alle manifestazioni in difesa della Costituzione e della Scuola pubblica, che si sono tenute in oltre 100 città in Italia e all’estero. Si è protestava contro le offese del Presidente del Consiglio alla scuola pubblica, ma ecco che il ministro Gelmini fa una nuova dichiarazione, questa volta il bersaglio è il personale Ata:

Un altro problema, per esempio, è che ce ne sono quasi duecentomila e spendiamo seicentomila euro per le pulizie. Ci sono più bidelli che carabinieri e abbiamo le aule sporche.

Quasi contemporaneamente il Papa riceve l’Anci (Associazione Nazionale Comuni Italiani) e chiede ai sindaci italiani “finanziamenti per le scuole cattoliche, specificando che “la Chiesa non chiede privilegi, solo di svolgere la sua missione“.

E questo nonostante i finanziamenti alle scuole paritarie continuino ad aumentare, sebbene i risultati in termini di qualità dell’insegnamento delle scuole private continuino a diminuire: vedi qui un interessante confronto.

Nonostante, anche nella scuola pubblica, già adesso l’orario settimanale in prima elementare preveda, a dispetto degli slogan sulle “tre I“, 1 ora di Inglese e 2 ore di Religione.

E nonostante, sempre nella scuola pubblica, i docenti di Religione siano cresciuti in un anno del 14%: dai 8.232 del 2008/2009 ai 9.369 dell’anno scorso, mentre il numero degli studenti che si avvolgono dell’insegnamento della Religione cattolica nell’ultimo anno sia invece calato dell’1%, alla scuola superiore dell’1,8%.

Segnaliamo, a proposito della questione dei tagli all’istruzione e della precarietà in cui versa la scuola e chi ci lavora, un bel confronto tra un precario della scuola, Giacomo Russo, e il ministro Tremonti ad Anno Zero: in onda e fuori onda.

Precarietà che viene confermata dal nuovo rapporto di AlmaLaurea sulla condizione occupazionale dei neolaureati, reso noto il 7 marzo.

Oggi, il 16,2% dei giovani in possesso di lauree “brevi” è disoccupato a un anno dal conseguimento del titolo di studio. Nel 2008 erano l’11%. Per chi consegue una laurea specialistica l’involuzione è ancora più accentuata: i disoccupati quest’anno sono il 17,7%, mentre erano il 10,8% nel 2008. A cinque anni dal conseguimento del titolo di studio, nel 2005 fa erano il 90,3% quelli che erano riusciti a trovare impiego. Oggi sono l’85,6%. I contratti atipici oggi interessano più di quattro laureati “brevi” su dieci. Allo stesso tempo i rapporti di lavoro stabili sono passati dal 50,7% al 46,2. Peggiorano anche le retribuzioni: lo stipendio dei laureati “brevi” è sceso del 5 per cento, mentre diminuisce del 10% per chi ha una laurea specialistica. Complessivamente, comunque, i laureati lavorano di più e con maggiore stabilità rispetto a chi ha studiato di meno.

Confermata anche l’immobilità sociale. A cinque anni dal titolo, il 73% dei laureati di estrazione borghese ha un contratto stabile, contro il 68% dei loro coetanei di famiglie operaie. Nonché la fuga dei cervelli. Quest’anno tra i laureati specialistici quelli che hanno scelto di lavorare all’estero sono il 4,5%. Forse è per questo che, mentre la Commissione Europea ha fissato al 40% l’obiettivo strategico della quota di laureati per la popolazione di età tra 30 e 34 anni, da raggiungere entro il 2020, oggi in Italia non siamo neppure alla metà.

Lo stesso giorno è stato presentato il dossier del Cun (Consiglio universitario nazionale), secondo cui tutte le facoltà universitarie perdono matricole: -5% nell’ultimo anno, -9,2% negli ultimi 4. In controtendenza gli atenei privati, con un +2% di neoiscritti nel 2010.

Un altro elemento di debolezza è la scarsa presenza di studenti stranieri nelle università italiane: la percentuale di studenti stranieri infatti è solo il 3,1%, rispetto al 10% nel resto dell’Europa.

Sui temi degli investimenti per l’istruzione e la ricerca si segnala un nuovo monito del Presidente della Repubblica:

E’ essenziale promuovere l’innalzamento degli standard formativi e valorizzare le migliori energie intellettuali e creative: soltanto investendo su tali priorità sarà possibile superare le attuali difficoltà di ordine economico e sociale ed affrontare efficacemente le grandi sfide del nostro tempo.

Proiettandoci nella nuova settimana, ecco che arriva il 150° dell’Unità italiana, dopo le polemiche festa sì-festa no (vedi ad esempio qui, qui, qui, qui, qui). L’ultima beffa è questa: il 17 marzo è festa obbligatoria, ma a costo zero per lo Stato: per i pubblici dipendenti costa un giorno di ferie.

* * *

Il decreto Brunetta qui.

Il vademecun della CGIL sulle sanzioni disciplinari qui.

Tutti i materiali sulla “riforma” delle Superiori qui.

Per chi se lo fosse perso: Presa diretta, La scuola fallita qui.

Guide alla scuola della Gelmini qui.

Le circolari e i decreti ministeriali sugli organici qui.

Una sintesi dei provvedimenti del Governo sulla scuola qui.

Un manuale di resistenza alla scuola della Gelmini qui.

* * *

Dove trovare il Coordinamento Precari Scuola: qui; Movimento Scuola Precaria qui.

Il sito del Coordinamento Nazionale Docenti di Laboratorio qui.

Cosa fanno gli insegnanti: vedi i siti di ReteScuole, Cgil, Cobas, Cub.

Spazi in rete sulla scuola qui.

(Vivalascuola è curata da Alessandro Cartoni, Michele Lupo, Giorgio Morale, Roberto Plevano, Lucia Tosi)



Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :