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V.La moneta unica - Parte 2

Creato il 24 maggio 2012 da Kris @zinfok
E arriviamo alla seconda parte del quinto capitolo di questa serie (per i precedenti rimando a V.La moneta unica, 1° parte e a IV.Il "non sistema monetario internazionale), penultimo del ciclo.
V.La moneta unica - Parte 2 Firma del trattato di Maastrischt

V.La moneta unica - Parte 2

5.3 Tafazzi vs. Vocke

Ma alla lucida determinazione dei Vocke e dei Berger, nell’opinione pubblica italiana si contrappone l’esterofilia un po’ provinciale e un po’ masochista, alla Tafazzi, di chi obietta: “non è colpa dei tedeschi se riescono ad essere più bravi di noi?”[48]. Le cose che non vanno, e che rendono la regola di Maastricht sull’inflazione se possibile più dannosa delle regole fiscali, sono almeno tre:
primo, che non esiste un criterio scientificamente fondato che determini il tasso di inflazione “ottimo”, e consenta quindi di stabilire se chi ha meno inflazione degli altri è più “bravo” o semplicemente più furbo; secondo, che il perseguimento dell’obiettivo di inflazione minima richiede politiche di estrema moderazione salariale (lo dice Vocke, lo dice Berger), e mentre un paese sovrano è libero di adottare simili politiche a casa propria, in un’unione monetaria gli altri paesi si vedono costretti ad adottarle per non soccombere, anche se non riflettono le preferenze dei suoi cittadini, il che è inaccettabile[49]; terzo, che se pure tutti i paesi volessero giocare al gioco dei “sacrifici”, lo scopo dichiarato dell’euro era quello di unirsi per essere più competitivi nei riguardi del resto del mondo, e non per farsi una guerra commerciale reciproca a suon di deflazioni competitive.
Questo gioco è necessariamente a somma zero. Lo prova il fatto che mentre nell’ultimo decennio i surplus di Giappone e Cina sono decollati, la posizione netta dell’eurozona è cambiata di poco (e in peggio): certo, finché le esportazioni della Germania sono le importazioni di Italia e Spagna, è chiaro che il risultato commerciale complessivo sarà nullo. Il dizionario dei luoghi comuni economici prevede che ogni “svalutazione” sia “competitiva”, associando a quella che in fondo è una manifestazione della legge della domanda e dell’offerta di valuta un giudizio morale fortemente negativo. Mentre la svalutazione del lavoro, attraverso tagli dei salari, sarebbe indice di virtù, quella del cambio nominale, si tende a far credere, sarebbe una pratica intrinsecamente sleale e masturbatoria, poiché arreca un sollievo temporaneo e sterile, i cui effetti sarebbero immediatamente neutralizzati dal Nemico: l’inflazione. Ma se la svalutazione è una cosa così turpe, allora il suo contrario, la rivalutazione, sarà una cosa bella, e allora povera Germania, con i suoi surplus crescenti: che rinuncia dolorosa sarà stata per lei l’essersi privata della possibilità di rivalutare! In realtà la Germania non vuole rivalutare, come dovrebbe naturalmente avvenire secondo la legge della domanda e dell’offerta, perché questo significherebbe compromettere la sua politica beggar-thy-neighbour. Insomma: dobbiamo riconoscere che per i paesi aggrediti dal current account targeting della Germania la svalutazione ha avuto soprattutto un legittimo valore difensivo. La difesa ha funzionato, finché ha potuto, anche perché gli effetti della svalutazione sui prezzi interni non sono così meccanici come alcune analisi superficiali o tendenziose vogliono far credere (rinviamo all’op. cit. di Gandolfo). Basti pensare che dopo l’ultima svalutazione nominale di circa il 20%, nel 1992, il tasso di inflazione dell’Italia scese dal 5% al 4%, al punto che perfino l’attuale premier, Mario Monti, ne riconobbe senza difficoltà gli effetti sostanzialmente positivi per l’economia italiana[50]. Ma in assenza di una simile possibilità di reazione, l’adozione di regole asimmetriche sull’obiettivo di stabilità dei prezzi non poteva che condurre dove ha condotto, cioè al dissesto finanziario della periferia.

5.4 Le regole che non ci sono

Veniamo così a parlare di una regola che non c’è. La discussione precedente ha cercato di evidenziare quanto fosse prevedibile che la rinuncia allo strumento del cambio avrebbe portato all’accumulazione di debito estero: Marcus Fleming aveva adombrato questi esiti fin dal 1971[51]. E in effetti le cose sono andate così. La Germania, che nel decennio seguito al crollo del muro di Berlino aveva visto scendere dal 22% allo 0% del Pil le sue attività nette sull’estero (in conseguenza degli afflussi di capitali – debiti – necessari per finanziare l’unificazione), dall’ingresso dell’euro all’inizio della crisi le ha viste risalire fino al 26% del Pil (circa 900 miliardi di dollari), a spese di un simmetrico incremento dei debiti dei paesi periferici. Dopo l’inevitabile crisi alcuni economisti hanno lamentato la mancanza di una regola che disciplinasse l’indebitamento estero dei paesi dell’eurozona, tramite un “patto di stabilità esterna”[52].
Un’osservazione tanto impeccabile dal punto di vista dottrinale (visto che ormai ovunque si concorda sul fatto che la crisi dell’eurozona è causata dagli sbilanci esterni, non da quelli pubblici[53]), quanto naïve dal punto di vista politico. Perché il Trattato di Maastricht, all’art. 109j(1), già considera l’indebitamento estero nel monitoraggio del processo di convergenza. E siccome il problema era noto, il fatto che non sia stata definita una regola quantitativa, come quella del 3% per il deficit pubblico, significa una sola cosa: che non la si voleva (e non la si vuole) definire. Questo per almeno due motivi: primo, perché se “calmierare” il deficit pubblico significa limitare l’intervento dello Stato nell’economia (aprioristicamente considerato dannoso), “calmierare” il deficit esterno significherebbe intralciare i movimenti di capitale privati (che l’omodossia vede come sempre e comunque forieri di buona crescita); secondo, perché nell’elaborazione delle regole di Maastricht ha predominato politicamente il blocco dei paesi dell’area marco, guidati dalla Germania. E chi si aspetta di essere in surplus ovviamente non ha interesse a contenere i deficit altrui! As simple as that.
Sbilanci esteri persistenti possono presentarsi in ogni sistema di cambi fissi. Il problema se lo erano posto anche a Bretton Woods, dove la delegazione britannica, della quale facevano parte Keynes e Roy Harrod, propose come soluzione la cosiddetta “clausola della valuta scarsa”. Questa prevede che quando un paese ha un surplus persistente, tale da compromettere la capacità dei suoi partner di finanziare i propri deficit, e quella del Fondo di sostenerli finanziariamente, il Fondo possa dichiarare “scarsa” la valuta di quel paese, autorizzando così gli altri paesi ad attuare misure protettive nei riguardi del paese in surplus[54]. Nonostante gli Stati Uniti nel 1944 fossero certi di essere nel prossimo futuro il paese in surplus (per il semplice fatto che erano l’unico paese importante con la struttura produttiva ancora intatta), ebbero la saggezza di accettare questa clausola. Ma nel 1944 si poteva constatare de visu dove avesse condotto l’intransigenza francese a Versailles, stigmatizzata da Keynes nei citati Essays on persuasions: “una politica che riducesse la Germania in servitù per una generazione, o che degradasse milioni di esseri umani, o che privasse di gioia un intero popolo, sarebbe da rifuggire e con paura: da rifuggire e con paura anche se fosse attuabile, anche se ci rifacesse più ricchi, anche se non preparasse il crollo di tutta la civiltà europea”. Era il 1919. In un secolo la situazione si è rovesciata e la memoria di dove può condurre la cattiva gestione di una vittoria si è persa. Ed è ora la Germania a propugnare simili politiche, ad esigere l’impoverimento e la degradazione di milioni di esseri umani, senza ricordare perché e con chi sono stati contratti certi debiti, senza chiedersi se chi deve pagare è in condizioni di farlo, e senza ascoltare le voci autorevoli, come quella di Helmut Schmidt, che dal suo interno si levano per stigmatizzare l’assurdità e la miopia di questo comportamento.


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