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Voci di donne: l’aborto – Il racconto di Ty Elle

Da Bambolediavole @BamboleDiavole

La legge sull’aborto risale in Italia ad anni piuttosto recenti. Prima del 1978 la disciplina penale considerava l’aborto provocato intenzionalmente come un grave reato. Bisogna aspettare il 22 maggio del 1978 per vedere approvata la legge n. 194, secondo la quale decadono i reati previsti e si consente l’interruzione della gravidanza entro i primi 90 giorni di gestazione. Noi di Bambole Spettinate & Diavole del Focolare rivendichiamo questo diritto come imprescindibile e siamo consapevoli del fatto che la strada da fare per essere completamente libere di gestire il nostro corpo senza essere vittime di giudizi negativi è ancora lunga e difficile.

Abbiamo ricevuto una testimonianza sull’aborto da una nostra lettrice, che ci ha molto toccato e ci ha spinto ad aprire questa raccolta, di cui è la lettera di apertura. Abbiamo riflettuto molto su come aprire questa discussione e cercheremo di farlo nel modo più chiaro possibile: lo scopo NON è quello di mettere in discussione il diritto all’aborto ma di raccontare quello che ruota intorno a questa scelta.

Perché questo? Perché in genere la discussione intorno all’aborto vuole affermare il diritto delle donne alla propria salute, e nel fare questo la discussione verte sugli ostacoli che le donne incontrano per far valere questo diritto, dalla burocrazia all’obiezione più o meno esplicita di medici e strutture, dallo stigma sociale che ancora segna le donne che abortiscono alla mancata applicazione di quella parte della legge 194 che parla di prevenzione ed educazione. La 194 è, purtroppo, un diritto che le donne hanno ancora oggi solo a metà e chi decide di abortire viene giudicata sia da un punto di vista morale che etico e ben poco ci si cura di quello che si può vivere fisicamente e soprattutto psicologicamente.

Questa narrazione, è giusta, è vera, ma resta incompleta. La lettera che abbiamo ricevuto ci ha spinto, e abbiamo deciso che vale la pena provare ad allargare il racconto.

Vorremmo provare ad affrontare il lato meno “pubblico” dell’interruzione di gravidanza, quello che non riguarda lo scandalo dell’obiezione di coscienza, ma quello più intimo e privato che le donne tendono a non raccontare per paura di essere giudicate e isolate.

Perché un aborto non è la rimozione delle tonsille. Una gravidanza, voluta o meno, è qualcosa da cui non si torna indietro: il momento in cui ci si scopre incinte segna un “prima” e un “dopo” e  le scelte che ne conseguono sono irreversibili. Interrompere la gravidanza non riporta indietro le lancette e non si può ridurre alla soluzione di un problema.

Questa prima lettera parla di questo: la sofferenza non si può raccontare, a meno che questa sia causata da un impedimento nell’accesso al proprio diritto; perché se si parla di sofferenza, si ha la sensazione di diminuire la già flebile esistenza di quel diritto.

Eppure la sofferenza c’è, anche quanto interrompere una gravidanza è una scelta libera, logica, di salute propria o del feto; e viene spesso soffocata, impedendo alle donne di parlarne, di parlare con i propri compagni, escludendo così la possibilità di essere aiutate o anche solo comprese.

È in qualche modo una forma di autocensura, e noi crediamo che sia sbagliata: non è tacendo dei vissuti che faremo valere i nostri diritti. Abbiamo diritto di scegliere e abbiamo diritto di stare bene come di soffrire. Non tutte le scelte che si fanno ci portano verso la strada più dolce, ma questo non vuol dire mettere in discussione quelle scelte.

Vogliamo provare a raccontare e vogliamo provare ad avere fiducia in chi di voi leggerà questa prima lettera: leggetela fino in fondo, non fermatevi, non mettete la corazza e non correte all’attacco.

Non occorre.

NON è in discussione il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza, NON è in discussione la legge 194. Vogliamo solo parlare di noi, senza censure.

E per chi volesse contribuire con il racconto del proprio vissuto, vi chiediamo di inviarlo a [email protected]

Il racconto di Ty Elle

L’aborto, o interruzione volontaria di gravidanza, è qualcosa che oggi si considera un diritto, una soluzione a un problema, talvolta perfino un contraccettivo. Tutto vero, anche se personalmente lo definisco un diritto delle donne. Le persone più profonde possono pensarlo come qualcosa di doloroso, ma per la maggior parte resta la scelta che hai fatto tu, donna incinta, perciò non farà male. Come hai deciso di aprire le cosce all’uomo che ti ha messa incinta, ora hai deciso di aprirle davanti al medico, te la sei voluta entrambe le volte e oggi hai anche la possibilità di risolvertela facile: che ti lamenti? Mi dispiace che non faccia parte della nostra cultura o delle nostre sensibilità e umanità capire una donna in lutto per una interruzione volontaria di gravidanza. Mi dispiace che non si possa capire cosa una donna sconta e sconterà. Ho trovato solo donne che ci pensano, e anche molto poche. Da un uomo che non vive i cambiamenti del proprio corpo e quella scarica ormonale che ti fa sognare, essere positiva e protettiva con quell’ammasso di cellule posso capirlo, ma da una donna mi dispiace profondamente. La consapevolezza che non è come togliersi una verruca forse ci renderebbe più attente e meno superficiali e lo insegneremmo ai figli anche maschi. Quando muore una persona cara siamo annientati dal dolore, ma sapere di avere avuto il privilegio di conoscerlo lenisce quel dolore, gli da un senso. Non vorremmo mai cancellarne il ricordo dalla nostra mente, perché comunque, anche nel lutto, siamo consapevoli che è meglio averla conosciuta che mai vista. Con un bambino mai nato non solo non sei legittimata a provare dolore perché nemmeno l’hai conosciuto -e quindi era un niente- ma non puoi attaccarti a ciò che invece, per te, è rimpianto. Io oggi piango lo sguardo mai incontrato, il sorriso mai visto, l’abbraccio mai dato, le parole mai sentite, le esperienze insieme mai vissute. Vorrei tanto poter avuto la possibilità di avere ricordi del mio bambino mai nato, ma ho solo un’ecografia e il battito rapido di un cuore appena formatosi. Nulla può essere peggio del non esserci stato, del non aver avuto la possibilità di esserci per altrui debolezza, o superficialità. Non voglio andare ai casi limite, a dolore che si va a sommare a dolore in una vita difficile in modo inimmaginabile, parlo di una qualunque donna con possibilità anche se con sacrificio. Si sconta, poi, l’essersi arrese. Se poi ci sono altri figli, quello non nato non sarà nessuno e tu sarai la sola a ricordare, contare i mesi, indugiare ancora con l’immaginazione o essere ferita dalle altrui inconsapevoli parole. Quando muore un figlio che nessuno ha conosciuto non muore nessuno. Quel nessuno, nessuno l’ha conosciuto perché tu hai deciso di toglierlo dal tuo utero. Era, e’ e sarà sempre solo figlio tuo, il dolore è solo tuo. È normale sentirsi dire “era solo un ammasso di cellule”. Si, lo era, come lo sono stati gli altri miei figli, quelli che oggi vedo sorridere, abbracciare, crescere. So cosa ho perso. O meglio, non lo so e quindi ssssshhh zitta che se ne parli sei noiosa, o risulti fastidiosamente  ultrasensibile. Io che sono viva so che la vita non è sempre bella, che ci sono momenti così schifosamente e dolorosamente brutti che a volte vorresti mollare tutto, ma ogni volta passa, ogni volta ritrovi forza e sorriso perché la vita è così, è proprio questo. Io sono felice di essere nata, ogni giorno, anche quelli orribilmente schifosi perché niente, niente è schifosamente orribile come il non esserci mai stata. Nonostante tutto. Sempre. Non si rimpiange la vita solo se si crede in un dio, non è moralismo, buonismo, fanatismo, oscurantismo, è solo la consapevolezza profonda di ciò che si è perso, un essere umano in potenza, che dipendeva da te. Non sono contro l’aborto, non lo sono mai stata e non lo sarò mai, ma dico che si soffre, e che si soffre da soli, senza possibilità di elaborare la mancanza di qualcosa che non è mai esistito, di una colpa che non trova più le giustificazioni di allora e scava voragini perché la feroce mancanza annulla ogni possibile giustificazione. Fortunata la donna che avrà il compagno accanto e che almeno qualche carezza al cuore la riceverà, anche se maldestra: non è fondamentale provare lo stesso dolore per accarezzare quello dell’altro. Ci sono donne, però, che si sono sentite dire di andare a crescerlo da sole e che, straziandosi, hanno deciso che no, da sole no, non ce la potevano fare questa volta. Straziandosi. Io non so, poi, come si fa a guarire da un lutto così solitario, ignorato, che la voragine, quella vertigine di dolore, la crea solo a te. Sei doppiamente sola.

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