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Voleva una vita spericolata (6). Leonard Cheshire e la sua strada.

Da Paolotritto @paolo_tritto

(Continua dalla Quinta parte)

«9 agosto 1945: siamo in volo. Alle ore 03,48 della mattina decolliamo da North Field, sull’isola di Tinian, per sganciare un’altra bomba atomica – la seconda nel giro di quattro giorni – sull’Impero del Sol Levante». Sono gli appunti che riportò nel suo diario Fred J. Olivi, copilota del Bockscar, uno dei tre B29 impegnati nelle operazioni di bombardamento atomico. Il diario di Olivi è stato pubblicato da FBE Edizioni, una casa editrice italiana soltanto nell’anno 2006, quindi oltre sessant’anni dopo gli eventi, col titolo “Nagasaki per scelta o per forza”. È un documento storico eccezionale, che sarebbe rimasto per sempre nel cassetto dell’autore se il caso non lo avesse portato alla luce.

Alberto Angela, divulgatore scientifico e volto noto della televisione italiana, stava lavorando alla realizzazione di un documentario sulla bomba atomica. Notò, tra i nomi dei componenti degli equipaggi impegnati nei bombardamenti sul Giappone, il nome di un italiano. Incuriosito, cercò di avere maggiori notizie di questo pilota che gli sembrava potesse essere un suo connazionale e che poi risultò essere, effettivamente, figlio di emigrati italiani. In questa fase cruciale della grande storia, è interessante accostare l’esperienza descritta da Fred J. Olivi alla storia personale di Leonard Cheshire.

«La grande Storia è fatta di tante piccole storie, quasi sempre personali» racconta Alberto Angela. «E Fred Olivi era la persona adatta per spiegare, raccontare e far rivivere un evento del quale era stato testimone in prima persona. Più volte, mentre scrivevo al computer  la puntata, osservavo la sua foto (mi capita spesso di mettere sulla scrivania un oggetto, una mappa o una foto, legati all’argomento che sto scrivendo, per “entrare” nei fatti): lo si vede seduto in un momento di pausa, nella cabina di pilotaggio del suo B29 di Nagasaki, mentre si gira verso di noi. Era diventato un volto familiare. L’ho cercato negli Stati Uniti. Sono venuto a sapere che era un uomo che aveva sempre avuto voglia di parlare della sua missione su Nagasaki, per spiegare alle nuove generazioni come si erano realmente svolti i fatti… Ma sono arrivato troppo tardi. Purtroppo era mancato da appena un anno. Ma ho scoperto che aveva scritto un libro, autoprodotto e quasi introvabile. L’ho letto d’un fiato. Era il resoconto della sua vita e soprattutto della sua missione. Al suo interno c’erano le risposte a tutte le domande che gli avrei voluto fare».

Si discute ancora oggi sulla reale opportunità di sganciare una seconda bomba atomica su Nagasaki, un evento di cui, diversamente dal caso di Hiroshima, poco si parla. E a questo proposito l’importanza del diario di Olivi è duplice. Perché da un lato racconta come andarono i fatti in questa controversa missione, dall’altro, riporta il punto di vista di un semplice pilota che, ovviamente, non scrive un arido rapporto da consegnare alle autorità militari o agli archivi storici, ma vuole descrivere con quale coscienza fu vissuto questo terribile evento da coloro che vi parteciparono attivamente.

Durante la fase di avvicinamento al bersaglio, seguendo la rotta indicata dal navigatore, gli equipaggi incontrarono una debole difesa contraerea. Addirittura, scrive Olivi, «sorvolammo parecchie basi di caccia giapponesi che non provarono nemmeno ad alzarsi in volo per attaccarci».

Nonostante ciò, la missione fu tutt’altro che una passeggiata. Perché sembrava che gli americani dovessero sfidare non tanto le difese giapponesi, quanto una forza oscura. Un episodio, apparentemente trascurabile si era verificato poco prima di salire a bordo degli aerei, quando si vide discutere piuttosto animatamente il comandante Sweeney, del Bockscar, con il colonnello Tibbets. Scrive Olivi: «La scena non mi sorprese più di tanto perché il maggiore, da buon irlandese, si esprimeva in modo concitato e spesso parlava “con le mani”». In realtà, i due ufficiali stavano riconsiderando l’opportunità di partire; infatti, era emerso un problema che rendeva la missione su Nagasaki estremamente difficoltosa. Proprio sul Bockscar, il B29 che avrebbe dovuto sganciare la seconda bomba atomica, “Fat Man”, si era scoperto che erano fuori uso i serbatoi di riserva. Secondo il resoconto che fa Richard Morris, biografo di Cheshire, «600 galloni di carburante sarebbero inutilizzabili. Ma l’ingegnere di volo aveva calcolato che, con estrema attenzione, sarebbe stato possibile volare ugualmente». Il punto era appunto questo: “l’estrema attenzione”. A Leonard Cheshire, con la sua esperienza, qualche dubbio riguardo a ciò era già venuto.

«Sweeney iniziò quindi una nuova virata» ricorda Olivi, «ma nella cabina di pilotaggio si accese un’animata discussione: si doveva decidere che cosa fare. Kuharek, l’ingegnare di volo, non concordava con la proposta di Sweeney e a un certo punto intervenne anche Ashworth. Non ricordo le parole esatte che si scambiarono i tre ma quello che riuscii a cogliere mi turbò profondamente! Ascoltando quel dialogo serrato capii il motivo della concitata discussione che si era svolta sulla pista di decollo poco prima della nostra partenza da Tinian. Non ricordo, tra Sweeney e Kuharek, chi cominciò a parlare del fatto che la riserva di benzina avio non potesse essere adoperata perché l’elettropompa combustibile era rotta. Io conoscevo bene quel dispositivo: si trattava della pompa azionata da un motore elettrico che doveva trasferire il propellente dai serbatoi di riserva situati nella parte posteriore del vano bombe. La pompa e il motore erano fuori uso, ma – ecco l’aspetto inquietante di tutta la faccenda! – Sweeney, Tibbets, Kuharek e alcuni altri erano al corrente del suo mancato funzionamento già prima dell’inizio della nostra missione. Quei duemilacinquecento litri di benzina avio “extra” sarebbero potuti restare a Tinian perché, tecnicamente, non eravamo in grado di trasferirli nei serbatoi dei nostri motori. Sapevo che il B29 consumava circa milleseicento litri ogni ora e, calcolando gli oltre quarantacinque minuti trascorsi a girare sopra l’isola di Yakushima, ero certo che non avevamo propellente a sufficienza per rientrare a Tinian».

In altre parole, dopo ciò che era avvenuto una volta giunti sull’isola di Yakushima, gli equipaggi avrebbero dovuto rinunciare alla loro missione. Era stabilito che in questo punto gli equipaggi dovessero riunirsi, in modo di procedere in formazione verso l’obiettivo. Purtroppo, all’appuntamento nei cieli non si presentò il B29 di Hopkins che trasportava “gli osservatori”, tra i quali, oltre al fotografo della missione, gli inglesi Cheshire e Penney. Secondo la ricostruzione di Olivi, gli ordini di Tibbets erano tassativi: «Arrivati sull’isola di Yakushima, il punto prestabilito dell’incontro, aspettate solo quindici minuti: dopodiché, riprendete il volo verso il vostro obiettivo». Nonostante il carattere tassativo delle disposizioni, gli equipaggi non ne tennero conto, mettendo in serio pericolo anche la propria sopravvivenza. Per quale motivo il B29 di Hopkins giunse con tanto ritardo è ancora oggi un mistero.

A questo, si aggiunse un ulteriore imprevisto: sempre secondo gli ordini ricevuti, il bombardamento avrebbe dovuto essere eseguito a vista. Sfortunatamente – ma per fortuna degli abitanti – la designata città di Kokura era coperta da una spessa coltre di nuvole, oltre a denso fumo. I bombardieri dovettero ripiegare quindi verso il bersaglio secondario di Nagasaki. Ma era una vera follia. Come mai Sweeney, a corto di carburante, non aveva ancora deciso di tornare alla base? Nemmeno l’avvicinamento a Nagasaki fu privo di problemi. Sembrava di dover lottare contro forze misteriose. «Come a Kokura mezz’ora prima» scrive Olivi, «anche adesso, a Nagasaki, una densa coltre di nubi “proteggeva” la città».

Dunque, il bombardiere di Sweeney, proprio quello che trasportava la bomba atomica, era partito con i serbatoi di riserva inutilizzabili, le ordinarie riserve carburante erano andate sotto il livello di guardia per attendere il B29 di Hopkins e gli equipaggi si ostinavano ad attardarsi sul bersaglio prima di Kokura e poi di Nagasaki, nonostante su queste città, a causa delle avverse condizioni meteorologiche, non fosse possibile eseguire un bombardamento a vista.

Secondo quanto sostiene Richard Morris nel suo libro Cheshire, ci fu nel comportamento di Hopkins l’evidente intenzione di prendere tempo. Ma perché vi fu questo temporeggiamento? Per Morris il motivo di ciò stava nel fatto che a bordo del suo aereo erano presenti i due osservatori inglesi Cheshire e Penney. Secondo lui, non vi era da parte degli americani la seria intenzione di far assistere gli inglesi al bombardamento, volendoli tenere all’oscuro del potere della bomba atomica. Secondo il biografo di Cheshire, per gli americani, la bomba “A” non significava bomba “atomica” ma bomba “americana”. C’è una parte di verità in ciò; infatti, tre giorni prima, Cheshire e Penney non furono fatti salire a bordo dei bombardieri che erano diretti a Hiroshima. D’altra parte, però, questa tesi cozza con due evidenze. Innanzitutto, non aveva alcun senso voler tenere all’oscuro Penney della portata devastante della bomba, dal momento che era stato uno degli scienziati che l’avevano progettata. Inoltre, se realmente gli americani avessero voluto escludere  gli inglesi dal bombardamento di Nagasaki non li avrebbero attesi così a lungo sui cieli di Yakushima, esaurendo le riserve di carburante e quindi esponendosi al pericolo di precipitare nel viaggio di ritorno e annegando nelle acque del Pacifico.

Soltanto gli storici potranno fare chiarezza su questi aspetti. Intanto, si può dire che l’impressione che se ne ricava è che a bordo dei B29 vi fosse una grande incertezza riguardo all’opportunità di sganciare la seconda bomba atomica. E almeno il comandante Hopkins, con il quale viaggiavano Cheshire e Penney, a un certo punto ha pensato di tornare indietro. Secondo la ricostruzione che fa Leonard Cheshire, nell’intervista pubblicata in C’è Dio in tutto questo?, «Tra gli aerei che dovevano osservare l’operazione, il nostro era il numero tre. Il pilota disobbedì alle consegne volando tremila metri al disopra della quota prescritta perché così si riteneva più al sicuro. E invece di compiere un giro intorno a Yakushima, l’isoletta al di sopra della quale dovevamo trovarci con gli altri, tirò avanti zigzagando per quaranta miglia e mancò all’appuntamento. Il che comportò dei rischi per lo sfortunato Charles Sweeney, il pilota capofila, ch’era a corto di carburante e dovette aspettarci. Non ce ne andava bene una. Sopra Kokura, la città prescelta come obiettivo primario dell’attacco, il cielo era nuvoloso; e poiché gli ordini dicevano tassativamente di sganciare la bomba soltanto in condizioni di perfetta visibilità, Sweeney virò verso Nagasaki, ch’era l’obiettivo secondario. Ma si doveva mantenere il silenzio radio, e noi non potevamo essere certi del cambiamento. Il nostro pilota non sapeva bene cosa fare. Per parte mia ero indignato che volasse così alto, perché non avevo mai visto un pilota infischiarsene delle disposizioni, specialmente in una missione così importante. Ma non ci fu modo di persuaderlo ad abbassarsi. D’un tratto egli propose di abbandonare l’impresa: “Non sappiamo dove siano gli altri, rientriamo”. Ero sul punto di perdere la pazienza: “Per arrivare fin qui abbiamo traversato il Pacifico, impiegato anni per costruire la bomba, mesi per addestrarci; e adesso, all’ultimo momento, lei vuole rinunciare!”»

9 agosto 1945. Nella tarda mattinata, mentre i B29 sorvolavano Nagasaki, improvvisamente il bombardiere Kermit Beahan segnalò che si era aperto un varco nella spessa coltre di nubi che copriva la città. Era distante circa un chilometro e mezzo dal punto prestabilito, ma era sufficientemente vicino. Alle ore 11 Beahan sganciò la bomba. Poco dopo, i bombardieri furono investiti da tre successive onde d’urto. Leonard Cheshire si voltò quindi verso l’epicentro dell’esplosione da dove si innalzava già il fungo atomico. All’interno della nube ribollivano metalli vaporizzati, mentre a terra i canali d’acqua evaporavano, gli alberi bruciavano, le fabbriche e le case crollavano, e giacevano le ceneri di non meno di quarantamila anime. Quindi, scrive Fred Olivi, «Sweeney virò verso sud per lasciarsi Nagasaki alle spalle. Rientravamo con la convinzione di avere compiuto il nostro dovere: “Fat Man”, come da istruzioni ricevute, era esplosa e la sua forza distruttiva, paragonabile a quella di ventimila tonnellate di TNT, aveva devastato un’intera città».

Dopo aver provocato la morte di decine di migliaia di persone, per l’equipaggio di Sweeney si poneva il problema della propria sopravvivenza. Le scorte di carburante erano quasi del tutto esaurite e l’operatore radio cercò di mettersi in contatto con le unità di salvataggio disposte lungo la rotta oceanica. Nessuno rispose. Probabilmente erano già rientrate, pensando che tutti i B29 fossero già transitati. Sweeney allora tentò di mettersi in contatto con la base di Yonton, sulle isole di Okinawa, per un atterraggio di emergenza. Ma nessuno rispose nemmeno in questo caso. «Maggiore, siamo quasi alla fine!» gridò qualcuno, «non c’è più propellente nei serbatoi!» Sweeney puntò sulla pista di atterraggio senza l’autorizzazione della torre di controllo, evitando per un pelo il contatto con altri B29. «Per un lasso di tempo che mi sembrò interminabile» ricorda Olivi, «nessuno proferì verbo. Eravamo tutti assorti nei nostri pensieri e ancora turbati dall’idea che avevamo sfiorato il disastro. Tuttavia eravamo pienamente consapevoli che le indubbie qualità di Sweeney , e il ricorso alle eliche reversibili, ci avevano salvato la vita».

Finalmente gli equipaggi dei tre B29 si ritrovano insieme. «Sono qui anche loro» nota ancora Olivi, «Immagino che gli ordini siano di tenerci tutti e tre insieme. Non posso dire molto di Okinawa: a parte il caldo torrido cammino sul fango e osservo molte carcasse di aerei, americani e giapponesi. Intanto che si procede al rifornimento del “Bockscar” andiamo a mettere qualcosa sotto ai denti. Mangio dei cubetti di prosciutto con Cheshire e Jim. Nonostante sia inglese Cheshire è un tipo simpatico. Dopo pranzo, torniamo verso il “Bockscar” in sua compagnia. Parla dei Lancasters e degli Sterlings e sembra sorpreso dalla velocità che il B29 riesce a mantenere ad alta quota. Secondo Cheshire è il migliore aereo in circolazione. Dai suoi racconti deduco che i bombardamenti in Germania non sono stati una scampagnata».

Fred Olivi era a mensa con William Penney e Leonard Cheshire, quando – scrive – «uno dei camerieri della mensa notò subito che non eravamo di stanza a Yonton e ne approfittò per dirci che aveva appena saputo che la guerra si sarebbe conclusa “molto presto”. Ci rivelò (!) che una seconda bomba era stata sganciata sul Giappone e che l’aereo coinvolto in questa missione faceva base a Yonton… L’addetto era euforico e aggiunse che l’ordigno aveva le dimensioni di una pallina da golf (!) e che era stato trasportato a bordo di un caccia P38. Ancora non mi capacito di come non fossimo scoppiati a ridere ma invece rispondemmo con un  vago “Ah, è vero? Fantastico! Se è così, la guerra finirà prima!”».

(Sesta parte. Continua)

Per saperne di più

Fred J. Olivi, Nagasaki per scelta o per forza. Con prefazione di Alberto Angela. FBE Edizioni, 2006.

Leonard Cheshire è autore di numerosi libri. Oltre questi, sono da segnalare:

Richard Morris, Cheshire: The Biography of Leonard Cheshire, VC, OM. Penguin Books Ltd, 2001. (In lingua inglese)

Alenka Lawrence, Leonard Cheshire. C’è Dio in tutto questo? Edizioni San Paolo, 1994. (In lingua italiana)


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