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Wanda Marasco: Ritorna. Addio.

Da Narcyso

Wanda Marasco, LA FATICA DELLO STORMO, La Vita Felice 2014

Wanda Marasco
È un libro palpitante questo, solitario e collettivo nello stesso tempo – l’immagine dello stormo ci dice di questo procedere, da soli e insieme, alternando la solitudine della guida alla solitudine dell’attenersi a una consegna – .
Ci dice anche che partire è una predella del ritornare verso le radici più profonde e vere dell’essere, un luogo dove non possiamo più fuggire, dove “Io smette”, dove “il misero è il nostro assoluto”, p. 86.
Queste brevi citazioni fanno parte di un testo assai significativo nell’economia del libro che qui riporto:

Io smette.
Era santissimo al risveglio.
Ora il misero è il mio sussulto.
Io mi allenta un ramo.
E’ tardi da qualche parte.
E’ ottobre con i semi
del fuoco incartato dal giardino.
Il giardino incarta i semi del fuoco.
Ma sì, la vecchia storia che è fatale
a se stesso il cuore delle cose,
a se stesso il cuore che ascolta.
Ecco:
te lo dicevo amica mia, lo sento
ora il misero è il mio sussulto.
p. 86

Due, allora, le indicazioni di percorso: la prima riguarda l’azzeramento di “io”, quello stato, non sappiamo quanto naturale, in cui tutti i teatri della vita esercitano i loro piccoli e grandi poteri, anche se alla fine ogni cosa, persino il dolore, o soprattutto il dolore, andrà riconsegnata per scoprire che “è fatale / a se stesso il cuore delle cose / a se stesso il cuore che ascolta”.
La seconda cosa riguarda il luogo: il “tutto” non s’impoverisce nel regno di un’anima eterea, insensibile e inconoscibile ma ritorna, si discioglie nella sostanza delle cose naturali, ridiventa “Tutto”, appunto.
Il cuore, come anticamente, come sempre, è il peso della misura delle cose, quel cuore posato sulla bilancia della dea Maat e a cui è chiesto completamento e ricchezza nella logica di una giustizia più universale.
Questo cuore appartiene alla “colatura delle stelle”, dice Wanda Marasco in un altro passaggio del libro, e in fondo è lo stesso cuore che anima tutte le cose e che può appartenerci solo in parte, nella misura in cui abbiamo bisogno di avere una casa, dei figli da custodire, il ricordo delle persone scomparse, e di avvertire un sentimento di appartenenza all’anima del mondo.
Ecco, a me sembra che la bellezza di questo libro consista, appunto, in questa ferita dell’essere “io” e parte del tutto, del sapere che il dolore forse non si risolve nei piccoli riti dovuti alle divinità domestiche, nel chiuso di una stanza, ma nel partire verso un luogo di ritorno che tuttavia rimanderà ad altre spiagge, ad altre rinascite dolorose.
Inquadrata in questo contesto generale, la poesia di Wanda Marasco si chiarisce nella sua capacità di mostrarsi nuda, ferita, ma anche di issare paratie, le sue forme regali.
Sono i vestiti preziosi di una grande madre, madre e sposa, sgualciti e strappati dal tempo, dalla Storia, che pur proteggono, innalzano parole per accogliere, per benedire o denunciare.
E dunque queste poesie a volte sono sequele abitate da un ritmo, altre volte preghiere frante, invocazioni, vasi canopi che contengono le lacrime, o le viscere.
Vi appaiono immagini semplici di regalità domestica; animali – la gallinella, immagine di mansuetudine e gratitudine; come la capra, in contrapposizione alla fatica dello stormo, ma anche ad altre forze più divergenti che sembrano assediare le cose, i gesti, i segni da custodire di una intimità in pericolo -.
E fra tutti questi segni, è centrale l’immagine del demone meridiano, contro cui sembra essere perduta la battaglia della vita – proprio più forte, allora, ci appare la resistenza di questa poesia -. Il verso “la lacrima orfica” è da intendersi, infatti, come il dolore di un viaggio spartito in due, nelle ragioni di chi è partito/perduto, e di chi invece deve restare ancora.
Ed è ancora la resistenza della casa da pagare ai debitori, o del passero con le piume leggere, la paura dell’ala che non sa come aprirsi, a segnalare delle resistenze, resistenze del canto che dobbiamo ai vivi e ai morti.
Sospetto, in effetti, che in questo libro ci sia una tenzone tra un monologo forte, pronunciato a pieni polmoni, e un chiudersi d’ala in cui il mondo, ogni cosa, chiedono semplicemente un belato, il cerchio chiuso di un pastore dove possiamo esercitare l’amore che è rimasto.

Sebastiano Aglieco

***

Dell’amore che non volevo storto
l’amore del mio sguardo amore solo
presi sul fianco un corpo
forse avanzato a un dio
forse per sciogliere la pena
lo legai
a un pesco fiorito
che non era eterno.

***

E’ la candela del tuo compleanno.
Gli costa un lungo fiato
piegarla, spegnere in fretta
la fiammella astuta.
Ma credo questa sollecitudine
il gesto recitato e travolto
per cui sfuggendo dal resto
poi si muore.

***

Io spingo al suo fantasma il giorno
e penso ai fogli che correggo
mille da sfondo di natura
nel punto in cui
la somiglianza annulla
come un errore angelico
la carne.

Spostati, Pietro,
è per questa bella amicizia
quando gli animali
si stringono di più
e non al mondo
ma al braccarsi che ci è dato.
Bisogna raccogliere le pecore.
Bisogna farlo prima del dirupo.
Se non morivi io non scoprivo
questo brumoso e caro
gesto del pastore.

***

Bambini.
E non sai che cosa dici.
Quanti ne vuoi nel sangue
che già non abbiamo forato
il mondo di pietà?
Bambini.
E li hai portati in corpo
come amuleti astratti
con il dolore
di non domare niente.

***

Ma io pensavo al tipo di segreto
corso tra fronte e spina un giorno.

A te pensavo, padre, nel nodo delle mani.

Al passo scalzo con cui cadesti.

***

Il mare finge.
Finge la città.
Le rive sono neri moli
l’obliquo metallo resiste
il mercato si strania
diventa un aldilà.
Gli animali sono più muti.
rosa tramontale e amianto
vanno a braccetto per finte nuvole.
I bambini hanno imparato il nome
dei campi avvelenati dove
una volta scalciavano sudati.
Erano il mio coraggio,
il loro desiderio
di possedere una capretta.


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