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Whitsundays Island: era lì la felicità

Creato il 23 novembre 2015 da Paola Annoni @scusateiovado

Whitsundays Island: era lì la felicitàIeri siamo stati alle Whitsundays Island e io oggi sono qui con un groppo in gola, qualcosa che è un misto tra nostalgia, saudade e una di quelle cose che ti prende quando ormai sei a casa e ti rendi conto che ormai è fatta. Finita, andata. E invece sono ancora qui, mi mancano ancora due settimane di viaggio in Australia e due in Nuova Zelanda.
C'era una cosa che sapevo bene venendo qui: che mi sarei fatta del bene. E del male. L'Australia è già riuscita a toccare dei tasti che prima di lei solo la Birmania e la Colombia erano riuscite ad accarezzare.
Ma partiamo col racconto.
La sveglia prestissimo per andare a volare sopra le isole con un aereo abbastanza piccolo da farmi dormire davvero male.
Pioviggina, nuvoloni neri, [imprecazioni].
Mangio un biscottino tanto da fare un po' di fondo, tanto che se mi si fosse riproposto il tutto durante il volo, non avrei riempito una busta del conad.
Arriviamo in aeroporto, ci registriamo, ci danno un cartoncino con il numero della fila: cartoncino con il numero 5. Almeno me la gioco bene con il mio numero fortunato.
Andy, il nostro pilota, ci spiega come salire, come chiudere il sacchetto del vomito, di portarlo via dopo l'eventuale uso [davvero devi specificare di non nasconderlo tra i sedili o di buttarlo dall'aereo, Andy?], il giubbotto di salvataggio ci indica come aprirlo, come gonfiarlo.
E adesso indossatelo. Prego? Cioè, mi devo davvero mettere preventivamente addosso il giubbotto giallo in caso di ammaraggio? [imprecazioni] Saliamo sull'aereo.Whitsundays Island: era lì la felicitàL'unica cosa "intelligente" che sono riuscita a dire dal risveglio a quando mi sono seduta sul volo è stata più o meno "da quando siamo partiti è la prima volta che mi scappa la cacca", tanto per capire la tensione che mi attanagliava in quel momento.
Un pilota mi chiede se gentilmente posso io chiudere e bloccare il finestrino. Io? Sul serio?
Gira la manopola e blocca qui lì e là. Ragazzi, il veicolo è in mano mia e di Luca che si è beccato la fortuna sfacciata di stare seduto in pole position accanto al pilota.
Decolliamo. L'adrenalina butta amaro in bocca.
Dopo circa 40 secondi di "macheccazzo ci faccio qui? Ma perchè mi devo imbarcare sempre in ste cose? Fai, fai la figa che prende l'aereo che poi ti sparano subito il giubbottino...", eravamo in volo.
Un respiro così profondo che penso i aver preso aria sia dai polmoni che da stomaco e cuore: lassù, era bellissimo.Whitsundays Island: era lì la felicitàVedere le isole dall'alto, Whitehaven beach, le colline fitte di vegetazione, la barriera corallina così grande che non ti riesci nemmeno ad immaginare che ci possa essere una cosa del genere laggiù.
Il volo è stato sereno, solo sulle colline è stato "a little bumpy!" come ha detto Andy. Ma il biscottino è rimasto al suo posto, e anche il giubbotto di salvataggio.
Poi, a terra, l'emoziona di aver fotografato per caso (o per sbaglio), quel blocco di barriera a forma di cuoricino che si vede su tutte le copertine delle pubblicità delle Whitsundays: io la prendo come un segno.
Vorrei fare una piccola considerazione sull'atterraggio: un boeing per scendere ci impiega circa 25 minuti, un Cessna ci mette 25 secondi, va giù in picchiata, punta il muso verso il basso, ti sale un attimo il cuore in gola. Però non rimbalzano, si piegano i flap e via, freno a mano e via.Whitsundays Island: era lì la felicitàWhitsundays Island: era lì la felicitàAllora: il costo di questo volo è di circa 100 € e la durata di circa un'ora, noi abbiamo prenotato tramite il sito GLS aviation, il pacchetto completo con il volo e la giornata in barca per un totale di 329 $ australiani, e cioè 230 €. Una fucilata, tantissimo, ma dei soldi spesi divinamente.
Pick up all'aeroporto direzione porto: il giro in mega gommone con la compagnia Ocean Rafting: auto check in, prenditi la tua muta, mettiti un quintale di crema protezione 50 (il minimo sindacale per non ustionarti come un galletto alla brace), montiamo in barca.
La guida, Shannon, rinominato Beppe per comodità, è lo stereotipo dell'australiano: una bomba di energia, simpatia, addominali e deltoidi. Già questa vista bastava.
Poi ci hanno lasciato nel cuore del parco nazionale della Barriera Corallina, maschera, boccaglio e via. Il mare è popolato di mini meduse invisibili (grandi come un mignolo) a cui bisogna stare attenti, ma con la muta il pericolo è scampato.
E' come spiegare il Grand Canyon, come dire "bello" della Grande Muraglia Cinese: è sempre troppo poco.Whitsundays Island: era lì la felicitàUna mia splendida amica dice sempre che per guardare i cieli in America servono occhi più grandi, e io la trovo una poesia stupenda e un modo di dire azzeccatissimo. Per vedere certi mondi servono davvero, occhi più grandi e forse anche un cuore più pronto.
Tante volte quando vivo queste esperienze mi sento un entusiasta macchina a diesel: sul momento mi piace molto, sono contenta, me la godo il giusto. Poi, finisce, si va a letto la sera e io mi ritrovo a saltellare (a volte anche fisicamente) urlicchiando "omioddio, mioddioooo... No, ok, ho volato sulla grande barriera corallina e poi ci ho nuotato dentro!" e cose del genere.
E mi viene sempre in mente quella frase di Baricco in Castelli di rabbia: "Perché è così che ti frega, la vita. Ti piglia quando hai ancora l'anima addormentata e ti semina dentro un'immagine, o un odore, o un suono che poi non te lo togli più. E quella lì era la felicità.".

Era lì la felicità, davvero, lì c'era.

Whitsundays Island: era lì la felicità
Whitsundays Island: era lì la felicità
Ci siamo fermati a fare una piccola escursione a piedi su una collinetta che regala la vista mozzafiato sulla splendida Whitehaven Beach e su un panorama sbalorditivo di azzurri così vari e intensi che non servono filtri.
FIne della parte romantica.
Dopo la camminata gli organizzatori ci hanno preparato il pranzo: io mi aspettavo una rosetta secca con il cotto e una pera invece hanno allestito un piccolo buffet con verdura, carne e frutta. Potevamo servirci e poi andare a mangiare sulla spiaggia.
Prendo il mio piatto, scendo dalla barca.
Avete presente gli uccelli di Hitchcock? Ecco. Con una tecnica abbastanza collaudata il capo gabbiano mi ha accattata al dito tanto da farmi perdere l'equilibrio al piatto, poi tutti gli altri addosso in stile rissa del rugby.
Mi sono rimaste sul piatto una foglia di insalata e un pezzo di melone.
CI sono rimasta di sasso e se mi avessero scagazzato addosso non mi sarei sentita tanto in imbarazzo.
Sono tornata sulla barca, ho riempito di nuovo il mio piattino, sono scesa di nuovo dalla barca, ho coperto il cibo come se fossi un primate che non deve farsi fregare il pasto dagli altri e sono riuscita a mangiare seduta al tavolo, in un angolino.
Dopo il pranzo gli altri sono andati a fare il bagno nelle acque cristalline della spiaggia più bella del pianeta, io mi sono messa a dormicchiare all'ombra (la mia pelle non avrebbe tollerato altro sole): al mio risveglio un varano gigante e con una faccia perplessa mi stava puntando.
Siamo saliti sulla barca e il ritorno è stato tutto un divertimento tra tartarughe giganti avvistate e la barca che faceva il rally e Beppe che si lanciava i dolcetti con il suo alter ego dell'altra barca.
Ho sentito proprio la leggerezza intensa della bellezza di quella giornata. Mi vibra ancora il cuore se ci penso.
Alla sera abbiamo fatto un giretto in città dove ancora qualche negozietto era aperto, e cenato al Fish d'vine: caro, ma buono.
Cioè, carissimo e ho rischiato di finire come in Colombia con una congestione e la cervicale bloccata perchè il condizionatore era puntato addosso a me senza nemmeno il flap che facesse finta di muovere l'aria. Ho controllato che sotto il tavolo non ci fossero dei congelati che quelli del ristorante dovevano conservare perchè gli si era rotto il frigorifero... E no, era proprio la temperatura che volevano.
Ho chiesto di spegnere [no, non si può, sorry!], ho chiesto di alzare un pochino la temperatura tanto per non far sì che il mio naso si staccasse come in Alive - sopravvissuti [certo! Alziamo da 21 gradi a 22!]. Niente, lasciamo perdere. Sono uscita di lì e sono andata al McDonald's (o meglio, il Macca come lo chiamano qui) a prendere un the e scaldarmi le mani. Ridicolo.
Siamo ritornati nella casetta e la luca del bagno era ancora rotta: chiamiamo la tizia della reception che arriva sul suo golf kart con un manutentore che scanchera con la lampada e poi gli rimane tutto in mano. La tizia sorride, ci chiede se vogliamo cambiare bungalow tra i sorry e i sorrisi. Maledizione, come sono gentili.
Guardiamo il casino che c'è in camera e decliniamo l'offerta, accettiamo di buon grado di accendere un paio di candele che fanno un effetto romantico accanto alla tenda di plastica e di andare in bagno con delle mini torce come se fossimo i protagonisti di The blair witch project cercando di centrare almeno il buco.
La porta non si chiude, il letti non hanno le lenzuola di sopra, dormo con un occhio aperto per paura che una blatta si posizioni tra le coperte, ho una mezza congestione in atto. E non c'è nulla che potrebbe intaccare il mio umore.
E' una di quelle giornate che restano, lì, per sempre.


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