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William Shakespeare, “La Tragedia di Amleto, Principe di Danimarca” VII

Creato il 13 maggio 2013 da Marvigar4

Amleto Vignolo Gargini

William Shakespeare

LA TRAGEDIA DI AMLETO, PRINCIPE DI DANIMARCA

Titolo originale The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark

Traduzione di Marco Vignolo Gargini

ATTO TERZO

SCENA SECONDA

Entra Amleto con due o tre degli attori.

AMLETO: Mi raccomando, la battuta dilla come te l’ho detta io, con la lingua sciolta; però se tu la declami come fanno molti dei nostri attori, tanto vale che sia un banditore di piazza a dire i miei versi. E non tagliare troppo l’aria con la mano, così, ma sii sempre moderato, perché nello stesso torrente, nella tempesta, e come potrei dire, nel turbine della tua passione, tu devi acquisire e far acquisire una temperanza che le dia sottigliezza. Ah, mi urta fin in fondo all’anima udire un gigione grosso e imparruccato fare strage di una passione, stracciarla, per spaccare le orecchie del pubblico, che di solito non comprende altro che le pantomime senza senso e i rumori. Un gigione così lo farei frustare perché esagera perfino Termagante, super-Erode Erode; mi raccomando, evitalo.  

PRIMO ATTORE: Parola mia, lo eviterò, vostra signoria.  

AMLETO: Non siate nemmeno troppo monotoni, ma lasciatevi guidare dalla vostra discrezione. Il gesto segua la parola e la parola il gesto, con questa speciale avvertenza, che non venga mai oltrepassata la modestia della natura. Perché qualsiasi cosa così eccessiva è lontana dallo scopo della recitazione, il cui fine sia all’inizio, che adesso, era ed è di reggere lo specchio alla natura; di mostrare alla virtù il suo proprio volto, al vizio la sua propria immagine, e alla stessa età e allo stesso corpo la sua forma e la sua impronta. Ora, se questo viene esagerato o reso sottotono, si può far ridere gli incompetenti, ma non si può che infastidire gli esperti; la cui sentenza nella vostra considerazione deve venire prima d’un tutto esaurito. Oh, ci sono attori che ho visto recitare (e ho sentito altri lodarli e con che lodi!), che, senza parlarne in modo profano, non possedendo né l’accento di cristiani, né il portamento di cristiani o pagani o uomini, zampettavano impettiti ed urlavano talmente da farmi pensare che qualche operaio della natura li avesse fatti uomini, e manco bene, tanto abominevole era il modo in cui imitavano l’umanità.  

PRIMO ATTORE: Spero di aver corretto abbastanza tutto questo fra di noi, signore.  

AMLETO: Oh, correggetelo del tutto; e fate attenzione che quelli che recitano la parte dei buffoni non vadano sopra le righe, scritte per loro, perché ce ne sono alcuni che scoppiano a ridere loro stessi per far ridere un certo numero di spettatori stupidi, mentre in quel momento si dovrebbe dare più rilievo a qualche parte essenziale del dramma; è una cosa da cafoni, e dimostra un’ambizione meschina nello sciocco che la usa. Avanti, andate e preparatevi.  

(Escono gli attori)

Entrano Polonio, Rosencrantz e Guildenstern

Allora, signor mio, verrà il re a sentire questo capolavoro?

POLONIO: E anche la Regina, e subito.

AMLETO: Dite agli attori di sbrigarsi. (Esce Polonio) Volete voi due dare una mano perché facciano presto?  

ROSENCRANTZ: Sì, mio signore.

(Escono Rosencrantz e Guildenstern)

AMLETO: Oh, Orazio!

Entra Orazio

ORAZIO: Eccomi, dolce signore, ai vostri ordini. 

AMLETO: Orazio, tu sei davvero l’uomo più giusto con cui abbia finora avuto a che fare.

ORAZIO: Oh, mio caro signore -

AMLETO: No, non credere che ti lusinghi, perché quali vantaggi potrei sperare da te che non hai altra risorsa che il tuo buon intelletto per nutrirti e vestirti? Perché il povero dovrebbe essere adulato?

No, la lingua inzuccherata lecchi l’assurdo fasto, e si pieghino le giunture importanti del ginocchio dove l’economia possa seguire il servilismo. Mi ascolti?

Sin da quando la mia cara anima è stata padrona della mia scelta, e ho potuto distinguere chi eleggere tra gli uomini, ha stabilito che tu sei suo. Uno che soffrendo di tutto non soffre di niente, uno che accoglie ceffoni e carezze della Fortuna con lo stesso spirito imperturbabile; e benedetti sono quelli in cui passione e ragione sono così ben mescolate, che essi non sono flauti che il dito della Fortuna possa suonare al tasto che le piace. Datemi quell’uomo che non è succube della passione, e io lo serberò nel profondo del mio cuore, sì, nel cuore del mio cuore, come faccio con te. Ma adesso sto esagerando.

Stasera si rappresenta un dramma davanti al re; una scena del dramma somiglia alla circostanza che ti ho detto della morte di mio padre. Io ti prego, quanto tu vedi quella scena svolgersi, usando tutto lo spirito critico di cui sei capace non staccare mai gli occhi da mio zio. Se la sua colpa occulta non si stana con una battuta, è uno spirito dannato quello che abbiamo visto, e le mie immaginazioni sono fuligginose come la fucina di Vulcano. Dagli un’occhiata attenta perché io fisserò i miei occhi sul suo volto, e dopo confronteremo insieme i nostri giudizi nell’analisi del suo aspetto.

ORAZIO: Bene, mio signore; se ruba qualcosa durante lo spettacolo senza farsi beccare, pagherò io il furto.

AMLETO: Arrivano per lo spettacolo; debbo fare lo scemo. Trovati un posto.

Trombe e timpani. Entrano il Re, la Regina, Polonio, Ofelia, Rosencrantz, Guildenstern e altri, con la guardia del re che porta delle torce

RE: Come sta il nostro nipote Amleto?

AMLETO: In fede, eccellentemente, con piatti di camaleonte; mangio l’aria farcita di promesse. Non potete rimpinzare i capponi così.

RE: Non ho niente a che fare con questa risposta, Amleto; queste parole non sono mie.  

AMLETO: No, nemmeno mie adesso. (A Polonio.) Mio signore, voi un tempo avete recitato all’università, dite?

POLONIO: Sì ho recitato, mio signore, e fui reputato un buon attore.

AMLETO: Che parte avete recitato?

POLONIO: Recitai nella parte di Giulio Cesare. Venni ucciso in Campidoglio; Bruto mi uccise.

AMLETO: Fu un bruto ruolo il suo uccidere un bamboccio così capitale. Sono pronti gli attori?  

ROSENCRANTZ: Sì mio signore, aspettano il vostro cenno. 

REGINA: Vieni qui, mio caro Amleto, siedi vicino a me.

AMLETO: No, buona madre, qui c’è un metallo più attraente. 

POLONIO (Al Re): Oh oh! Lo avete notato?

AMLETO: Signora, posso giacere sul tuo grembo?

OFELIA: No, mio signore.

AMLETO: Intendo dire, con la testa sul tuo grembo?

OFELIA: Sì, mio signore.

AMLETO: Pensi che alludessi a cose volgari?

OFELIA: Non penso niente, mio signore. 

AMLETO: È un bel pensiero giacere fra le gambe delle fanciulle. 

OFELIA: Cos’è, mio signore?

AMLETO: Nulla.

OFELIA: Siete allegro, mio signore.

AMLETO: Chi, io?

OFELIA: Sì, mio signore.

AMLETO: O Dio, il vostro unico autore di farse!  Cosa dovrebbe fare un uomo se non essere allegro, infatti guarda che aria gioiosa ha mia madre, e mio padre è morto da due ore.  

OFELIA: No, sono due volte due mesi, mio signore.

AMLETO: Così tanto? Ma sì allora, che il diavolo si vesta di nero, perché mi vestirò di zibellino. O cieli, morto da due mesi e non ancora dimenticato? Allora c’è speranza che la memoria d’un grand’uomo possa sopravvivere alla sua vita un semestre; ma per la Madonna dovrà costruirne di chiese in tal caso, o altrimenti risentirà di non venir considerato come il cavallino a dondolo, il cui epitaffio è: “Ma oh, ma oh, il cavallino è dimenticato.”

Suonano le trombe. Entra la pantomima

Entrano un re e una regina molto espansivi; la regina abbraccia lui e lui lei. Lei s’inginocchia e gli fa mostra della sua protesta d’amore. Lui la solleva e china il capo sul suo collo; poi si stende su una sponda fiorita: lei, vedendolo dormire, lo lascia. Subito entra un tale, gli toglie la corona, la bacia, versa un veleno nelle orecchie del re, ed esce. La regina torna, trova il re morto, fa una scena appassionata. Torna dentro l’avvelenatore con tre o quattro comparse, mostrando di condolersi con lei. Il corpo morto è portato via. L’avvelenatore corteggia la regina con doni: lei sembra scontrosa per un po’, ma infine accetta il suo amore.

(Escono)

OFELIA: Che vuol dire questo, mio signore?

AMLETO: Oh diamine, questo è maleficio malevolo; vuol dire misfatto.

OFELIA: Può darsi che il mimo spieghi l’argomento del dramma?

Entra il Prologo

AMLETO: Lo sapremo da questo bel tomo. Gli attori non sanno serbare segreti, diranno tutto.

OFELIA: Ci dirà che significato aveva quella scena?

AMLETO: Sì, o qualsiasi scena che vorrai mostrargli. Non essere pudica a mostrare, e lui non avrà pudore a dirti che vuol dire.

OFELIA: Siete cattivo, siete cattivo. Guarderò lo spettacolo.

PROLOGO: Per noi e la nostra tragedia

qui piegandoci alla vostra clemenza

vi imploriamo d’ascoltare con pazienza.

(Esce)

AMLETO: È un prologo questo, o il motto d’un anello?

OFELIA: È breve, mio signore.

AMLETO: Come l’amore della donna.

Entrano due attori, il Re e la Regina

ATTORE RE: Ben trenta volte il carro di Febo attorno ha ruotato

al salso taroccare di Nettuno, e all’orbe della Terra,

e trenta volte dodici lune con lucore imprestato,

torno al mondo han fatto dodici volte trenta giri,

dacché amore i cuori, e Imene le mani nostre

ci unirono assieme con vincoli sacri.

ATTRICE REGINA: Così tanti viaggi possano ancora il Sole e la Luna

farci contare prima che finisca l’amore.

Ma, ahimè, ultimamente voi siete sì malato,

sì lontano dalla gioia, e dallo stato di prima 

che per voi io temo. Eppure, sebbene per voi temi,

sconfortarvi, mio signore, questo non deve. 

Ché delle donne paura e amore hanno eguale quota,

o niente sono, o sono estrema cosa.

Ora, cos’è il mio amore, per prova voi lo sapete,

e quanto misura il mio amore, tanto è il mio timore. 

Laddove l’amore è grande, i dubbi più lievi son timore, 

e laddove crescon piccoli timori, là cresce un grande amore.

ATTORE RE: In fede io debbo lasciarti, amore, e presto pure:

i miei poteri in opra le lor funzioni cessan di fare,

e tu vivrai ancor in questo bel mondo,  

onorata, amata, e forse un altro non indegno, 

per sposo tu -

ATTRICE REGINA: Oh, al diavolo il resto!

Un tale amor sarebbe tradimento nel mio petto.  

Per un secondo sposo che io sia maledetta;

Niun sposa il secondo se non ha ucciso il primo.

AMLETO (A parte): Questo è assenzio, assenzio.

ATTRICE REGINA: Le ragioni che portano a seconde nozze 

son aspetti bassi di stima, ma d’amore mai. 

Una volta ancora uccido il mio marito defunto

se un secondo mi bacia a letto.  

ATTORE RE: Io credo proprio che tu pensi ciò che or dici, 

ma ciò che decidiamo, sovente lo infrangiamo.  

Un intento è soltanto famulo della memoria,

di nascita violenta, ma di povera sostanza, 

che or come acerbo frutto sta saldo sul ramo, 

ma cade, senza scosse, appena è maturo.

È assai fatale che noi dimentichiamo

di pagare a noi ciò che a noi dobbiamo.

Ciò che ci proponiamo in preda alla passione,

spenta la passione, perde l’ intenzione.

La violenza della gioia e pure del dolore

gli effetti lor con se stessi distruggono.  

Laddove gioia più si svela, più il dolor si lamenta,  

e dolor gioisce, gioia s’addolora per frali accidenti.  

Questo mondo non è per sempre, e allor non è strano

che pure i nostri amori cangino con le fortune, 

ché questa è la domanda ancor senza risposta,  

se amor meni fortuna, o fortuna amor.  

Il grande cade, fugge il suo protetto,

il povero opimo dei nemici si fa amico.

E fin qui amor segue fortuna;

ché a chi è agiato mai mancheran gli amici,

e chi in povertà pone a prova un falso amico, 

direttamente lo matura in nemico.

Ma, per finir con ordine la dove principiai, 

voleri e fati così opposti vanno 

che i nostri piani son sempre travolti;

sono nostri i pensieri, ma gli esiti mai.

Così tu pensi che non sposerai un secondo marito, 

ma i tuoi pensieri morranno quando il tuo primo marito è morto.

ATTRICE REGINA: Né mi dia più cibo la terra, né luce il cielo,

spasso e riposo mi neghino il dì e la notte,

sian disperazione la fede mia e la speranza, 

d’un monaco la cella diventi la mia stanza,

ogni contrasto che il volto della gioia sbianca 

incontri e annienti ciò che più mi manca.

Sia qui che là eterna discordia mi sia data

se, una volta vedova, mai sarò maritata.

AMLETO: Se lo infrangesse adesso!

ATTORE RE: È voto profondo. Dolce, lasciami qui un poco;

i miei spiriti si fan foschi, e volentieri vorrei ingannare

il tedioso giorno col sonno.

(Dorme)

ATTORE REGINA: Il sonno culli la tua mente,

e mai fra noi un misfatto sia presente.

(Esce)

AMLETO: Signora, vi piace questo spettacolo?

REGINA: La dama fa troppe promesse, mi sembra.

AMLETO: Oh, ma terrà la parola.

RE: Conosci la trama? Non c’è niente di offensivo?

AMLETO: No, no, fanno solo per finta, avvelenano per finta, nessuna offesa al mondo. 

RE: Come si chiama il dramma?

AMLETO: La trappola per topi. Per la Madonna, come? Tropicamente. Questo dramma rappresenta un omicidio compiuto a Vienna. Gonzago è il nome del duca; sua moglie è Baptista; lo vedrete presto; è un capolavoro di disonestà, ma che importa? Vostra Maestà e noi che abbiamo la coscienza pulita, non ci tocca. Che   scalci il ronzino scorticato, il nostro garrese è intatto.  

Entra Luciano

Questo è un certo Luciano, nipote del re. 

OFELIA: Siete bravo quanto il coro, mio signore.

AMLETO: Potrei interpretare quel che succede tra te e il tuo amante, se potessi vedere i pupi che si trastullano.

OFELIA: Siete pungente, mio signore, siete pungente.

AMLETO: Ti costerebbe un gemito smussarmi la punta.

OFELIA: Sempre nella buona, e nella cattiva sorte.

AMLETO: “Nella buona, e nella cattiva sorte”, così voi acchiappate i vostri mariti! Comincia, assassino; piantala con le dannate smorfie e comincia. Avanti,  “il gracchiante corvo mugghia di vendetta.”  

LUCIANO: Pensieri neri, mani abili, droghe adatte, e tempo propizio;

ora alleata, nessun’altra creatura vede,  

tu fetida mistura d’erbe, colte a mezzanotte,

dal bando d’Ecate tre volte maledetta ed infetta, 

la tua naturale magia e atroce proprietà,

di colpo usurpano ogni salute vitale.  

AMLETO: Lo avvelena nel giardino per il suo regno. Il suo nome è Gonzago, la  storia è attuale, e scritta in italiano purissimo. Ora vedrete come l’assassino ottiene l’amore della moglie di Gonzago.

OFELIA: Il re si alza.

AMLETO: Come, spaventato da un colpo a salve?

REGINA: Come state, mio signore?

POLONIO: Interrompete lo spettacolo.

RE: Datemi luce – via!

POLONIO: Luci, luci, luci!

(Escono tutti tranne Amleto e Orazio)

AMLETO: Beh! Vada a piangere il cerbiatto ferito, il cervo incolume se la spassa, ché uno deve star sveglio se l’altro deve dormire, il mondo va così. Non basterebbe questo, caro, e una foresta di piume se il resto delle mie fortune mi ripudiasse come fossi un turco, con due rose di Provenza sulle scarpine trapunte, a farmi avere una quota in una compagnia di attori?  

ORAZIO: Una mezza quota.

AMLETO: Una intera, io. Perché tu sai bene, o Damone caro, che questo regno smantellato fu di Giove stesso, e qui adesso regna un vero, un vero -  pavone.

ORAZIO: Avreste potuto rimarla. 

AMLETO: O buon Orazio, punterò mille sterline sulla parola dello spettro. Hai visto?

ORAZIO: Benissimo, mio signore.

AMLETO: Alla battuta dell’avvelenamento?

ORAZIO: L’ho osservato benissimo.

Entrano Rosencrantz e Guildenstern

AMLETO: Ha, ha! Su, un po’ di musica; avanti, i flauti! Ché se il re non ama la commedia, beh, allora vuol dire, che non l’ama, per Dio. Un po’ di musica, avanti!

GUILDENSTERN: Mio buon signore, concedetemi una parola.

AMLETO: Signore, una storia intera.

GUILDENSTERN: Il re, signore –  

AMLETO: Sì signore, che fine ha fatto?

GUILDENSTERN: È nelle sue stanze agitato in modo incredibile.

AMLETO: Per il vino, signore?

GUILDENSTERN: No, mio signore, piuttosto per la collera.

AMLETO: Dimostreresti una saggezza più ampia se avvisassi di questo il medico; perché, se fossi io a fargli una purga forse lo farei immergere in una collera maggiore.

GUILDENSTERN: Mio signore, riponete il vostro discorso in un qualche ordine, non prendete il largo così selvaticamente da ciò che vi dico. 

AMLETO: Io sono mansueto, signore, pronunciatevi.

GUILDENSTERN: La regina vostra madre, in grandissima tribolazione, mi mandato da voi. 

AMLETO: Sei il benvenuto.

GUILDENSTERN: No, mio buon signore, questa cortesia non è della stirpe giusta. Se vi degnate di darmi una risposta sensata, eseguirò l’ordine di vostra madre; se no, col vostro perdono, il mio congedo porrà fine al mio compito. 

AMLETO: Signore, non posso.

ROSENCRANTZ: Che cosa, mio signore?

AMLETO: Darti una risposta sensata; il mio spirito è malato. Ma signore, la risposta che posso darti, sarà ai tuoi ordini, o meglio come dici tu agli ordini di mia madre: perciò basta, veniamo al dunque. Mia madre, dici-

ROSENCRANTZ: Allora ella così dice; la vostra condotta l’ha fatta sbalordire e sconcertare.

AMLETO: O splendido figlio che puoi tanto stupire una madre! Ma non c’è un seguito alle calcagna di questo sconcerto materno? Rivelate. 

ROSENCRANTZ: Ella desidera parlarvi nella sua stanza prima che andiate a letto.

AMLETO: Obbediremo, fosse dieci volte nostra madre. Avete altro da concludere con noi?

ROSENCRANTZ: Mio signore, mi volevate bene una volta.

AMLETO: E te ne voglio ancora, per queste mani ladre e borsaiole.

ROSENCRANTZ: Mio buon signor, qual è il motivo della vostra inquietudine? Voi sbarrate la porta in faccia alla vostra libertà, se negate le vostre angustie al vostro amico.

AMLETO: Signore, mi manca un progresso.

ROSENCRANTZ: Come può essere, se avete la promessa del re stesso per la vostra successione in Danimarca?

AMLETO: Sì signore, ma, “Mentre cresce l’erba” – il proverbio è un po’ ammuffito.

Entrano gli Attori con flauti

Oh, i flauti – fatemene vedere uno. Ritiriamoci in disparte – perché virate di bordo per venirmi sopravvento, come se voi mi spingeste in qualche rete?

GUILDENSTERN: Oh, mio signore; se il mio dovere è troppo importuno, il mio affetto è troppo screanzato.

AMLETO: Questo non lo comprendo bene. Vuoi suonare questo flauto?

GUILDENSTERN: Mio signore, non sono in grado.

AMLETO: Ti prego.

GUILDENSTERN: Credetemi, non sono in grado.

AMLETO: Ti scongiuro.

GUILDENSTERN: Non so nemmeno maneggiarlo, mio signore.

AMLETO: È facile come mentire, controlla questi fori con le dita e il pollice, dagli fiato con la bocca, e lui eseguirà la musica più eloquente. Ecco, questi sono i tasti.

GUILDENSTERN: Ma a questi io non posso ordinare la benché minima armonia; non conosco l’arte.

AMLETO: Ma allora lo vedete adesso, che cosa indegna fate di me. Vorreste suonarmi, vorreste dare a intendere che conoscete i miei tasti, vorreste strapparmi il cuore del mio mistero, e farmi suonare dalla nota più bassa fino alla più alta del mio registro; e c’è molta musica, una voce eccellente in questo piccolo organo, eppure non sapete farlo parlare. Sangue di Dio, credete che io sia più facile a suonarsi di un flauto? Definitemi lo strumento che volete, per quanto stiate a grattare e accordare, non potrete suonarmi.  

Entra Polonio

Dio vi benedica, signore.

POLONIO: Mio signore, la regina vorrebbe parlarvi, e subito.

AMLETO: Vedete quella nuvola che quasi ha la forma di un cammello?

POLONIO: Per la messa è così, proprio come un cammello. 

AMLETO: Mi pare che sia come una donnola.

POLONIO: Ha la schiena come una donnola.

AMLETO: O come una balena?

POLONIO: Una balena in tutto e per tutto.

AMLETO: Allora verrò da mia madre fra breve. (A parte) Si fanno beffe di me al punto che la mia corda si spezza. (A Polonio) Verrò fra breve.

POLONIO: Le dirò così.

AMLETO: “Fra breve” è un bel dire. (Esce Polonio) Lasciatemi, amici.

(Escono tutti tranne Amleto)

È questa l’ora più stregata della notte, quando i cimiteri sbadigliano, e l’inferno stesso alita fuori il suo contagio sul mondo. Ora potrei bere sangue caldo, e compiere azioni così funeste che il giorno tremerebbe a guardarle. Calma, adesso da mia madre.

O cuore, non perdere la tua natura; mai l’anima di Nerone penetri in questo stabile petto. Che io sia crudele, non snaturato. Le mie parole saranno pugnali, ma non userò nemmeno un solo pugnale;  la mia lingua e la mia anima in ciò siano ipocrite: per quanto nelle mie parole lei sia svergognata, tu, anima mia, non consentire di suggellarle.

(Esce)



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