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William Shakespeare, “La Tragedia di Amleto, Principe di Danimarca” XI

Creato il 31 maggio 2013 da Marvigar4

Amleto Vignolo Gargini

William Shakespeare

LA TRAGEDIA DI AMLETO, PRINCIPE DI DANIMARCA

Titolo originale The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark

Traduzione di Marco Vignolo Gargini

ATTO SESTA

SCENA SESTA

Entrano Orazio e un servitore

ORAZIO: Chi sono loro che vorrebbero parlarmi?

SERVITORE: Gente di mare, signore. Dicono che Hanno lettere per voi.

ORAZIO: Falli entrare. (Esce il servitore

Non so da che parte del mondo potrei essere salutato, se non dal principe Amleto.

Entrano i marinai

PRIMO MARINAIO: Dio vi benedica, signore. 

ORAZIO: Benedica anche te. 

PRIMO MARINAIO: Egli lo farà, signore, se è sua volontà. Ecco Una lettera per voi, signore; viene dell’ambasciatore che era in partenza per l’Inghilterra, se il vostro nome è Orazio, come mi è stato fatto sapere.  

ORAZIO (Legge): “Orazio, quando avrai scorso questa, dai il modo a questi uomini di arrivare dal re, loro hanno lettere per lui. Non eravamo in mare da due giorni che una nave pirata in pieno assetto di guerra ci dette la caccia. Trovandoci troppo scarsi di vela, assumemmo un valore forzato, e nell’arrembaggio saltai loro a bordo. All’istante si sganciarono dalla nostra nave, così io diventai il loro unico prigioniero. Mi hanno trattato da ladroni generosi, ma sapevano quel che facevano, gli debbo restituire un buon servizio. Fa’ avere al re le lettere che ho mandato, e ripara da me veloce come se fuggissi la morte. Ho parole da dirti all’orecchio che ti ammutoliranno; anche se sono troppo lievi rispetto al calibro dell’affare. Questa brava gente ti condurrà dove sono. Rosencrantz e Guildenstern proseguono il loro viaggio per l’Inghilterra; di loro ho molto da dirti. Addio.

Il sempre tuo, come sai, Amleto.”

Venite, vi faccio strada per queste vostre lettere, e sbrigatevi al più presto per portarmi da chi le avete ricevute. (Escono)

SCENA SETTIMA

Entrano il re e Laerte

RE: Adesso  la tua coscienza deve sigillare la mia assoluzione, e tu mi devi accogliere nel tuo cuore come un amico, dato che hai udito, e con un orecchio sagace, che chi ha ucciso il tuo nobile padre, si rivolgeva alla mia vita.

LAERTE: Appare chiaro. Ma ditemi, perché non avete agito contro fatti, di natura così criminale e capitale, come la sicurezza vostra, la saggezza, e il resto, vi spingevano a fare principalmente.

RE: Oh, per due speciali motivi, che forse ti possono sembrare troppo deboli, ma che per me son forti. La regina sua madre vive quasi che per i suoi sguardi, e quanto a me – mia virtù o mia maledizione, come che sia – lei è così congiunta alla mia vita e alla mia anima, che, come la stella si muove solo nella sua sfera, così io non potrei che nella sua. L’altro motivo, per cui a una pubblica accusa non potevo andare, è il grande amore che ha per lui la gente comune, la quale, immergendo nel suo affetto tutti i suoi difetti, come la fonte che muta il legno in pietra, muterebbe i suoi ceppi in grazie, cosicché i miei dardi, rivestiti troppo leggermente per un vento così forte, sarebbero tornati di nuovo al mio arco, e non dove io li avevo mirati. 

LAERTE: E così io ho un nobile padre perso, una sorella ridotta in condizioni disperate, il cui pregio, se le lodi possono tornare indietro, sfidava tutta l’epoca con le sue perfezioni. Ma la mia vendetta verrà RE: Non interrompere i tuoi sonni per questo; non devi pensare che noi siamo fatti di stoffa così flaccida e inerte, da lasciarci tirare la barba dal pericolo, e credere che sia un passatempo. Fra breve tu sentirai di più. Io amavo tuo padre, e noi amiamo noi stessi, e questo, spero, ti insegnerà a farti un’idea – 

Entra un messaggero

Che c’è adesso, che notizie?

MESSAGGERO: Lettere, mio signore, da Amleto. Questa per vostra Maestà; questa per la Regina.

RE: Da Amleto! Chi le ha portate?

MESSAGGERO: Marinai, mio signore, dicono. Io non li ho visti; Mi sono state date da Claudio, lui le ha ricevute da colui che le ha portate. 

RE: Laerte, tu le sentirai. Lasciaci. (Esce il messaggero)

(Legge) “Alto e possente, dovete sapere che mi ritrovo nudo nel vostro regno. Domani chiederò la licenza di vedere i vostri occhi regali, e allora, chiede per primo il vostro perdono, narrerò le circostanze del mio improvviso e molto più strano ritorno. AMLETO.

Ma che vuol dire questo? Sono tornati tutti gli altri? Oppure è un inganno, e non è vero niente?

LAERTE: Riconoscete la mano?

RE: Questa è la scrittura di Amleto. “Nudo”? E in un poscritto qui dice “Solo”. Puoi orientarmi?

LAERTE: Non ci capisco niente, mio signore. Ma che venga; mi scalda davvero l’oppressione nel mio cuore, che io possa vivere e dirgli in faccia, “Così tu facesti”. 

RE: Se è così, Laerte, – ma come può essere così? come altrimenti? – vuoi farti guidare da me?

LAERTE: Sì, mio signore, purché non mi imponiate una pace.

RE: La tua propria pace. Se lui adesso è tornato, sottraendosi al suo viaggio, e non intende più riprenderlo, lo lavorerò a un’impresa, matura già ora nella mia mente, e nella quale egli non potrà scegliere che il soccombere. E per la sua morte non spirerà alcun vento di biasimo, ma persino sua madre non incriminerà il fatto, e lo chiamerà un incidente.

LAERTE: Mio signore, mi lascerò guidare, e tanto più se potete trovare il modo di farmi strumento del tutto.

RE: Questo cade a proposito. Si è parlato molto di te dopo la tua partenza, e Amleto era in ascolto, per una qualità in cui si dice che brilli. Tutta la somma delle parti non gli smosse tanta invidia quanto quell’unica, e quella, a mio parere, meno degna.

LAERTE: Che parte, mio signore?

RE: Un fiocco sul cappello della gioventù, e tuttavia pure necessaria, poiché la gioventù non meno si sposa con abiti allegri e trasandati che indossa di quanto si adatta l’età matura gli abiti severi e le pellicce che denotano abbondanza e rigore. Due mesi fa, era qui un gentiluomo normanno – io stesso ho visto, ed ho pure militato contro i francesi, ed essi sono abili a cavallo – ma questo gagliardo aveva una magia in quello, si tirava su sulla sella, e a mosse così stupende spingeva il suo cavallo, come se fosse stato un corpo solo e fosse per metà della natura di quella generosa bestia. Così tanto superava il mio pensiero, che io, per quanto io mi immagini forme e trucchi, resto ben lontano da ciò che egli fece.

LAERTE: Un normanno era?

RE: Un normanno.

LAERTE: Per la mia vita, Lamord.

RE: Sì, proprio lui.

LAERTE: Lo conosco bene, egli è davvero il gioiello la gemma, di tutta la nazione.

RE: Egli dichiarò i tuoi meriti, e dette di te un rapporto così eccellente nell’arte e nella pratica della tua difesa, specialmente nel tuo tirare di stocco, da esclamare che sarebbe stato davvero uno spettacolo se qualcuno fosse stato opposto a te. Gli schermitori del suo paese, giurò, non avevano né scatto né guardia, né occhio se tu li affrontavi. Signore, questo suo rapporto avvelenò Amleto di invidia a tal punto che non poté far altro che augurarsi, e invocare il tuo immediato ritorno, per battersi con te.

Ora, a parte questo – LAERTE: Cosa, a parte questo, mio signore?

RE: Laerte, ti era caro tuo padre? O sei simile all’immagine dipinta del lutto, un volto senza cuore?

LAERTE:   Perché mi chiedete questo?

RE: Non perché io pensi che tu non amassi tuo padre, ma perché so che l’amore è occasionato dal tempo, e perché io vedo, e i fatti provano, che il tempo ne riduce la scintilla e il fuoco. Dentro vive la fiamma stessa dell’amore una sorta di stoppino che si riduce e la abbassa, e nulla poi resta sempre nella stessa bontà, perché la bontà aumentando di peso, muore del suo proprio eccesso. Quel che vorremmo fare dovremmo farlo quando lo vogliamo, poiché questo “dovremmo” muta e ha cali e ritardi per quante sono le lingue e le mani e gli incidenti; e allora questo “dovremmo”  è come un  sospiro prodigo, che ferisce alleviando. Ma veniamo al vivo dell’ulcera –  Amleto torna, che cosa vorresti intraprendere per mostrarti nei fatti più che nelle parole figlio di tuo padre?

LAERTE:   Sgozzarlo in chiesa.

RE: Invero nessun posto dovrebbe essere santuario per l’assassinio; la vendetta non dovrebbe conoscere confini. Ma, buon Laerte, vuoi fare questo, startene chiuso nella tua stanza. Amleto una volta qui saprà che sei tornato a casa. Gli metteremo attorno quelli che loderanno la tua bravura, e daranno una seconda mano di vernice alla fama che t’ha dato il francese, in fine vi faremo incontrare, e faremo una scommessa sulle vostre teste. E lui che è distratto, assai generoso, ed estra neo a qualsivoglia ordito, non controllerà le spade, cosicché facilmente, o con un piccolo rimescolamento, tu potresti sceglierti una spada non spuntata, e con un colpo mancino ricompensarlo per tuo padre.

LAERTE: Io lo farò, e a tal scopo ungerò la mia spada. Ho comprato da un saltimbanco un unguento, così mortale che basta intingervi un coltello, e dove ferisce nessun cataplasma pur raro, tratto da tutte le erbe che hanno una virtù sotto la luna, può salvare dalla morte il ferito. Ungerò la mia punta con questo contagio, che basterà toccarlo appena perché sopraggiunga la morte.

RE: Riflettiamoci ancora su questo, ponderiamo quale vantaggio sia di tempo che di mezzi possa essere adatto al nostro disegno. Se questo dovesse fallire, e per la nostra cattiva esecuzione rivelasse il piano, meglio valeva non averlo tentato. Quindi questo progetto dovrebbe essere rafforzato con un secondo progetto, che funzioni se il primo dovesse saltare in aria alla prova. Adagio, fammi vedere – faremo una solenne scommessa sulle vostre abilità – Ci sono!  Quando nell’assalto avrete caldo e sete, e tu attacca con più violenza a tale scopo, e lui chiede da bere, io per l’occasione gli farò preparare un calice, di cui basterà un sorso, se per caso sfuggisse alla stoccata avvelenata, perché il nostro programma regga. Ma, resta, che rumore è questo?

Entra la Regina

REGINA: Una disgrazia pesta le calcagna dell’altra, così in fretta vengono. Tua sorella è annegata, Laerte.

LAERTE: Annegata? Oh, dove?

REGINA: C’è un salice che cresce storto sul ruscello e specchia le sue foglie canute nella vitrea corrente; laggiù lei intrecciava ghirlande fantastiche di ranuncoli, di ortiche, di margherite, e lunghi fiori color porpora cui i pastori sboccati danno un nome più indecente, ma che le nostre illibate fanciulle chiamano dita di morto. Lì, sui rami pendenti mentre s’arrampicava per appendere le sue coroncine, un ramoscello maligno si spezzò, e giù caddero i suoi verdi trofei e lei stessa nel piangente ruscello. Le sue vesti si gonfiarono, e come una sirena per un poco la sorressero, mentre cantava brani di canzoni antiche, come una ignara del suo stesso rischio, o come una creatura nata e formata per quell’elemento. Ma non poté durare a lungo, finché le sue vesti, pesanti dal loro imbeversi, trassero la povera infelice dalle sue melodie alla morte fangosa.

LAERTE: Ahimè, allora è annegata?

REGINA: Annegata, annegata.

LAERTE: Troppa acqua hai tu, povera Ofelia, e perciò mi proibisco di piangere; ma ecco com’è il nostro artifizio, la natura segue il suo costume, la vergogna dica ciò che vorrà. Quando queste saranno andate, la donna in me finirà. Addio, mio signore. Ho un discorso di fuoco che vorrebbe avvampare ma questa follia lo spegne. (Esce)

RE: Seguiamolo, Gertrude. Quanto ho dovuto fare per placare la sua ira! Ora temo che questo la rimetta ancora in moto; perciò seguiamolo. (Escono)



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