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Word Dust - capitolo 3

Creato il 17 agosto 2015 da Il Coniglio Mannaro @elegantbear78
Questo racconto fa parte di un progetto di destrutturazione narrativa: ma mano che si procede, la storia perde i suoi riferimenti, sia per i personaggi, che per chi la scrive. Solo i lettori, partecipando ai commenti, possono tenere in mano il filo di Arianna e influenzare la trama. Per esempio, questo capitolo vi arriva grazie a +iara R.M. e alle richieste di "romanticismo" di +Anna Maria Fabbri 
Puntate precedenti:Capitolo 1Capitolo 2Word Dust - capitolo 3
Mi sembra che l'alieno abbia bisogno di Giambo e viceversa... Si potrebbe pensare alla restituzione graduale dei ricordi a Giambo, in cambio di aiutare l'alieno a raggiungere i suoi scopi. Ci starebbe una evasione a questo punto? Giambo spettatore del suo corpo in azione! Ma chi lo sta aiutando non vuole salvarlo, ma solo riuscire a tenerlo per sé.E cosa sta accadendo nella sala di controllo? Cosa significano quei grafici? Perché quei parametri improvvisamente sono fuori controllo? Chi altro è interessato ai segreti di cui è custode Giambo? E Ellen è realmente estranea ai fatti che si celano dietro alle apparenze?Io sulla sua completa fedeltà al prof. Jensen non ci giurerei...PS: Dimenticavo... l'alieno che controlla Giambo, in realtà risponde agli ordini di un superiore con cui comunica dopo l'evasione!Iara, R.M.
Venivano i giorni che concludono l’estate, fra le aspre montagne dove erano cresciuti tutti e due; ed entrambi riconoscevano, sulla pelle e sulle labbra, quel sentore acre, fumoso e dolciastro, come di un fuoco lontano, che portava alle narici il vento di settembre. In quei giorni, mentre si amavano fra i prati di un verde più pallido, ormai scolorito dal sole, erano consapevoli che quell’unico cuore, del quale avevano brevemente vissuto, pulsava i suoi ultimi battiti.Fu lei a dar voce a quel comune pensiero, che aleggiava fra le loro anime come un velo di nebbia in un mattino altrimenti limpido. Si trovavano in alto, fra i pascoli d’altura; le bestie, stanche, caracollavano a valle, dondolando le teste pesanti e le mammelle gonfie. Giambo osservava le sagome tozze delle vacche senza metterle a fuoco, fissando un punto verso l’orizzonte sempre più scuro. In alto, vicino alla volta del cielo, splendeva ancora la luce incantata che precede la notte: la gemma turchese di una stella brillava oltre il velo rosato di piccole nuvole paffute, zaffiro scintillante su un drappo di velluto.- Domani partirai.La voce di cristallo di Efela riempì la quiete del crepuscolo con il fragore di una cascata di stelle spezzate.– Partirai, e il nostro amore ne morirà.Giambo si sollevò bruscamente dalla molle posizione che aveva assunto, steso su un fianco, e rivolse il viso verso la ragazza.– Non accadrà. Non lo permetteremo. Vide le sue stesse parole galleggiare a mezz’aria, come nuvole di vapore denso; avevano l’indolente pesantezza delle menzogne. Perché lo sto facendo? Domandò a sé stesso. È veramente importante questa missione? Ne vale la pena?
Milioni di miglia più lontano, in un altro tempo, la mente frastornata del Geriota ascoltava sconcertata l’eco dei ricordi che aveva rubato; persino lui intuì con facilità la risposta. L’alieno era stanco: negli ultimi giorni non aveva fatto altro che essere assalito dalle visioni, che gli provoca il fatto di aver preso il controllo dell’interfaccia del neuroborg. Pensieri incontrollati, suoni, emozioni, persino sensazioni di piacere o di dolore; eruttavano dentro di lui con la violenza di un orgasmo, un accesso imprevedibile e inarrestabile sul quale non aveva alcuna possibilità di controllo. Si sforzò di riprendere il filo dei propri pensieri, prima che l’ennesimo frammento della vita di Giambo gli riempisse i sensi di ricordi non suoi. Dove era rimasto? I parametri neurobionici: non era riuscito a normalizzarli prima che il suo prigioniero fosse sottoposto ai test. Non era ancora un vero e proprio problema: gli scienziati militari della colonia non erano degli stupidi, ma non potevano sospettare la verità. Avevano pensato ad un problema cibernetico, a un guasto dei circuiti, a qualche altra anomalia. Ma il problema di base rimaneva irrisolto: controllare la mente di Giambo era molto, molto più difficile di quanto avesse preventivato. Lo sforzo stava avendo effetti imprevedibili sul suo sistema nervoso; nelle ultime ora gli era risultato impossibile concentrarsi sui propri pensieri per più di qualche minuto. Stava dimenticando qualcosa di importante, di vitale, per il quale l’esistenza stessa, l’universo come lo conosceva, avrebbe potuto… Cosa? Un grugnito di rabbia gli sfuggì dalle labbra squamose. O meglio, così comandò al proprio corpo, senza sapere se questo fosse stato in grado di eseguire il movimento. Ma dove, dove era il suo corpo? La sua mente ne era ancora all’interno? Non era in grado di dirlo. Non ricordava nemmeno contro quale pericolo stesse lottando, il perché di tutto quello che aveva fatto! Rapire un soldato di una pericolosa specie alinea, controllarne la mente, rischiare di impazzire nel tentativo… e a quale scopo? Rinunciò, con un altro sospiro amaro – immaginario o reale che fosse. Una sola cosa gli era certa: la Polvere. Era imminente, inevitabile, totale. Sarebbe venuta, avrebbe preso ogni cosa: era impossibile impedirlo. C’era solo una cosa da fare, qualcosa che il suo popolo aveva sempre fatto, da sempre, ogni volta. Una cosa terribilmente importante, lo scopo della sua esistenza. E lui aveva dimenticato cosa fosse.Dietro ai suoi occhi, contro la sua volontà, apparve una notte immensa; gelide stelle punteggiano l’oscurità che incombeva sull’orizzonte basso, reso indistinto da un velo di nebbia. La terra era bordata da una linea sinuosa di un viola intenso; sotto, a valle, scorreva misteriosa la vita. Sotto le maestose cime, avvolte nel chiarore lunare, fremeva la pelle di Efela, gelata dal freddo, bruciata dalle labbra di Giambo.
La sensazione era quella di un sogno, vivido e consapevole, nel quale lui poteva soltanto guardarsi dall’esterno, senza la minima possibilità di influire sulle proprie azioni. Mentre osservava passivamente il lungo corridoio scorrere nella direzione opposta ai suoi passi, Giambo passò in rassegna i comandi della sua interfaccia: tutto pareva funzionare correttamente. Controlli motori, potenziamenti, diagnostica, coprocessori e banchi di memoria aggiuntiva: ogni cosa rispondeva docile alle sue richieste. Sapeva esattamente dove l’avrebbe portato ogni passo, la direzione, la forza applicata da ognuna delle sue cellule muscolari: ma non era lui a camminare, né a decidere la meta. In pochi secondi completò una serie di verifiche di sicurezza: nessuno dei complessi meccanismi di protezione sembrava registrare la minima violazione. Per l’impianto cibernetico, era lui, Giambo, a controllare il sistema. Tentò di fermarsi, cercò di muovere le braccia, impose al suo corpo di gettarsi a terra: niente. Era tagliato fuori da sé stesso, eppure rimaneva integrato nel sistema, poteva utilizzarne le potenzialità e le informazioni. Era qualcosa di inimmaginabile, una sensazione alla quale nessun corso di addestramento avrebbe mai potuto prepararlo: ben oltre la completa schizofrenia!Respirò – immaginò di respirare­ – a fondo, sforzandosi di rilassarsi: non poteva far niente, almeno per il momento; si concentrò sul percorso che stava compiendo. Richiamò le mappe del centro diagnostico, nel quale era rimasto chiuso nelle ultime 48 ore, ed esaminò il cammino seguito. Rimase sbalordito e controllò di nuovo, più volte. Alla fine non ebbe più dubbi: chiunque avesse preso il controllo assoluto del suo corpo, lo stava facendo evadere dalla Colonia.
Avanzare, un passo alla volta. Contro la resistenza di quei muscoli possenti, che si abbarbicavano alle ossa e ai tendini di quel maledetto essere alieno; fibre aggrovigliate contro ogni logica, disposte in maniera talmente ostile alla ragione che gli sembrava impossibile anche soltanto accettarne l’esistenza. Figurarsi controllarle, accompagnarle una per una nei loro contorti e spasmodici sobbalzi! Cercava di convincere le gambe del terrestre ad arrancare sul terreno accidentato, all’esterno della città di Gerico, sulla sponda del mare. Stramaledetta, bizzarra ruota quadrata, quel corpo bipede sembrava sul punto di precipitare ad ogni passo, quando l’appendice tozza del piede, alla fine della gamba, precipitava di schianto contro il terreno. Non mi abituerò mai a questo corpo! Grugnì mentalmente il Geriota; scacciò con forza la sensazione di panico, che minacciava di sopraffarlo, al pensiero di dove si trovasse in quel momento il suo, di corpo: nel groviglio confuso di pensieri e sovrabbondanti ricordi estranei in cui galleggiava la sua mente, sapeva che avrebbe dovuto essersi messo al sicuro, prima di trasferire la propria coscienza dentro agli impianti neurali del soldato, che stava manovrando come una grottesca marionetta. Ma non era in grado di avere alcuna certezza. E come si poteva essere sicuri di qualcosa, con la Polvere in arrivo? La certezza della fine gli balzava alla coscienza con chiarezza cristallina, ma non avrebbe potuto dire una parola di più riguardo a cosa fosse, a come sarebbe avvenuto tutto quanto: sarebbe giunta, in fretta, misteriosa e inevitabile. Come ogni volta.
Coraggio, fratello mio.Un lampo al centro della sua coscienza; le parole brillavano vivide nella sua mente, pure scintille di fuoco che diradavano il caos attorno a loro. La presenza del Controllore era nitida e assoluta; lui lo conosceva, l’aveva sempre conosciuto, ma non poté fare a meno di trasalire. Chi sei? Pensò, angosciato.Non mi conosci, dunque? È solo perché hai perduto accesso a te stesso. Ma non temere; la tua mente sa cosa deve fare, eseguirà da sola ogni cosa. Continua, dunque, secondo il mio volere.Come era venuta, la presenza si eclissò, senza lasciare alcuna traccia. La coscienza del Geriota rimaneva svuotata, esausta, confusa come prima, e ciò che era avvenuto in quel breve istante avrebbe potuto essere un altro sogno, l’ennesimo frammento di pensiero che sfuggiva dai circuiti sovraccarichi dell’umano, o un delirio del suo cervello devastato.Si concentro, comandò ai suoi muscoli di contrarre gli pseudopodi degli arti, sfogando così la sua sofferenza. Il suo corpo lontano, da qualche parte, forse gli obbedì. Non l’avrebbe mai saputo. Ma non aveva scelta: doveva proseguire nell’unica cosa che la sua mente sembrava in grado di compiere. In silenzio, sotto il cielo alieno dall’oscura notte, il corpo del neuroborg Giambo avanzava caracollando verso le alture oltre il mare verdognolo, suscitando le strida avide dei Krech. Più in alto, silenziose, le antiche stelle iniziavano a sgretolarsi in confuse girandole multicolori, lasciando al loro posto arabeschi maestosi e sempre più immensi di Polvere.

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