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XVII) i figli dei marinai

Da Foscasensi @foscasensi
La mattina è fresca ma presto sarà calda, sul piazzale del mercato.
Lungo il trapezio d'asfalto l'erba è giallastra, forse malata o semplicemente imbibita di piscio, i fiori piccoli. E se una donna di tacco e di passo impaziente li sfigura, se una creatura frugivora li strappa, se una lumaca li aggredisce, se un gatto, la grandine o il veleno, quello che sia: essi tacciono e ritornano, potendosi permettere ognuno una piccola morte e tutti insieme una vita indefinita e puntiforme.
Senza farsi vedere Antonio lecca il bordo di un bicchiere di caffè quando Baldo lo raggiunge e si pulisce con la manica. Ascolta qualcuno.
“No. Dirò sempre no: non si muore di fame. Dopo il dolore e le allucinazioni si sta bene, a parte che la pelle che tira al momento di stendersi”.
Antonio accarezza la barba come stesse pensando ma ha la testa vuota e piena, prima e dopo, dei silenzi e dei discorsi di Geremia. Fra gli operai forse è il più giovane, e di pelo rosso. Dal tavolo vicino al flipper dietro un piatto di pizzette c'è il Bue e una bottiglia di spuma. Colossale e bovino, Geremia vive nell'atrio della stazione e racconta a caso, per quanto gli permetta il labbro superiore macerato dall'aria, dal pelo e dai passaggi continui di lingua e saliva, trattiene la schiuma della spuma in gola e il ricordo in grumi, di mozzarella e pasta fra i denti.
“Del resto non importa. Alla stazione da ieri sera tutto è fermo. Gente in divisa smistava i viaggiatori un po' qua un po' là. I vagoni e le locomotive immobili. I capotreno in sciopero fischiavano. Calava il sole e fischiavano. Chi poteva si è fatto venire a prendere o si è imbarcato su una linea veloce, una delle ultime. A un certo punto gli uffici hanno abbassato le saracinesche, gli impiegati hanno lasciato la stazione e sui binari si è fatto il silenzio relativo e disturbato di sempre.
E chi non vedo. Avrà avuto venti o trent'anni, si è trascinata dietro una valigia rossa e si è buttata  all'indietro. Si è messa la testa fra le mani ma non ha pianto. Una donna asciutta nell'animo su una panca come la sua valigia ha pensato di non avere nessuno così vicino a sé da dover dormire in stazione, si è accoccolata ha reclinato la testa sul braccio imbottito e piegato e non ha pianto”.
Vedendo che anche Baldo ora siede con Antonio, un bicchiere di qualcosa in mano per bagnare la colazione e il racconto, il Bue schermisce opinioni e domande. Non era bella, dice con il gesto della mano aperta. “Una donna sbattuta di capello giallo, deve essere stata molto scopata, un lungo torrente giallo tinto. Come Geppetto. Si è accoccolata ma non ha voluto nulla, dalla stazione. Nemmeno dormire. L'aria  come sempre fischiava dalle montagne al mare. E quando ho creduto che sarebbe rimasta così, con quegli occhi dilatati sulla notte, così scimunita di stanchezza, ha sciolto il suo corpo nel giaccone, il suo corpo si è fatto da informe a morbido, le ciglia (non credeteci, se volete, ma potevo vedere le ciglia) le ciglia sottili e folte e ha cantato. Sì, ha cantato, breve e incrinato come fosse da sola, lasciandosi coprire dai suoni della stazione, le voci registrate e le ganasce e gli altri organi e il metallo oliato, i topi lungo i muri, le piastrelle, il cielo sugli scioperi dell'intera umanità.
Ha cantato che sbiadissero le stelle, si è stesa piccola e maligna col suo informe ventre morbido sulla notte ed essa ha ceduto, ha balbettato, s'è infiammata ed è sceso il mattino, ma malato come un barbaglio d'acqua verde. Ha cercato il suo treno e mi ha sorriso prima di andarsene per sempre, e adesso non faccio altro che toccarmi per cacciare la cattiva fortuna”

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