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Yemen, genesi politica ed evoluzione settaria di un conflitto regionale

Creato il 14 aprile 2015 da Bloglobal @bloglobal_opi

yemen-crisi

di Eleonora Ardemagni

L’intervento aereo della coalizione militare araba in Yemen sta trasformando il conflitto periferico yemenita – forse il più trascurato e sottovalutato dell’intero quadrante mediorientale – in un conflitto centrale, per partecipazione regionale e attenzione politico-mediatica. Sarebbe però fuorviante guardare alla crisi dello Yemen come al prodotto di dinamiche primariamente esogene. Infatti, questo conflitto è innanzitutto uno scontro politico fra centro e periferie, una battaglia per il potere e le risorse che si sta però connotando di colori settari inediti, a causa dell’interferenza saudita e iraniana.

La sovranità dello Yemen è da tempo sfidata dalle pulsioni autonomiste provenienti sia dal nord (gli houthi, gruppo minoritario dello sciismo zaidita originario dell’area di Saada, sostenuto materialmente dall’Iran) che dal sud (il variegato Movimento meridionale, privo di leadership politica). Dopo la rivolta popolare del 2011 che costrinse il Presidente Ali Abdullah Saleh alle dimissioni, Ansarullah (il movimento politico fondato negli anni Ottanta da Husayn Al-Huthi) ha approfittato del vuoto di sicurezza centrale per estendere il proprio controllo territoriale, fino a raggiungere Amran (nella primavera 2014), a nord di Sana’a, roccaforte della tribù degli Al-Ahmar, famiglia di riferimento di Islah, il partito che raccoglie sia la Fratellanza Musulmana che parte dei salafiti locali. La competizione fra Sana’a e i movimenti autonomisti si è intrecciata con lo scontro fra la nuova e la vecchia oligarchia di governo, ovvero tra Abdu Rabu Mansur Hadi, il Presidente ad interim, originario della regione meridionale di Abyan, sostenuto da Islah, e il blocco di potere ancora legato al General People’s Congress della famiglia Saleh, che aveva appoggiato il progetto di Hadi (già vicepresidente di Ali Abdullah Saleh) nella fase iniziale della transizione istituzionale. Gli houthi e Saleh si sono così tacitamente alleati, sul campo, contro Hadi e Islah: un’alleanza strumentale, frutto di una momentanea convergenza di interessi, poiché entrambi si oppongono agli equilibri di potere vigenti, nonché alle riforme attuate e/o proposte dal governo.

Infatti, provando a guardare a ritroso, il deragliamento del processo di transizione, delineato dall’Accordo elaborato nel 2011 dal Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) e adottato dalle Nazioni Unite, è avvenuto proprio sulle riforme, o meglio sulla resistenza al cambiamento. Nel 2012, attraverso una serie di decreti presidenziali, Hadi ha iniziato la ristrutturazione del settore militare: un argomento delicatissimo in Yemen, dal momento che le relazioni-civili militari sono intrecciate e l’esercito è un collage di milizie tribali che rispondono a patrons differenti e tra loro rivali. Il Presidente Hadi ha sciolto la Guardia Repubblicana – guidata dal figlio ed erede designato di Saleh, Ahmed Ali – rimosso alcuni ufficiali legati al GPC, promosso uomini a sé vicini per provenienza geografica e vincoli tribali. Non è un mistero che Saleh abbia ancora un forte seguito nelle forze di sicurezza e ciò spiega perché numerose brigate dell’esercito o segmenti di esso combattano ora al fianco degli houthi, contro Hadi e le istituzioni riconosciute dalla comunità internazionale. Analizzando in un Report dell’aprile 2013 la riforma del settore militare yemenita, l’International Crisis Group già si domandava – argutamente – se essa non stesse per divenire il “seme di un nuovo conflitto”.

Un’altra riforma ha poi trascinato lo Yemen nel caos: gli houthi – dopo aver occupato Sana’a nell’agosto 2014 cavalcando la protesta popolare contro il taglio dei sussidi – hanno prima obbligato Hadi a creare un governo tecnico, per poi sequestrare il segretario della commissione al fine di bloccare la riforma federale dello Stato. Da sempre invisa ad Ansarullah, la bozza definitiva prevede la creazione di cinque macro-regioni: le terre d’origine degli huthi verrebbero raggruppate nella macro-regione di Azal (attuali governatorati di Saada, Amran, Sana’a, Dhamar), densamente popolata, scarsa di risorse energetiche e priva di accesso al mare.

L’attualità yemenita mostra quanto le identità confessionali possano essere ignorate o strumentalizzate per calcoli politici. Saleh – ora alleato di Ansarullah – combatté durante la sua presidenza sei battaglie contro il movimento del nord, stigmatizzando proprio l’identità sciita degli houthi; lo stesso Ali Abdullah Saleh è però uno sciita zaidita, anche se non ha mai connotato la sua leadership in senso religioso, poiché di provenienza militare. Per oltre trent’anni, nonostante la confessione sciita, Saleh è stato il principale alleato dell’Arabia Saudita in Yemen; oggi, Riyadh e gli alleati sunniti bombardano i militari a lui ancora fedeli, mentre l’Iran, campione regionale dello sciismo, ha da tempo aperto un canale di dialogo con il sunnita Movimento meridionale, in funzione di disturbo anti-saudita. La storia dello Yemen è anche un racconto di repentini cambi di campo inter-tribali, di alleanze a volte parallele e apparentemente contraddittorie. La lettura dicotomica “sciiti vs sunniti” è pertanto una scorciatoia di pensiero che non spiega, ma anzi travisa le radici profonde del cronico conflitto in Yemen, Paese in cui peraltro sciiti zaiditi e sunniti di scuola sciafeita hanno tradizionalmente convissuto in pace. Purtroppo, il riverbero interno della contrapposizione regionale fra Arabia Saudita e Iran – che si gioca nel Levante ma anche a Sana’a – sta colorando di toni confessionali lo scontro, aggiungendo una nuova, pericolosa variabile alla crisi yemenita.

Quando le milizie houthi-Saleh hanno occupato Taiz, terza città del Paese, sunnita, spingendosi all’ingresso di Aden – dove le istituzioni della transizione erano riparate dopo il golpe di Ansarullah a Sana’a – è scattato l’intervento aereo della coalizione militare araba. L’Arabia Saudita, che sostiene la legittimità di Hadi e ha sempre considerato lo Yemen una questione di politica interna e di sicurezza nazionale, temeva che i rapporti di forza nell’unica repubblica della Penisola arabica si rovesciassero a suo sfavore. Sul campo, mentre Aden è una città contesa fra sostenitori di Hadi e di Saleh, nessuna delle due forze sembra riuscire a prevalere sull’altra; inoltre, i soli bombardamenti, privi di un appoggio locale organizzato, si rivelano inefficaci allo scopo saudita, che è la difesa della presidenza Hadi e la restaurazione di ciò che resta della sovranità statuale sulle terre occupate dagli houthi.

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Territori sotto il controllo dei ribelli houthi e AQAP – Fonte: Stratfor (aggiornamento al 13.04.2015)

Nel frattempo, si assiste a una preoccupante privatizzazione dell’uso della forza: proliferano i comitati popolari, gruppi di “uomini in armi”, sia pro-Saleh che pro-Hadi (questi nati in chiave anti-jihadista), che si sostituiscono a polizia ed esercito, organizzano check-point e amministrano arbitrariamente la giustizia. Dinnanzi a un esercito yemenita disgregato, si moltiplicano le milizie tribali, che fanno da “argine” oppure da “sponda” ai tanti gruppi jihadisti presenti nel sud del Paese e che ora beneficiano dell’ennesimo vuoto di sicurezza. Nelle regioni centrali e meridionali dello Yemen a prevalenza sunnita (Mareb, Al-Bayda), la penetrazione territoriale degli houthi sta provocando alleanze tattiche fra clan sunniti locali, Al-Qaeda nella Penisola arabica (AQAP) e l’affiliata Ansar Al-Sharia. Al tempo stesso, AQAP e tribù si contendono, per esempio, porzioni urbane: a Mukalla, Hadhramout, gli jihadisti hanno assaltato e liberato la prigione cittadina, innescando la reazione delle tribù locali. Sotto la pressione dei bombardamenti sauditi, si intravedono le prime crepe nel fronte houthi-Saleh: nella regione di Dhaleh, un gruppo di soldati della 33esima brigata ha disertato e almeno una quarantina di loro è stata uccisa da miliziani di Ansarullah, dopo aver rifiutato di consegnare le armi agli houthi.

Però, la forza militare congiunta, di cui la Lega Araba ha approvato l’istituzionalizzazione nel vertice di Sharm el-Sheikh (i dettagli tecnici, fondamentali, verranno discussi entro quattro mesi), non debutta in Yemen contro i gruppi jihadisti, ma per colpire le milizie sciite. Questo dato è destinato a pesare a livello regionale, proprio ora che Teheran, dopo l’accordo preliminare sul dossier nucleare, torna come attore pienamente legittimato sulla scena geopolitica. Nel medio periodo, specie se i risultati dell’azione aerea in Yemen non si rivelassero efficaci, la compattezza dell’alleanza sunnita non sarebbe scontata (il Qatar, ora pubblicamente riallineatosi a Riyadh, potrebbe di nuovo giocare da “battitore libero”). L’Oman, che non partecipa all’operazione e ha appena riaccolto il sultano Qaboos dopo una lunga assenza per malattia, è l’unico mediatore in grado di cercare il filo di quel dialogo che pare ora perduto, sia a livello interno che fra sauditi e iraniani.

Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente, collaboratrice di AffarInternazionali, Aspenia, ISPI, Limes.

Photo credits: Mohammed Hamoud/Anadolu Ajansı

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