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"You Really Should See These" - Day 3: Le Nuove Leve Britanniche

Creato il 15 febbraio 2012 da Elio

Non potevo non dedicare una delle tre classifiche al filone cinematografico di cui praticamente parlo una volta sì e l'altra pure. Questa terza ed ultima parte di “You Really Should See These” è infatti dedicata alla nuova ondata di pellicole inglesi, accomunate tutte da uno stile quanto mai riconoscibile. È estremamente diretto, viscerale e realistico, pur senza rifiutare una fondamentale finzione filmica che permette a chi guarda di empatizzare e di sentirsi coinvolto da quanto raccontato. Nonostante le similitudini nella gestione tecnica, tuttavia, ogni pellicola risulta sempre in grado di rendersi diversa dalle altre, mostrando oltre ai tratti generali appena descritti altri ben più personali. Peraltro, essendo questa proposta cinematografica relativamente giovane, non sembra almeno per ora destinata a fermarsi, con buona pace di chi, come me, attende con ansia ogni nuova pellicola dai nuovi nomi del Regno Unito.
7) "London to Brighton" (2006)
La pellicola più sporca, insieme a quella di Considine, tra quelle presenti in classifica. Racconta anch'essa la storia di gente ai margini della società, tuttavia Williams più che un drammatico, ci costruisce sopra un vero e proprio thriller, che non ha intenzione alcuna di lasciare da parte la violenza e che al contrario la inquadra in tutta la sua naturalezza. In linea con quanto scritto inizialmente, quindi, è assente qualsivoglia spettacolarizzazione e anzi “London To Brighton” è, per quanto riguarda la messa in scena, estremamente realistico. E forse è questo il motivo principale per cui difetta leggermente in termini di empatia. Fortunatamente, però, niente che possa minarne la riuscita, dettata da un ritmo elevato e dall'intenzione del regista di non fare sconto alcuno.
Tra gli attori anche Johnny Harris (“This is England 86”, “The Fades”) che nell'interpretare ruoli di personalità ai margini o comunque non proprio degne della simpatia dello spettatore è perfetto.
6) "In The Loop" (2009)
Lo stile britannico, diretto e senza fronzoli, applicato alla satira. Iannucci, dopo anni di satira televisiva, tira fuori una commedia politica riuscitissima. Già un paio di nomi sarebbero sufficienti a delinearne le potenzialità, ossia James Gandolfini e Mimi Kennedy, che infatti rendono i loro personaggi assolutamente meravigliosi. Ma a stupire, tuttavia, non è nessuno dei due, o almeno non quanto Peter Capaldi. A lui è affidato il personaggio migliore e più difficile, ma l'attore sembra interpretarlo senza troppi sforzi, rendendolo esilarante.La satira ai danni delle dinamiche politiche e degli uomini che ne fanno parte è davvero tagliente, grazie a dialoghi velocissimi e caustici, oltreché maledettamente divertenti. In parte anche esagerati, invero, al punto di toccare, insieme all'intreccio, livelli quasi surreali. Se non l'avete visto è davvero il caso che lo facciate.
5) "Tyrannosaur" (2011)
Visto di recente e subito entrato di diritto in questa personale classifica. Dopo aver contribuito a rendere grande il film più riuscito di Meadows con un'interpretazione ottima, Considine prova a mettersi dall'altra parte della telecamera, chiama Peter Mullan- strepitoso - per il ruolo principale e tira fuori un racconto che, come "London To Brighton", sembra non sapere cosa significhi fare sconti allo spettatore. Viscerale, potente e sporco mette in scena una delle probabilmente innumerevoli storie che tratteggiano la vita nelle zone più difficili delle città del Regno Unito. La sua regia, pur non disdegnano momenti filmici, sbatte in faccia un realismo ed una realtà per niente desiderabili e davanti alle quali si preferirebbe voltarsi a guardare da qualche altra parte. Molti giovani registi pagherebbero per un esordio simile. (Qui la recensione)
4) "Boy A" (2007)
Questa fu una delle primissime pellicole a farmi capire che il Regno Unito aveva optato per intrecci il cui obiettivo non era esattamente quello di scaldare il cuore dello spettatore, ma, tutt'al più, di stringerlo per metterne alla prova la resistenza. La storia di "Boy A", infatti, avrebbe tutte le carte in regola per essere una storia emozionante e dai risvolti positivi, ma Crowley queste caratteristiche sembra non averle prese in considerazione neanche lontanamente, tanto che durante la visione si avverte sempre una certa sensazione di disagio, affianco a quella ovvia del protagonista. Quest'ultima è trasmessa alla perfezione da un attore, Garfield (“Non Lasciarmi”), che sembra essere nato per ruoli simili e che infatti offre una prova enorme, affiancato da Peter Mullan, che come si scriveva poc'anzi non è certo l'ultimo arrivato. Gran parte della forza del film, tuttavia, è nel finale, di cui non si scriverà per evitare scomode anticipazioni a chi di voi non l'ha ancora visto. Mi limiterò a dire che è di una potenza indiscutibile e che anche da solo renderebbe meritevole di visione l'intera pellicola.
3) "This is England" (2006)
È la seconda pellicola, dopo “Dead Man's Shoes”, con cui Meadows segna la nuova ondata di proposte inglesi, ed è anche l'unica che verrà distribuita “addirittura” nelle sale italiane, seppur con qualcosa come 5 anni di ritardo, perché comunque qui ci si deve distinguere a tutti i costi. La ricostruzione del periodo è ciò che rende la pellicola così riuscita ed irresistibile; e non si sta parlando meramente di scenografie, ambientazioni e vestiti ma anche e soprattutto di atmosfera. Il regista britannico infatti riesce a raccontare quegli anni trascinando lo spettatore all'interno degli stessi, anche e soprattutto con un fondamentale uso delle musiche. A ciò aggiunge una commistione di ironia e dramma che funziona in maniera perfetta e che avvicina ai protagonisti con una facilità disarmante.
Ha diretto in seguito due miniserie per la tv, “This is England '86” e “This is England '88”, riuscite praticamente quanto il film e identiche ad esso per linguaggio filmico ed empatia.


2) "Hunger" (2008)
L'esordio di McQueen è l'esordio che avrei voluto girare io. La maturità e la lucidità mostrata dal regista londinese sono fuori dal comune. Costruisce un meccanismo in tre blocchi ben distinti ma che al termine non solo non vanno a minare la continuità della pellicola ma rappresentano le colonne portanti della stessa. Ognuna infatti è legata a filo doppio, in termini di intreccio, all'altra al punto di inquadrare e giustificare ognuna la potenza dell'altra. La precisione di Mcqueen è pressoché chirurgica. Al tempo stesso, però, è solo apparentemente fredda, perché capace in realtà di raggiungere esattamente le corde che dovrebbe toccare. Per usare una definizione non mia, ma calzante come poche, “un ghiaccio che provoca ustioni di terzo grado”. Dietro la macchina da presa, poi, Mcqueen mostra una tecnica davvero invidiabile, girando, tra le altre cose, uno scambio di 17 minuti senza stacchi. E non uno scambio dai tempi lenti e riflessivi, tutto il contrario. Assolutamente enorme. Per far ciò non poteva non servirsi di attori all'altezza e infatti Fassbender, al di là della dieta che lo ha reso carne ed ossa, è praticamente inattaccabile.
Da vedere e rivedere. E poi da vedere di nuovo. (Qui la recensione)
1) "Dead Man's Shoes" (Cinque Giorni di Vendetta - 2004)
Che le pellicole di Meadows in classifica siano due non è certo un caso. È il regista che ha dato di più al nuovo cinema inglese e che è riuscito a farlo uscire dai confini nazionali. Quando vidi "Dead Man's Shoes" rimasi allibito, era la prima volta che osservavo quei tratti registici, che delineano poi la parentesi cinematografica, fortunatamente ben lungi dall'essere chiusa, di cui si sta parlando. 90 minuti che definire potenti sarebbe assai riduttivo. Tanto semplice quando diretto, tanto scarno quanto devastante. Ad oggi il miglior Meadows in assoluto, in grado di unire uno stile quasi antispettacolare alla finzione filmica più coinvolgente; l'empatia è infatti totale e il ritmo non permette di prendere fiato, e non perché "DMS" sia solo azione, ma perché le parentesi più introspettive che si alternano durante la narrazione alle altre riescono a scatenare un'emotività tale che si ci dimentica di farlo. La regia del cineasta inglese è perfetta, così come la costruzione delle singole sequenze, con un finale che sfrutta il colpo di scena in una maniera tale che il cinema statunitense odierno, in blocco, dovrebbe tornare tra i banchi di scuola e prendere nota. Fanno parte della perfetta costruzione, oltre a regia, fotografia, musiche e montaggio, ovviamente anche gli attori, che offrono una prova scandalosamente ottima. Considine, si sa, è tagliato per fare il matto, ma cosa combina Toby Kebell nell'intepretare il fratello di Richard è impressionante, da un paio di oscar almeno.
Una pellicola impeccabile, semplicemente non le si può dir nulla.
 

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