0012 [SQUOLA] Alessandro Anselmi: il disegno di architettura

Creato il 28 gennaio 2014 da Wilfingarchitettura @wilfing
di Salvatore D'Agostino
Marco De Rossi a quattordici anni - insieme a Edoardo Biraghi – ha creato Oilproject per realizzare un sogno:
«Il sogno è che entro dieci anni tutte le lezioni tenute nelle scuole e nelle università pubbliche vengano condivise online a beneficio, ad esempio, di chi vive in zone con una scarsa offerta didattica, combattendo così il digital divide culturale italiano. La qualità delle lezioni è giudicata dal pubblico attraverso votazioni e meccanismi di valutazione fra pari.»*
Oilproject nasce nel 2004 ed è una scuola gratuita online dove docenti, ma non solo, possono proporre contenuti. Tra i molteplici corsi che riguardano i temi dell’architettura si distinguono delle lezioni, pre era web, tenute da Bruno Munari a Venezia nel 1992. Con il moltiplicarsi dei canali video il sogno di dieci anni fa di Marco De Rossi si è sviluppato all’infinito. Oggi è possibile avere come insegnante Bruno Munari o Steve Jobs, il suo discorso ai neolaureati di Stanford del 2005 insegna più di molte lezioni frontali ascoltate sui banchi di scuola. Come le conferenze annuali TED, tradotte in quasi tutte le lingue del mondo, condividono «ideas worth spreading» (idee degne di essere diffuse) e le finestre aperte del MIT, attraverso i video del medialab, ci regalano ore di buone lezioni online.
Senza i video amatoriali caricati da uno studente, prima su YouTube e poi su Oilproject, Stefano Bartezzaghi, forse, non gli avrebbe dedicato un capitolo del suo libro L’elmo di Don Chisciotte – Contro la mitologia della creatività e noi tutti non avremmo avuto la possibilità di ascoltare – come sospesi in un tempo non più fisico ma digitale – le sue lezioni. 

Approvando i sogni di diffusione delle idee accessibili a tutti in rete, a un anno dalla morte di Alessandro Anselmi, condivido una sua lezione sul disegno di architettura, ripescata dal centro audiovisivo IUSA voluto dal critico e storico d’arte Eugenio Battisti della facoltà di Architettura di Reggio Calabria.


di Isidoro Pennisi

Il documento in questione è la sbobinatura (ndr qui la storia) di un contributo di Alessandro Anselmi, offerto ad una rassegna di interviste realizzate a diversi architetti italiani, protagonisti del dibattito degli anni settanta e ottanta del secolo scorso e prodotte dal Centro Audiovisivo dello IUSARC di Reggio Calabria. In quest’intervista Anselmi affronta un tema ricorrente in quel periodo: come superare procedure, approcci ed anche risultati architettonici derivanti dalle ricadute più tarde del Movimento Moderno, per proporre nuove prospettive ritenute un po’ da tutti necessarie. È giusto dire che a livello generale e generazionale questo tentativo non fu assolutamente incisivo e maturo ma, più che altro, rappresentò una forma di reazione ad aspetti e temi che i giovani protagonisti dell’epoca non capirono sino in fondo. La questione del Movimento Moderno, infatti, era già stata elaborata e forse già superata dai maestri italiani del dopoguerra. Comunque li si giudichi, infatti, è indiscutibile che la loro posizione di “continuità” fu tutt'altro che acritica. Anzi, è forse il taglio della loro riflessione che caratterizza lo sforzo compiuto e il debito che tuttora noi abbiamo. Uno sforzo riconosciuto oltre frontiera, ma non da noi.

È in questo frangente, quindi, che crescono e si affermano una serie di architetti italiani, tra cui Anselmi, che fondano il loro tragitto esattamente sul rifiuto, anche radicale, di questa eredità italiana organizzata intorno alla scuola romana e milanese della prima parte del novecento. Anselmi, però, a mio modo di vedere, è forse l’unico tra questi che offre una via originale e meno ideologica. Il documento in questione, pur nella sua brevità, ha una sua importanza perché tra le righe è possibile intuire l’idea di questo approccio originale che può essere riassunto in questa maniera: l’architettura si fonda sulla soggettività e sull'esattezza, se la sua soggettività artistica risiede nel vedere gli uomini e la storia umana dietro i segni che organizziamo, la sua esattezza sta, soprattutto, nella scientificità con cui analizziamo e costruiamo lo spazio architettonico; una scientificità non matematica ma fondata sul disegno e sulla storia delle forme artificiali. 


Alessandro Anselmi
prima parte


L’intervista fa parte di un materiale documentario prodotto in occasione della Mostra Architettura Italiana degli anni settanta, curata da Enrico Valeriani e Giovanna De Feo, ed esposta presso la Galleria di Arte Moderna di Roma e la Triennale di Milano nel 1981*
Il progetto di cui parlerò è il frutto di un incarico che il comune di Parabita ha affidato al GRAU nel 1967. La sua realizzazione è iniziata nel 1974 per le ragioni, che tutti gli architetti conoscono bene, dovute alla burocrazia italiana. Il progetto fa parte di una ricerca particolare che in quegli anni, sia io personalmente che come componente del GRAU, si stava portando avanti. Erano anni in cui, in modo particolare, eravamo sensibili a tutti i problemi della geometria. Avevamo già sperimentato molti problemi della geometria soprattutto nel campo della geometria Euclidea e in quello della geometria classica. Ciò che abbiamo sperimentato nel momento della progettazione del Cimitero Comunale di Parabita, è il tentativo di entrare nella dimensione della geometria proiettiva. Il comune di Parabita aveva affidato a me e all’architetto Pallante l’incarico, non solo del progetto del nuovo cimitero in sé, ma anche del suo dimensionamento e della localizzazione. Noi abbiamo approfittato di questo incarico e dei suoi margini di manovra per porre fin dall’inizio un preciso limite spaziale al progetto. Infatti esso in planimetria è un quadrato che circoscriveva il campo d’intervento di questa nostra sperimentazione di tipo proiettivo. Questo quadrato è stato diviso in due spazi - o meglio in due semispazi - . Due semispazi con due leggi d’aggregazione diverse: con due tracciati regolatori diversi. Il progetto ha trovato la sua forma in questo gioco di opposizioni fra il tracciato regolatore legato al punto finito e il tracciato regolatore al punto infinito. Man mano che il progetto andava avanti abbiamo continuato un’elaborazione di forme che di volta in volta erano nel campo dell’infinito ma legate al punto finito, o nel campo del finito ma legate alla logica del punto infinito. Ad esempio, le due spirali che stanno nella parte superiore della planimetria sono chiaramente due immagini legate al punto infinito e sono le immagini archetipiche della continuità legata al punto finito. 

Viceversa, la sinusoide, che è un segno tipico della legge della continuità ma legata al suo asse e cioè al punto all'infinito, è chiaramente circoscritta e determinata nella sua spazialità nel campo del punto finito. Sostanzialmente è questa la logica attraverso cui siamo andati avanti nella progettazione di questo cimitero. Adesso non voglio entrare nei particolari della costruzione dell’Ossario o nei particolari della costruzione dei muri di recinzione. Voglio soltanto dire, ad esempio, che il cimitero, anche dal punto di vista della sua soluzione tridimensionale, è collegato a questo punto di unione fra i due campi. Non voglio neanche dilungarmi molto sulla logica geometrica del progetto. Sottolineo solo il fatto che in quel periodo vivevamo un momento fondamentale della ricerca mia e del GRAU e di altri amici del GRAU in cui questi ragionamenti erano all'ordine del giorno. Non voglio nemmeno dire che questa fosse l’unica ricerca del GRAU.A fianco a questa, e già da diverso tempo, si stava sperimentando un altro tipo di ricerca, che era quella sui segni storici dell’architettura. Credo sia molto evidente che l’immagine complessiva del cimitero di Parabita derivi da un’analisi della struttura dell’ordine Corinzio;,del capitello Corinzio. È interessante notare che dal punto di vista metodologico questo doppio binario che in quegli anni guidavano la nostra ricerca, cioè da una parte la sperimentazione spaziale legata alle possibili sperimentazioni geometriche e dall’altra la ricerca del segno, attraverso un rapporto con la storia. In questo progetto è evidente. Però vorrei chiarire un fatto per evitare qualsiasi possibilità d’interpretazione storicista di questo tipo di metodo. Io credo che non c’è identità con la storia o analogia con la storia. Esiste nel metodo di progettazione un particolare momento, un particolare momento critico vorrei dire, in cui l’analisi di un oggetto storico si stacca dalla determinazione storica stessa, perde il senso della sua determinazione, e rimane in un certo senso forma vuota. È in questa condizione che, come tale, è possibile la sua ripresa, è possibile la sua nuova interpretazione. Solo in questo caso è comunque possibile avere un rapporto con questo segno, che invece in altri momenti è determinato specificamente, fa capo ad un insieme di significati, è definibile all'interno di un particolare arco della storia dell’uomo.


seconda parte

Uno dei grandi vantaggi della sperimentazione architettonica intorno al rapporto con la storia e soprattutto in una sorta di metodologia del doppio binario tra approfondimento spaziale e archetipo figurativo. Credo che questo approccio possa dare oggi risultati molto positivi, se è appunto visto correttamente e nel senso che dicevo prima. Già alcuni risultati positivi, a mio modo di vedere, stanno arrivando. Innanzi tutto si è usciti dalla metodologia ortodossa del Movimento Moderno. Io non sono d’accordo con Bruno Zevi. Una cosa che mi è molto piaciuta di Bruno Zevi, però, è proprio la sua critica all'ortodossia. Una critica alla stupidità sostanziale di certi architetti. Si è usciti da questa stupidità e finalmente tutta l’area della figurazione incomincia ad essere ripresa dagli architetti. Non solo è ripreso il discorso sulla forma ma sono ripresi anche i discorsi sui metodi di analisi sulla forma. Uno di questi metodi è da sempre il disegno. Direi che in fondo il Movimento Moderno aveva messo da parte il discorso sul disegno, aveva considerato il disegno, o meglio l’autonomia del disegno, come uno degli elementi dell’Accademia. In un certo senso aveva combattuto il disegno stesso accettando, se volete, una parte soltanto del disegno: la parte tecnica, la parte che serviva ad esprimere la progettazione tra virgolette, una progettazione completamente separata da qualsiasi analisi formale. Naturalmente questo è il metodo ortodosso del Movimento Moderno, non certo la sperimentazione dei grandi maestri; non certo i grandi progetti che sono stati fatti nella prima parte di questo secolo che, invece, non soggiacciono a questo tipo di metodologia; ma questi non sono certo né progetti, né personaggi ortodossi. 

Dicevo, allora, che in questi ultimi tempi si è aperto di nuovo il discorso alle arti figurative, e gli architetti disegnano. Si è detto molto sul disegno degli architetti, se n’è fatta anche un’analisi sociologica giusta. Non esiste più la committenza, c’è una grande crisi nel settore della professionalità dell’architettura e quindi per sopperire a questa crisi è inevitabile che gli architetti tornino nuovamente a realizzare sulla carta i loro sogni. È un’interpretazione in parte chiusa, e in parte che fa capo ad un sociologismo che forse è corretto definirlo romantico. Un sociologismo che in fondo è ancora connesso con il Movimento Moderno, e quindi assegna molta importanza alla tecnica progettuale più che alla ricerca complessiva dell’architetto. Io credo che esistono altre ragioni, invece. Queste dipendono appunto dalla riscoperta di un metodo e dall'invenzione di un metodo nuovo in cui la ricerca della forma passa per la complessità degli strumenti della forma stessa. Quindi la riscoperta dello strumento fondamentale dell’analisi formale che è il disegno. Detto questo bisogna anche sottolineare l’abuso che negli ultimi tempi è stato fatto del disegno. Accettata la critica sociologica di cui prima si diceva, accettata la dilatazione dei campi disciplinari in una dimensione più vasta, mi sembra invece riduttivo collocarsi semplicemente sul piano del disegno in quanto architetti: questa può essere un’ulteriore riduzione del campo disciplinare invece che un’apertura del campo disciplinare.

Personalmente sono un architetto che disegna e mi piace moltissimo disegnare, però credo di avere la coscienza del limite fra un disegno che esiste in quanto tale, cioè esiste come attività artistica autonoma dall'architettura, ed un disegno che pur essendo autonomo dipende dall'architettura. Direi che la definizione più interessante, a mio avviso, è quella che definisce quest’attività del pensiero come un’attività di analisi della forma, di approfondimento dei problemi dello spazio architettonico. Questo non significa negare l’autonomia del disegno, cioè negare la validità artistica del singolo disegno, ma pur tuttavia è bene precisare che questa validità artistica esiste nella misura in cui nasce da una dimensione che, per esempio, non è quella della pittura, non è quella della scultura, ma è specificamente dell’architettura. Dall'altra parte, non si può assegnare soltanto al disegno il problema dell’analisi formale. Esiste da sempre l’analisi formale portata attraverso la critica letteraria ad esempio. Oggi esistono degli strumenti come il cinema e la fotografia. Direi che tre quarti degli architetti ormai sono degli ottimi fotografi e non vedo allora che tipo di differenza possa esistere fra il disegno e la fotografia, il disegno la fotografia e il cinema. Vorrei dire che sono possibilità della ricerca alle quali noi possiamo benissimo attingere. Il problema però è non scavalcare un determinato ambito senza la coscienza che bisogna poi ritornare dentro quello dell’architettura in veste d’architetti.

28 gennaio 2014Intersezioni ---> SQUOLACOMMENTA

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