0028 [A-B USO] Mauro Francesco Minervino | Statale 18 | Terza parte

Creato il 16 maggio 2012 da Wilfingarchitettura @wilfing
di Salvatore D'Agostinoprimaseconda e quarta parte
«Mentre attraverso questo sud della città a nastro capisco anche perché posti così per essere raccontati non hanno più bisogno della penna eclettica dei viaggiatori stranieri o di quella molto meno alata degli inviati speciali. Le didascalie dei viaggiatori a cottimo degli inserti turistici, le rubriche estive dei giornali sono spazzatura. Nel contemporaneo Gran Tour di questa nuova miseria che si disegna sui bordi delle statali alle latitudini del sud si scrive, o si riscrive, fuor di letteratura e di apologo antropologico. Basta registrare lo sguardo riflesso dei luoghi». (Mauro Francesco Minervino)1
Mauro Francesco Minervino è un antropologo calabrese che non ha bisogno di andare lontano per le sue ricerche poiché il luogo dove vive e delle sue quotidiane osservazioni è la diciottesima statale italiana che da anni percorrere senza sosta. In fondo a sud, La Calabria brucia e Statale 18 sono i libri dove ha riportato le sue analisi, l’intervista che seguirà è divisa in più parti (1°, 2° e 4°) poiché le risposte, ampie e dettagliate, meritano pause di riflessioni più che letture veloci senza area di sosta.

Salvatore D’Agostino A vent’anni dal saggio di Marc Augé nonluoghi vorrei provare a ribaltare il punto di vista del signor Pierre Dupont2 - su cui si basa il testo - e riflettere sull'identità, le relazioni e la storia di chi ricarica di danaro il bancomat, di chi lavora allo sportello d’imbarco dell’Air France, dell’hostess della stessa compagnia, della polizia aereoportuale, del venditore del Duty-free dove acquista il cognac e una scatola di sigari, del libraio dove compra un libro poco impegnativo, del redattore, dei giornalisti, dei creativi pubblicitari, dei fotografi che hanno realizzato la rivista che sfoglia rapidamente. Non credi che il nonluogo attraversato dal signor Pierre Dupont sia abitato nel senso più profondo, per citare la triade dello stesso Marc Augé ‘identità, relazione e storia’, dalle persone che ci lavorano?   Non credi che la modernità abbia una sua ‘identità, relazione e storia’ che non può essere liquidata con un neologismo, diventato in fretta stereotipo, che osserva la realtà da un punto di vista troppo da ‘Business class’ del signor Pierre Dupont?

Mauro Francesco Minervino “Abitato” sì, ma non direi ancora in un senso “più profondo” di quello previsto dalla sua funzione, e non ancora attraversato da relazioni umane, identitarie e relazionali, “profonde” (pensiamo per esempio alla fungibilità delle funzioni sociali, alla precarietà del lavoro offerto e praticato in questi luoghi). Non basta trasformare per poche ore l'outlet di Valdichiana o il Centro commerciale Megalò di Chieti in palcoscenico per l'ex star di Amici e vincitore di Sanremo 2009, Marco Carta, per farne una piazza, un luogo di relazione o un confine domestico. Qualche anno fa i consumatori riuniti negli spazi del Serravalle Outlet di Alessandria ballarono la bossa nova con Toquinho e fu un successone, mentre Dionne Warwick, già musa di Burt Bacharach, è stata portata in tour per i Designer Outlet di tutta Italia. Questo è propriamente lo spazio dello spettacolo del mondo globaliz­zato che si estende e si sposta altrove, in spazi dove si coniugano paradossalmente le più grandi disuguaglianze socio­economiche, la più grande varietà di fenomeni ideologico-culturali, con l’unificazione del mer­cato e l’uniformizzazione delle immagini mediatiche. Ma tutto questo, ancora una volta, cos’ha a che fare con la domesticazione, cioè con quel processo profondo (che si spiega ancora oggi nell’ambito di un’etnologia del “sacro”) che è la resa dello spazio umano a un ordine di senso e di persistenza culturale stratificato dal tempo, nonché dalla conservazione e dall’integrità di luoghi e funzioni, da cui restano esclusi -per loro stesso carattere e necessità- “i punti di transito e le occupazioni provvisorie - le catene alberghiere e le occupazioni abusive, i club di vacanze, i campi profughi, le bidonville” (Augé), ovvero questi e tutti gli altri nonluoghi già definiti da Augé?   Intanto i nonluoghi di Augè (basta rileggere il testo, che solo in Italia dal 1993, anno della sua prima pubblicazione, ha avuto più di venticinque ristampe) identificano essenzialmente il carattere omologante e indifferenziato dei luoghi di passaggio, la loro architettura e, ben oltre la forma, la loro funzione prevalente di spazi di attraversamento e di convettori della mobilità tipica del mondo surmoderno. Posti uguali a sé stessi in qualunque parte del mondo ci si trovi: come le autostrade, le stazioni ferroviarie, gli aeroporti e i grandi centri commerciali. Luoghi la cui architettura (talvolta miseramente accattivante) corrisponde perfettamente agli imperativi della mobilità universale collegata al dogma del produci e consuma. Se oggi occorre ripensare la pratica sociale dello spazio alla luce di questi fenomeni complessi e diffusi su scala mondiale, non va mai dimenticato che siamo tutti chiamati a fabbricare un senso con quel che resta del mondo e che l’uomo in ogni epoca “ha costruito il proprio spirito con tutti i mezzi”, come ricordano Marcel Mauss e Michel de Certeau, citati spesso a proposito dallo stesso Augé. E con le parole dello stesso Augé, “Aggiungiamo che la stessa cosa vale tanto per il nonluogo che per il luogo: esso non esiste mai sotto una forma pura; dei luoghi vi si ricompongono; delle relazioni vi si ricostituiscono; le «astuzie millenarie» dell’«invenzione del quotidiano» e delle «arti del fare», di cui Michel de Certeau ha proposto analisi così sottili, vi possono aprire un cammino e dispiegarvi le loro strategie. Il luogo e il nonluogo sono piuttosto delle polarità sfuggenti: il primo non è mai completamente cancellato e il secondo non si compie mai totalmente - palinsesti in cui si riscrive incessantemente il gioco misto dell'identità e della relazione. Tuttavia, i nonluoghi rappresentano l'epoca”. La nostra, in cui l’ambiguità delle nostre costruzioni ci mette di fronte alla tirannia del presente, alle forme di vita di un presente dilatato, che rischia di diventare “definitivo”.   La scelta tra luogo e nonluogo è una scelta che stavolta, in tempi di terrorismo, di crisi economica globale e di conflitti di civiltà, rischia di essere finale: è quella tra solitudine e solidarietà, tra conoscenza e barbarie.

«Le coppie di senso che formano per noi tutti l’opposizione esistenziale tra spazio pubblico/spazio privato e luogo/non-luogo, rappresentano la nuova formula del dilemma identitario nel mondo globalizzato», rimarca Augé.
L’utopia della libertà di ripensare i luoghi per ridare loro l’unitarietà degli spazi della vita, ha di nuovo bisogno dell’immaginazione per sfuggire alla tirannia del presente, di un presente “definitivo” e per ora quasi totalmente dislocato (è questo lo stigma della realtà che caratterizza ciò che accade ai e nei nonluoghi), che invece appare ingannevolmente movimentato verso il benessere, in transito perenne verso nuove chimere, ma in realtà rivolto verso un nulla affannosamente paludato dalle stesse nostre retoriche di progresso e dalle brutali presunzioni di assoggettamento e dominio che caratterizzano la nostra rincorsa verso le “cosmotecnologie” (Augé).

   Nella radice più umana del senso dell’abitare, “praticare lo spazio”, scrive lo stesso Michel De Certeau, ripreso da Augé, in realtà significa regredire, sottrarsi a queste logiche distruttive e disumanizzanti; “significa «ripetere l'esperienza esaltante e silenziosa dell'infanzia: nel luogo si è altro e si passa all'altro»”. Certo oggi si “abita” ovunque, qualsiasi spazio è antropizzato, trasformato dall’esperienza dell’uomo e dalle sue attività pervasive, ma quale spazio è davvero umano? Cos’è il diritto alla bellezza in questi luoghi-non luoghi? Cosa significa risiedere? E viaggiare in un modo sempre più asservito alle logiche dello sfruttamento intensivo e globalizzato dalla corsa ai consumi e dalla turistizzazione forzata? Spesso le nostre forme di occupazione dello spazio non danno luogo se non alla tecnica, alle forme del consumo, all’economia e alla strumentalità dei suoi scopi, alla generale fungibilità dei valori; ma è un abitare lo spazio manchevole di domesticità e di bellezza (privo cioè per sua stessa natura di stratificazioni e punti di riferimento condivisi che riguardano gli orientamenti estetici e morali, la storia e la memoria, non solo dei singoli individui, ma di comunità identificate), mutilato in via definitiva della possibilità della “differenziazione”, cioè “del riconoscimento di sé in quanto sé e in quanto altro”

   In
 fondo anche la strada che io racconto in Statale 18, una narrazione il cui modello, l’ho già detto in questa intervista, è l’etnofiction di cui scrive Augé, è uno di questi luoghi paradossali, fatti per l’impermanenza, per il passaggio, per il traffico dei mezzi, per il transito di merci e persone. Un luogo in continua rotazione, popolato di persone e di oggetti che invece assommano e moltiplicano sempre più, in mezzo a “una fitta rete di mezzi di trasporto che sono anche spazi abitati” (Augé), i luoghi della residenza, della vita, dell’azione. Tutto trasformato però in un precipitato di eventi, di abitudini e di costrutti materiali e simboli inscritti all’interno di un ordine sempre più precario, disperso in percorsi sempre più pericolosi e instabili. Anche nel caso delle contraddizioni che io ho tentato di raccontare in un libro come Statale 18, non differentemente da quelle che affrontiamo nella decifrazione dell’endiadi globale luogo-nonluogo, ogni spiegazione attuale non può sfuggire alla logica di una doppia rappresentazione tipica della prassi e del metodo dell’etnologia, esattamente come la radice che chiarifica il significato dei miti e fornisce la chiave di decifrazione delle culture di livello etnografico scaturite dalla crisi dell’era post-coloniale, la stessa che ha prodotto la mondializzazione in cui tutti viviamo.
   Ritornando al Sud, all'aspetto dei paesaggi che attraverso quotidianamente, alle realtà urbane e sociali con le quali ho maggiore consuetudine e con le quali mi confronto più da vicino, in questi decenni è stato come assistere allo sgretolamento e al crollo di un argine spazio-temporale: la gente ha sostituito bruscamente i blocchi identitari di un passato che legava ad un senso, sia pur limitato e regressivo, di comunità, alla geografia ritrosa e alla statica della vita dei paesi di cui restano i simulacri della storia e le vecchie abitazioni ora abbandonate, con un nuovo modello di relazioni veloci e atomizzate, fortemente individualizzate, rivolte ad una dispersione che si lascia assorbire totalmente dalla mobilità e che trova un catalizzatore generale nel movimento necessitato e caotico verso i centri del consumo (anche in tempi di crisi), nell'adesione alla calamita della strada, sulle cui sponde non sorgono nuove città ma piuttosto “bidonville destinate al crollo o ad una perennità putrefatta” (Augé). Un paesaggio umano e sociale al quale purtroppo, specie al Sud, tendiamo tutti ad assuefarci. Perciò questi luoghi ambigui e inestricabili che intrappolano le nostre esistenze in prisma opaco e senza ombra di bellezza, non devono restare privi di racconto: “Il racconto infine, e in particolare il racconto di viaggio, mette insieme la doppia necessità di «fare» e di «vedere» («storie di marce e di gesta sono richiamate dalla citazione dei luoghi che ne risultano e che le autorizzano»), ma rimanda in definitiva a ciò che De Certeau definisce la «delinquenza», perché esso «traversa», «trasgredisce» e consacra «il privilegio del percorso sullo stato di fatto»”.3
   Tornando alla domanda: dunque non solo nonluoghi: forse meglio oggi i “non più luoghi”, i “non ancora luoghi”, mentre più in generale va osservato, come ha rilevato dallo stesso Augé nel suo ultimo libro da poco uscito in Italia, il passaggio dai “non luoghi” ai “nontempo” quella:
«miscela esplosiva precarietà, incertezza sociale e dominio della finanza che è amplificata dalla tecnologia e dai media, vecchi e nuovi, e sta cambiando sotto i nostri occhi l'esperienza individuale e collettiva del tempo».4

e con questa deflagrazione la stessa sostanza delle nostre vite. Facendo dilagare l'incertezza, rendendo epidemico il timore di ciò che ci aspetta, con la riduzione dei tempi della vita a frattali privi di unitarietà e di prospettiva, tutti interni all’eterno presente che avvolge le nostre esistenze massificate e ormai variamente dislocate nello spazio e nel tempo.
8 maggio 2012Intersezioni --->A-B USO

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Note:
1 Mauro Francesco Minervino, Statale 18, Fandango, Roma, 2010, p. 176
2 Pierre Dupont come dire in italiano il signor Qualunque
3 Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione a un'antropologia della surmodernità, Elèuthera, 1993
4 Marc Augé, Futuro, Bollati Boringhieri, 2012