0035 [A-B USO] Mario Fillioley | Appena a sud da Siracusa

Creato il 27 febbraio 2014 da Wilfingarchitettura @wilfing
di Salvatore D’Agostino

Non-luoghi, superluoghi, iperluoghi, junkspace, generic city, anticittà, villettopoli, ecomostri, aree abusive, centri storici vs periferie sono i neologismi che la teoria urbana, in questi ultimi decenni, ha sentito l’urgenza di utilizzare per uscire fuori dagli ambiti specialistici e comunicare POP. Creando un’infinità di gadget lessicali per definire problemi complessi usando parole immediate e spendibili in pochi secondi.


Parole che il giornalismo urbano ha stereotipato trasformando la complessa geografia civica e sociale in luoghi tematici piatti e uguali. Una sorta di demenza teorica urbana che ha distrutto, se non annullato, il complesso rapporto dei luoghi con l’abitare, poiché «non si può parlare del mondo come se fosse tutto uguale» osserva Walter Siti1, non si può più parlare di luoghi e città usando tautologie critiche rassicuranti POP senza camminare a piedi e con gli occhi aperti.


Un camminare a piedi con gli occhi spalancati che ho ritrovato in un articolo2 di Mario Fillioley. In questi anni, Fillioley, ha percorso migliaia di volte la tratta che da Siracusa lo portava nella sua villetta abusiva di famiglia a pochi chilometri da piazza Duomo. Questo più che decennale andirivieni gli ha permesso di cogliere i cambiamenti che da A (villetta status symbol per i locali) si sta trasformando in B (luogo di turismo globale). Un mutamento che il teorico urbano POP avrebbe sintetizzato con le parole anticittà, abusivismo, villettopoli.




di Mario Fillioley

Abito a Siracusa, città sulla cui costa nord, quella immediatamente accessibile per la balneazione, a un certo punto venne impiantato un polo petrolchimico. La prima conseguenza fu un improvviso arricchimento della popolazione. La seconda furono i debiti e la villetta.La villetta siracusana è un po' anomala: seconda casa al mare, dista pochissimi chilometri dalla prima abitazione, anch'essa sul mare. Potendo scegliere, la villetta sarebbe stato il caso di costruirsela in montagna, sugli Iblei. Però il mare cittadino era diventato impraticabile: scarichi fognari a parte, sulla costa nord si accanirono anche i moli di attracco per le petroliere, con i relativi sversamenti, e, soprattutto durante i primi anni, le ciminiere (all'epoca poco regolamentate) ci andavano giù pesante coi miasmi. Così a un certo punto non ci fidammo più di fare il bagno ai Piliceddi o a Fondaco Nuovo, e iniziò una specie di transumanza verso le acque cristalline di Fontane Bianche.

Doppiato Capo Murro di Porco, ecco la Fanusa e poi l'Arenella: un primo tratto di mare vergine e di comode spiagge sabbiose (in città solo scogli) che da lì, superando Ognina, si estendono per tutta Fontane Bianche fino al gelsomineto della Marchesa di Cassibile. Distanza dall'abitato: circa sedici chilometri. Sedici chilometri si coprono in neanche un quarto d'ora di macchina. Perché spendere tanti soldi per costruirsi una villetta a un quarto d'ora da casa? Probabilmente intervenne il fattore status symbol: non sono più un contadino, adesso faccio l'operaio specializzato, l'impiegato di concetto, il bancario, posso permettermi i figli all'università e pure la casa al mare.
In effetti le case di villeggiatura dei nobili, quelle ottocentesche o liberty, erano tutte in contrada Isola, di fronte al porto, e si chiamavano ville. Quelle di Fontane Bianche, Ognina, Arenella, Fanusa invece no: da subito (e per sempre) si chiamarono villette, anche quando superarono in numero e dimensioni quelle nobiliari dell'isola. Un sintomo linguistico, quindi, nel senso che sì, col petrolchimico avevamo più soldi, ma nemmeno tanti. Meglio costruire a due passi da casa, allora. Perché magari così i muri li tiro su io stesso quando finisco di lavorare. La domenica mio fratello e mio cognato mi vengono a dare una mano con gli spioventi del tetto: piano terra, veranda coperta e piano rialzato. E poi, se la seconda casa è vicina, controllarla, gestirla, manutenerla sarà meno costoso e più pratico.


Villeggiare dietro casa, a pensarci bene, non è un'idea cretina: conviene. Qua fa caldo fino a novembre, e visto che è così vicina possiamo usare la villetta per la scampagnata del giorno di Pasquetta, la grigliata del primo maggio, un fine settimana di tarda primavera. Quando si chiudevano le scuole, le mogli casalinghe degli operai insieme con i ragazzi si godevano mare e giardino per ben tre mesi, e il marito poteva rincasare la sera, a fine turno, giusto qualche chilometro di macchina in più, nell'attesa che arrivassero le ferie d'agosto.


Il piano regolatore non esisteva. La Regione siciliana ci metteva un bel po' ad approvare norme e deroghe sul demanio marino, la distanza dall'arenile, la tutela del paesaggio, e nel vuoto normativo io mi tiro su la villetta direttamente sulla spiaggia. Oppure mi recinto questo tratto di scogli qua e ci faccio una scala in cemento che mi porta direttamente a mollo. La discesa a mare privata. Lo scivolo per il gommone. Un cancello sulla sabbia. Poi la normativa sulla distanza dalla costa arriva: 150 metri, la metà di quella prevista in Continente. E a ruota arrivano anche le prime sanatorie: hai visto? Te l'avevo detto io: costruisci, che niente ci fa, poi pensa Dio.


Risultato: Fontane Bianche non ha un lungomare, una piazza, un marciapiede. Solo villette. Da un lato e dall'altro della Statale 115, che è l'unica strada che la attraversa (al punto che in quel tratto la chiamiamo viale dei lidi). 

L'idillio ci mise un attimo a trasformarsi in nevrosi, e la vicinanza della seconda casa giocò un ruolo fondamentale: se la villetta è a dieci minuti di macchina, non c'è nessuna cesura tra lavoro e ferie estive, e finisce che continui a fare la spola tra il mare e la città, in continuazione e per i motivi più futili. Quindi eccoli là i siracusani, motorizzatisi da poco, in coda sulla via Elorina per andare a comprare il pesce al mercato di Ortigia e poi ritornare a grigliarselo nel giardino di Fontane Bianche. Su e giù, anche più volte al giorno.

Gli anni in cui io fui bambino e poi giovane, a ricordarseli adesso, furono pura schizofrenia. I divertimenti notturni, per esempio. Se ci trasferivamo in villetta, facevo sedici chilometri in motorino ad andare e altri sedici a tornare per una semplice passeggiata al Duomo. Allora i miei genitori, per evitare che io ogni notte rischiassi l'osso del collo su strade extraurbane poco illuminate e peggio asfaltate, decidevano che l'estate prossima basta, si rimane in città. Ma in un anno la moda cambiava, e la stagione successiva il posto in cui bisognava assolutamente essere ogni sera era il centro Frisio di Fontane Bianche. Motorino, chilometri, su e giù: mettiti il casco altrimenti ti scippo la testa, diceva mio padre.

Vabbè, poi si cresce. Vai a fare l'università fuori, e quando torni per l'estate decidi che quest'anno no, te ne stai in villetta e non ti muovi più: sdraiato sull'amaca tesa tra i due pini (com'è rasserenante l'ombra dei pini, pensano i tuoi guardandoti leggere beato). La villetta, però, mentre tu fai l'università invecchia. Non è tanto che mostri segni di cedimenti strutturali (un po' sì: nel frattempo ha già i suoi vent'anni, e oltretutto l'ha tirata su tuo padre, nei ritagli di tempo, col fratello e il cognato) quanto che è un po' trascurata. I tuoi ci vanno di meno, perché tanto voi figli scendete giusto un paio di settimane in agosto: e allora per due settimane che fai? Non vale neanche la pena di mettersi a ridipingere le tapparelle. E se all'angolo del soffitto si forma un poco di muffa, pazienza, ci pensiamo l'anno che viene.

Finisci l'università e la villetta adesso è proprio malandata. Pure i tossici si sono accorti che ci andate poco. Subite qualche furto. L'arredamento, depauperato, è diventato spartano. Il forno in pietra ha la canna fumaria otturata dagli aghi di pino (che alberi infestanti, i pini, pensa tua madre mentre la pizza si brucia). La stufa a legna ha lo sportellino rotto. Anche la pavimentazione del vialetto d'ingresso è saltata per via delle radici (mai piantare pini in una villetta, dice il piastrellista sfregandosi le mani a tuo padre che gli sta firmando il preventivo). Tutto sommato però, ogni tanto riesci a portarci una ragazza, e la casa al mare, che con l'umidità che c'è qui d'inverno fa tanto bohème, il rumore delle onde, niente tv perché se la sono fottuta i ladri, giusto un plaid per avvolgervi stretti e non morire di tisi, insomma: se non volevi combinare niente me lo spieghi che ci siamo venuti a fare tu e io qua in pieno gennaio?

La villetta assolveva questa funzione demografica di contrasto alla nascita zero. Ne assolveva pure un'altra: fare da sfogo per il nervoso di tuo padre. Perché in tutto quello stato d'abbandono una sola cosa era in perfetto ordine: il giardino. Tuo padre usava la villetta per scaricare le tensioni su piante e alberi: gli esseri viventi più inermi del creato. Non appena aveva un minuto libero, via in villetta a decespugliare, tosare erba, usare la sega a scoppio per tagliare rami (mai della dimensione giusta per la stufa: fu tentando di introdurvi uno di questi tronchi che si ruppe lo sportellino) e potare.

Grazie a lui, almeno il giardino è curato, sì, ma come lo è la testa di un bambino quando si teme possa prendere i pidocchi. La macchia mediterranea, un tempo lussureggiante su aiuole e vialetti, adesso è il monte di Venere glabro di una pornostar. Le siepi di oleandro, che seppero essere potenti schermature per gli sguardi del vicino, tuo padre, questo estroso coiffeur del verde, ha deciso che quest'anno si portano corte, a spazzola: look androgino, ti dice.

In questo eccessivo nitore del giardino, la decadenza della costruzione risalta ancora di più. Bisogna correre ai ripari. Un piccolo investimento iniziale, allora, giusto una rimessa in sesto, e poi darsi alle locazioni stagionali. Affittasi, anche per brevi periodi. Funziona. Coi soldi si riescono ad ammortizzare le spese di restauro e quelle di manutenzione. La villetta rinasce a un certo splendore (mitigato dal fatto che tuo padre continua a occuparsi del giardino). Solo che non è più casa tua. L'hai prima svuotata e poi riempita di suppellettili che non ti sono mai appartenute. Hai dipinto le pareti di un colore diverso. Sotto ai pini, al posto dell'amaca, c'è un salottino in tek scuro coi cuscini bianco écru. E se nei periodi in cui è sfitta ti sogni di portarci quella che nel frattempo è diventata tua moglie, l'ansia di sporcare, rovinare o rompere qualcosa condanna il bambino concepito in quel famoso gennaio a rimanere figlio unico.

La vita è andata avanti, la villetta ha cambiato funzione, ma per fortuna è ancora lì, solida: il mattone che mai tradì la famiglia italiana. Però tuo padre s'è fatto un po' anziano, si stanca. Il sabato ti obbliga ad andare lì insieme a lui, si siede sul muro a secco e inizia a impartirti ordini, affinché sia tu, il suo diretto discendente, a martoriare piante e siepi in sua vece. Prima di piantare la sega su un ramo d'acacia, esiti. Guardi tuo padre, assiso su quel trono di pietra, e speri si intenerisca. Invece lo vedi febbrile ed eccitato: un sovrano che comanda al boia l'esecuzione. Però che ci puoi fare? È tuo padre, gli devi ubbidienza. Che la pianta soffra il meno possibile, almeno.

Allora, mentre compio questa specie di deforestazione autunnale azzerando qualsiasi forma di vita vegetale a colpi di decespugliatore, mentre abbasso di altri quattro centimetri la siepe di oleandro e mi ritrovo faccia a faccia col figlio del vicino, obbligato come me dal padre a potare la stessa siepe dal lato opposto, mentre ci guardiamo l'uno negli occhi dell'altro e ci indichiamo vicendevolmente col mento il nostro rispettivo genitore, seduto sul muretto a secco che ci cazzìa perché non stiamo tagliando bene, non stiamo tagliando abbastanza, non ci stiamo mettendo la giusta dose di ebbro furore, mentre ci sorridiamo complici portandoci l'indice all'orecchio come a significare: possono dire quello che vogliono, perché tanto col rumore che fa ‘sto coso non sentiamo niente, mentre il mio terreno, il mio giardino, la mia casa sfumano nei suoi e i suoi nei miei fino a confondersi in un tutto indistinto, sento una specie di afflato, un senso di appartenenza alla comunità siracusana con cui da sempre fatico a venire a patti, e inizio a farmi domande che, se potessi, mi poterei volentieri via dalla testa.

Noi cittadini di questa poco civica città, nel fregarcene di piani regolatori e di distanze dalla costa, nel costruirci a nostro uso e consumo villette sul mare cui abbiamo freudianamente affidato il compito di risarcirci dalla perdita di un altro mare (quello della costa nord), eravamo, siamo stati, veramente nel torto? Abbiamo davvero perpetrato degli abusi edilizi? Abbiamo peccato contro le nostre stesse risorse?

Prima che le villette mutassero destinazione d'uso, da seconde case a foresterie, io avrei risposto subito di sì, senza esitazione. Avrei aggredito chi mi avesse posto una domanda tanto stupida e gli avrei sventolato sotto al naso la piantina catastale della mia villetta, comprata da un vecchio e ligio professore di matematica, individuo dalla moralità specchiata, in regola con le cubature, le concessioni, le distanze. Avrei tacciato tutti gli abusivisti di scempio, li avrei presi per miopi e ignoranti, gretti, incapaci di comprendere come, devastando la costa con le loro costruzioni, avessero privato se stessi e la città intera dell'unica vocazione economica in possesso del nostro territorio: il turismo.

Invece qui, avvolto da una nuvola di fogliame che si stacca da queste piante che mio padre, pieno di un odio di cui non riesco a comprendere l'origine, mi incita a massacrare, penso che non lo so più se è così. Da quando anch'io, come un sacco di siracusani, affitto la mia villetta ho dovuto farci i conti: siti, portali, agenzie, tour operator. Tutti richiedono case sul mare. La mia viene spesso scartata perché il mare dista, a piedi, circa trecento metri. Una passeggiata di meno di cinque minuti.«Quali sono le case che affittate di più?», ho chiesto alle agenzie con cui lavoro di solito.
«Quelle sul mare».

«Ma la mia è sul mare. Le verande si affacciano sul faro, le terrazze guardano il golfo».

«Non hai capito: sul mare significa che apri la porta e cadi in acqua».

«E qual è la zona più richiesta?».

«Fontane Bianche».

Siracusa negli ultimi anni ha avuto un'esplosione turistica: calo di presenze sul Continente, controtendenza assoluta nella mia città, e, per quel poco che la mia (assai circoscritta e nient'affatto scientifica) microindagine via mail ha svelato, l'esplosione di Siracusa come località balneare per famiglie e piccole comitive sembra legata a questa capacità capillare di offrire alloggi direttamente su scogliere e arenili.

Francesi, tedeschi, russi, belgi, danesi, svizzeri, inglesi, e poi veneti, friulani, lombardi, emiliani: praticamente tutti, compresi gli unni e i visigoti, cercano su internet villette sulla spiaggia o con la discesa a mare privata. Come funziona allora questo abusivismo edilizio che deprechiamo e condanniamo da decenni? Sento il ronzio del decespugliatore che mi fracassa i pensieri e me li fa tutti ispidi: vuoi vedere che quando l'abusivismo serviva a risarcire noi stessi dai veleni del petrolchimico era una cosa da terroni incivili, malandrini in ogni molecola del loro Dna, e ora, invece, che serve a rendere più comode le ferie del brianzolo col Fatto Quotidiano sotto al braccio non è poi così male?

Spengo il decespugliatore e chiedo al figlio del vicino se anche loro affittano.

«Sì – mi dice –, ma purtroppo solo nei picchi di stagione».

A suggerirci di affittare, sia a me che a lui, è stato un altro vicino, con la casa sugli scogli. Anni fa, la villetta di questo vicino doveva addirittura essere demolita, c'erano le palle di ferro pronte, poi non se ne fece più niente. Lui, nelle more tra una sanatoria e l'altra, prese ad affittarla, e adesso è sempre piena, anche in autunno. Piena di gente molto alta e molto bionda: padri, madri, bimbi tutti bellissimi e tutti di un fototìpo catarifrangente, specie di Obelix che da piccoli devono essere caduti dentro la pentola della protezione solare cinquanta: discendenti di una stirpe vichinga residente in nazioni dove case costruite in una posizione come quella che hanno affittato qui non sono concepibili neanche in sogno.

Di questo nostro obbrobrioso paesaggio costiero balneare, dunque, non è cambiato nulla, se non i suoi fruitori.

«Però è cambiato lo Zeitgeist», dico pieno di un entusiasmo da eureka al figlio del vicino.

«E che è? – s'informa quello – Un diserbante? Pure tuo padre è fissato coi diserbanti?», mi chiede.

«No. Cioè sì, pure mio padre è fissato, ma io intendevo dire che, anche se tutto è rimasto identico, adesso ci ritroviamo in un contesto sociale talmente mutato da avere invertito i fattori decisivi per risultare vincenti nell'offerta turistica: fai schifo, mia cara costa siracusana, sei devastata, ma quanto sei comoda, con queste tue villette che saltano direttamente in acqua».

«Senti, fermiamoci, che mi fa male la spalla». 

Il giardinaggio è così: stanca il corpo e non appaga la mente. Pure io mi fermo. Ma non provo sollievo. Penso che se funziona in questo modo, allora significa che l'obbrobrio è obbrobrio finché lo guardi da fuori, e se invece lo guardi da dentro casa tua diventa bellezza. Ecco che allora tutti vogliono diventare proprietari, fosse anche solo per una settimana, di una bella casa abusiva.

«Secondo te perché?», chiedo al vicino mentre i nostri genitori si lamentano tra loro di quanto siamo sfaticati, della nostra evidente inettitudine al giardinaggio.

«E che ne so?», mi risponde lui.

«Te lo dico io perché», gli faccio. «È la linea della palma che è salita, che sale ancora, che salirà all'infinito».

«La palma?», dice lui guardando il giardino. «La palma mica è salita: sono tre anni che il punteruolo rosso ce le ha distrutte tutte, le palme, guarda qua». E mi indica due tronchi senza più foglie: due prepuzi perfettamente circoncisi e incappucciati da un contraccettivo in nylon verde, intriso di insetticida. Poi riaccende il decespugliatore. Mio padre è sempre seduto sul muro a secco. Mi sta guardando con la faccia delusa di uno che aveva pagato per vedere Tyson che stacca a morsi le orecchie e si è ritrovato al Bol'šoj tra piroette in tutù: finiscilo! abbattilo! mi sta gridando con gli occhi. Quando finalmente mi autorizza a spegnere il decespugliatore, io e il figlio del vicino ci stringiamo la mano quasi sotto alle palme. Alzare di nuovo lo sguardo verso i due totem è inevitabile:

«Certo che però ‘sto punteruolo rosso sarebbe proprio il giardiniere ideale dei nostri genitori», ci diciamo all'unisono prima di separarci

27 febrbaio 2014Intersezioni ---> A-B USOCOMMENTA _________________________________________ 
Note: 
1 Pubblicato grazie l'autorizzazione dell'autore, articolo apparso sul Sole 24 ore, Fenomenologia della villetta, 24 febbraio 2014 (ndr il titolo 'fenomenologia' mi fa amare sempre di più i titolisti dei giornali)
2 Intervista di Goffredo Fofi a Walter Siti, Le maschere del presente, Lo straniero, ultimo aggiornamento 31 luglio 2012*

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