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Creato il 01 gennaio 2016 da Malvino
«Anche
se in vita era un gran pezzo di merda, di un morto non si può dir
altro che bene, perché il piacere che ci ha dato levandosi dai
coglioni è tale da obbligarci a un tocco di gratitudine, e tacere
per non doverne dir male è l’oblazione minima, mentre a non saper
proprio star zitti è indispensabile riconoscergli qualche merito,
che a frugar bene nella merda si trova sempre...».
Si
tratta dell’incipit di un coccodrillo che ho scritto due o tre anni
fa in morte di ***, e che tuttora riposa nell’apposita cartella in
attesa di essere postato su queste pagine, quando sarà il momento,
ma che qui mi sembra possa tornar buono anche a spiegare la ragione
che ci impone il «nihil nisi bonum» anche su alcuni – pochissimi,
in realtà – che sono ancora in vita: è che sono inoffensivi come
lo sono i morti, e anche a loro d’altronde non manca qualche
merito, che quasi sempre basta a che si taccia di tutto il resto.
Così
mi pare accada per Luca Medici, cui non si può negare il merito di
far ridere, che a tutti sembra poter bastare per sospendere ogni
giudizio critico sulle cause e sugli effetti del riso che suscita,
come fosse sconveniente, nella duplice accezione del termine
(inopportuno fino disdicevole e infruttuoso fino al
controproducente). Chi è morto non dà più fastidio, requiescat in
pace, parlarne male è così inutile che arriva a sembrare ingiusto,
perfino odioso: così con la comicità del Checco, perfettamente
innocua, perché studiata al meglio per non ferire alcuno.
Si
obietterà che, se fa ridere, la comicità ha necessariamente da
avere un bersaglio, e quella del Checco ne ha tanti, a destra e a
sinistra, in alto e in basso, davanti e dietro, e tutti vengono
colpiti, per giunta con la forza di una franca incorrectness. È
vero, ma il trucco che la rende inoffensiva sta nel fatto che il
colpo si compiace oltremodo dell’esser becero: in questo modo, e
nello stesso tempo, a un certo pubblico è offerta l’occasione di
un liberatorio sfogo a quello stesso tratto di becerume, mentre al
bersaglio è dato il miglior agio di potersi difendere per
l’esplicita bassezza del colpo.
Il
caso più evidente è quello della canzoncina dedicata agli
«uominisessuali», scritta nel modo giusto per poter piacere a
tutti: agli omofobi, che nel «cozzalone» che definisce
l’omosessualità «una brutta malattia» vedranno l’innocente
naturalezza disintermediata dall’ossequio al conformismo che ha
sdoganato «un’altra sessuità», esigendo l’equiparazione dei
gay a «persone sani»; ma anche agli stessi gay, oltre a chiunque
ritenga che i gay siano «gente tali e quali come noi, noi normali»,
perché l’attacco è neutralizzato dalla sua stessa sguaiataggine,
ritorcendosi peraltro contro chiunque abbia intenzione di sferrarne
uno simile.
Se
si può far fatica a riconoscere questo espediente nella gag della
durata di una canzone o di un’imitazione, esso diventa di piana
evidenza nella trama del lungometraggio, che trova immancabilmente il
suo lieto fine nel ravvedimento dello zotico che per un’ora e mezza
ha squadernato quanto di meglio sapesse offrire in cinismo ed
egoismo, in sessismo e razzismo. Ed è qui che la comicità di Luca
Medici rivela il suo punto debole: non sapersi accontentare del far
cassa in equilibrio sul sottile filo dell’ambiguità, che ancora
miracolosamente regge, per l’insana aspirazione a farsi Partito
della Nazione.
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