Dobbiamo parlare
di Sergio Rubini
con Sergio Rubini, Isabella Ragonese, Fabrizio Bentovoglio, Maria Pia Calzone
Italia, 2015
genere, drammatico, commedia
durata, 98'
All'inizio degli anni 90 la critica italiana per sottolineare i difetti
della nostra cinematografia coniò un espressione "cinema da due camere e
cucina" che ironizzava sulla tendenza di registi e sceneggiatori di
collocare le proprie storie in ambienti casalinghi modesti e angusti,
che finivano per diventare il simbolo della mancanza di prospettive e
di una certa forma di indulgenza che caratterizzava le produzioni di
quel periodo. Si trattava, nella maggior parte dei casi, di un cinema
che, nel tentativo di scrollarsi di dosso i fantasmi del suo glorioso
passato finiva inesorabilmente per ripiegarsi su se stesso. Ebbene,
questa
boutade c'è tornata in mente durante la visione del
nuovo film di Sergio Rubini che il regista e attore pugliese ha
presentato al festival di Roma in una proiezione presieduta dal
direttore della manifestazione Antonio Monda, garante della qualità di
un'opera che attraverso i suoi collaboratori aveva in qualche modo
contribuito a selezionare. In un primo momento pensavamo che a motivarne
l'idea fosse stata appunto l'ambientazione della storia, girata
interamente all'interno di un attico romano affacciato sul centro di
Roma, e poi il soggetto della vicenda, centrato sullo scontro verbale
che si scatena tra due coppie d'amici che si amano e si odiano nell'arco
di una nottata trascorsa a rinfacciarsi tradimenti e ipocrisie.
E
a poco era servito, nel tentativo di sconfessare questa sensazione, il
paragone lusinghiero - in termini di intenti e aspirazioni - con il
"Carnage" del grande Roman Polanski; perché, pur nella corrispondenza
dei temi e della struttura narrativa, il film di Rubini purtroppo non
possedeva la capacità di sublimazione che aveva permesso al cineasta
polacco di superare la pesantezza del testo con quel sarcasmo e
quell'cattiveria che nel lungometraggio di Rubini si trasformano nel
compiaciuto riconoscimento della propria intelligenza e perspicacia. A
mente fredda, si fanno strada più modestamente titoli come "Maldamore"
di Angelo Longoni e "In nome del figlio" di Francesca Archibugi che di
"Dobbiamo parlare" sembrano una sorta di anticipazione e che, nella
continuità di luogo, situazione e personagg,i finiscono per alimentare
la sensazione di un ritorno a quei difetti del cinema italiano che i
critici si divertivano a prendere in giro con l'espressione di cui
parlavamo in apertura. Fortunatamente, non è così, perché come abbiamo
avuto modo di constatare proprio qui a Roma con il film di Mainetti (Lo
chiamavano
Jeeg Robot), ultimo arrivato di una nuova
generazione di registi, le prospettive del nostro movimento sono
tutt'altro che malvagie. Eppure dispiace che sia proprio sia proprio
Rubini a fornire il destro per rammentarci di quanto ancora ci sia da
lavorare per disfarsi di ciò che non funziona, perché il regista
pugliese si era ritagliato un posto di rilievo tra gli autori della sua
generazione in virtù di una serie di titoli (da "La terra" a "L'amore
ritorna" al bellissimo e sottovalutato "Colpo d'occhio") tanto personali
quanto moderni nel ritratto della nevrosi dell'uomo contemporaneo.
A
tradire la riuscita di "Dobbiamo parlare", per quanto possono valere
questo tipo di distinzioni, non sono i personaggi e con loro, le
interpretazioni che ne danno Maria Pia Calzone (una rivelazione qui e
altrove) Isabella Ragonese, Fabrizio Bentivoglio (che nel suo accento
romano però risulta un poco sopra le righe) e lo stesso Rubini che dopo
"Colpo d'occhio" si ritaglia un altro ruolo di artista e intellettuale;
quanto piuttosto le forzature che riguardano sia il meccanismo narrativo
che da vita al
valzer di contrapposizioni e punti di vista orchestrati per l'allucinato
rendez vous ,
troppo scoperto e calcolato per risultare credibile, sia la
sceneggiatura, che nel voler essere la cartina di tornasole della
complessità politica sociale ed economica della nazione finisce per
darne un ritratto stereotipato. La conseguenza più evidente è quella di
azzerare il fuori campo a cui vorrebbero rimandare i costumi e la
mentalità dei personaggi: quel mondo così poco sommerso di cui ogni
giorno leggiamo e che l'opera ambisce a ritrarre con esattezza.
Ipse dixit: ciò che rimane è ancora una volta la dimensione ristretta
due camere e cucina del succitato tormentone.
(pubblicato su ondacinema.it)