Junun
di Paul Thomas Anderson
con Johnny Greenwood
Usa, 2015
genere, musicale, documentario
durata, 54'
Quando si parla di uno come P.T Anderson è necessario,
innanzitutto, essere cauti nel dare giudizi a caldo, secondariamente bisogna in
ogni modo evitare la tentazione di inserire una sua opera in una categoria
precisa. Questo discorso vale, a maggior ragione, per “Junun”, che dopo una
visione oculata difficilmente potrebbe essere catalogato ed archiviato come
documentario. Se della forma documentaria ha infatti l’istintività del vedere
cosa succede, il regista americano rompe completamente con la tradizione
evitando quasi sempre il parlato, sì ridotto all’osso ma proprio per questo che
va a sublimare una cultura millenaria come quella indiana – “Io non credo in un
solo Dio, credo in tutti gli dei di tutte le religioni”: particolarmente
interessante che un’operazione del genere venga fatta da uno che ha sempre
gettato sguardi tra i più lucidi sulla contemporaneità occidentale -.
La macchina da presa amatoriale quindi segue in maniera
sporca – eppure anche qui, a sprazzi, compaiono alcune peculiarità del manierismo
di Anderson, come la luce esterna che permea gli spazi interni e l’onnipresenza
dei volti – la collaborazione tra il chitarrista dei Radiohead Jonny
Greenwood e Shye Ben Tzur per la
composizione dell’album appunto intitolato “Junun”.
L’intento/esperimento di Anderson sembra essere statodi mettere da parte il cinema per
lasciare che la musica - all’interno della quale si trovano commistioni di
sonorità contemporanee e ritmi atavici - sia l’assoluta protagonista:
nell’epoca della riproposizione del concerto di “The Wall” in 4k, un film come
“Junun” rappresenta un rischio che pochi hanno il lusso (e il coraggio) di
prendersi.
Antonio Romagnoli