Virtuosismo visivo e autentica crudeltà. Due aspetti che collimano e convivono (vividamente) nell’ultima pellicola diretta da McQueen, il miglior film dell’anno.
Solomon Northup è un musicista nero e un uomo libero nello stato di New York. Ingannato da chi credeva amico, viene drogato e venduto come schiavo in Louisiana. Da questo momento comincerà un incubo lungo 12 anni, nel quale il protagonista conoscerà sulla propria pelle la crudeltà degli uomini e il tragico destino della sua gente. A colpi di frusta di padroni deboli e dannatamente degeneri, Solomon proverà a restare vivo e a rimpossessarsi del suo nome.
La storia è quella di Solomon Northup. L’anno è il 1841. E Steve McQueen realizza un altro capolavoro (dopo Hunger e Shame). Si ha l’impressione di un film gonfio di simbolismi, metafore che saltano all’occhio e fuori dallo schermo cinematografico. Il regista britannico coinvolge e convince con una storia lunga 12 anni, che si sviluppa nella Louisiana dello schiavismo e che mette a nudo la crudeltà (del corpo e della mente) con una regia che alterna asciuttezza e ritmo, che somma staticità e oppressione. Uno stile che si immerge nelle piantagioni e si sofferma sui volti, sull’ambientazione e sulla drammaticità di una vicenda che denota ambiguità e normalità. Normalità che trova sfogo nella situazione insopportabile (lo schiavismo) per lo spettatore e per il protagonista (nato libero e ingannato da due finti imprenditori artistici), mentre l’ambiguità trova libera espressione nelle notti della Louisiana, nelle quali prevaricazione e brutalità si sommano in atteggiamenti necessari e giustificati.
12 anni schiavo (12 Years a Slave, 2013) è la cartina tornasole di un periodo storico abominevole, che trova il suo ideale specchio nel ruolo interpretato da Fassbender (in odore di Oscar): un diabolico padrone, che trova “piacere” e espiazione del proprio peccato (invaghirsi di Patsy, il suo “oggetto” più efficiente) nel percuotere e intimidire brutalmente le sue proprietà. Una pellicola che incarna (diligentemente) il pensiero e l’ossessione di McQueen: lo svilimento progressivo del corpo sottomesso alla violenza del mondo. Ed è proprio questo corpo (martoriato, frustato e ridicolizzato), che trova la migliore espressione per un film virtuoso, che non liquida la complessità del periodo storico narrato, ma che lo rende ancora più vero, autentico, sofferente ed empatico. 12 anni schiavo è un’opera complessa, ben costruita e che trova nell’interprete principale (Chiwetel Ejiofor) un uomo destinato a lottare, a vivere piuttosto che sopravvivere. McQueen predilige la denuncia esplicita, esibita e il suo intento è risvegliare la coscienza intorpidita dello spettatore. E ci riesce, perché pur non ricercando la commozione (e la lacrimuccia facile), la trova grazie a riprese emblematiche, cariche di tensione, di “giustificato orrore” e di brutale verità storica. Uno stile che non rivela autocompiacimento, ma interesse a mostrare allo spettatore, con intensa partecipazione, una serie infinita di prevaricazioni, che smuovono le coscienze.
Saltando da piani sequenza “bestiali” (Solomon appeso a un albero e in equilibrio sulle punte dei piedi per evitare di soffocare nell’indifferenza generale) a dettagli di una pura bellezza artistica, McQueen riesce nuovamente a coinvolgere in una spirale vertiginosa e cruda, nella quale il corpo è nuovamente al centro dello studio cinematografico del regista. Difatti dopo aver descritto l’oppressione e l’isolamento in Hunger (2008) dal punto di vista carcerario e in Shame (2011) dal punto di vista della dipendenza sessuale, in 12 anni schiavo prosegue la sua ricerca stilistica in favore di una messinscena virtuosa, brillante, aderente al periodo storico e più accessibile allo spettatore. Perché McQueen dimostra (nuovamente) di saper girare in modo illuminante; un regista che predilige l’ostentazione artistica di sequenze cariche di empatia, piuttosto che la stucchevole stereotipia.
Attorniatosi da un cast da Oscar (Chiwetel Ejiofor, Michael Fassbender, Benedict Cumberbatch, il padrone “comprensivo”, ma figlio del suo tempo, e una fantastica Lupita Nyon’go), McQueen coinvolge ed emoziona ed, esibendo una fotografia naturalistica e una colonna sonora (di Hans Zimmer),che innalza i toni drammatici della vicenda, realizza una pellicola che tocca il cuore e si eleva a trattato crudele di un’epoca abominevole. Chapeau!
Uscita al cinema: 20 febbraio 2013
Voto: *****