12 Anni Schiavo, USA, 2013, regia di Steve McQueen
Recensione di Alberto Bordin
Non poteva non vincere l’Oscar; non poteva per l’assoluta maestria di cui Steve McQueen ha dato prova nelle sue pellicole, né per il soggetto che ha avuto il coraggio di raccontare, né (diciamolo) per il capo del governo americano oggi vigente. Ed è indubbiamente un grandissimo film, dove il film è quell’arte che è tra le sorelle la più mimetica del reale, dinamica come il teatro eppure più illusoria, rappresentativa come la pittura eppure temporale, emotiva come la musica eppure visiva. E McQueen fa tesoro di tutto ciò in una rappresentazione di estrema potenza e puntualità tecnica, dando fondo a tutta la sua abilità per renderci testimoni delle pagine autobiografiche di Solomon Northup; e questa è l’ultima grande carta che gioca nella sua mano: si tratta di una storia vera.
Eppure c’è qualcosa che stride violentemente. Certo si tratta della sua violenza, ma la violenza da sola non basta a spiegarlo. La violenza è stridente, ma non per questo inopportuna; proprio il cinema, che per la sua natura è l’arte che più di ogni altra sa ferire il cuore e la mente rappresentando il male, è stato il luogo di grandi opere nonostante la violenza e di altre altrettanto e più grandi proprio perché violente. Vedendo in questo film la schiena di una donna aprirsi – letteralmente – al fischio di ogni frustata, è immediato il rimando a un’altra schiena di un altro uomo, che sulla pellicola solo pochi anni fa venne divorata con furia dai flagelli dei romani – e certo sarebbe interessante vedere ancora quanto lo scalpore e l’indignazione che suscitò allora rispetto a questa seconda. Ma lo scarto sta certo in un senso, nella ragione della violenza rappresentata, che è resa di nuovo presente e vera, facendola accadere ogni volta che la pellicola è riprodotta, ad ogni nuovo giro di bobina; in fine bisogna sempre rispondere a una domanda: “perché?”.
Flannery O’Connor diceva: “ogni volta che mi è chiesto perché noi scrittori del sud abbiamo una tale predisposizione a scrivere cose tanto raccapriccianti, rispondo che è perché sappiamo ancora riconoscerle”. Raccontare il grottesco, scriverne, farne film per ricordare che è esattamente questo, grottesco, là dove molti non hanno più la facoltà di “riconoscerlo”. E in effetti non c’è altro modo di leggere i suoi racconti se non in questa cosciente rappresentazione del vero, il male rappresentato perché il male esiste; i racconti della vita valgono perché sono questo: vita.
Ma per quanto sia vicino a questa prospettiva, McQueen ne è anche estremamente distante. Non è giusto dire che la bruttezza che McQueen inscena sia un brutto compiaciuto, anzi colpisce spesso per il “gusto” nel porlo in scena; in una veloce conta sono assai poche le sequenze in cui la violenza carnale è rappresentata in modo metodico, con coltelli che affondano nei ventri non visti, vergate e frustate che colpiscono schiene nascoste, sfortunati impiccati che si dibattono scomparendo lentamente dallo schermo, e pure il sesso, abilmente, non è condito di eros, e gli unici nudi che si vedono, benché frequenti, sono spogliati di ogni valore eccetto la loro cruda nudità. Ma quel che ferisce davvero sono gli sguardi morbosi, le parole cattive, la superficialità, la malvagità stolida, i silenzi interminabili, la negligenza, le menzogne, i taciti accordi, la disonestà degli individui, e tutto ciò che queste cose affermano – e che in conclusione è l’unica cosa che vince – ovvero la sconfitta.
Nulla si salva nel film di McQueen, non c’è scampo, non c’è salvezza o redenzione alcuna, per nulla e per nessuno; il grottesco regna, ma perché non c’è altro su cui porre l’occhio e la mente. È solo la fortuna a porre termine alla sofferenza e pure quella non pare equa; giunge in ritardo, arriva neutrale, rimane irrisolta e di molte cose inconcludente. Non si salva la morale, non vincono gli affetti, non sopravvive un solo ideale e di certo non c’è spazio per la fede. Il protagonista, il solo che sembri vincere qualcosa in questo terno al lotto di violenze, è forse il più sconfitto di tutti. Segnato così profondamente nell’anima che nemmeno il suo volto riesce ad assumere una forma diversa da quello dello schiavo di cotone della Louisiana, che si sente costretto a chiedere perdono di essere stato rapito e schiavizzato sentendo su se stesso la colpa.
Un mondo senza redenzione è l’inferno in terra. E se davvero è questa l’unica prospettiva, l’unica sostanza di quel mondo – del mondo – allora cosa si può ottenere di più nel soffermarvisi? Perché se il mondo è davvero un inferno, allora non c’è vantaggio nel rappresentarlo, perché l’inferno porta solo inferno.