«Poiché la mia è la storia di un uomo nato in libertà, che poté godere dei benefici di tale condizione per trent'anni in uno Stato libero e che poi fu rapito e venduto come schiavo e tale rimase fino al felice salvataggio avvenuto nel mese di gennaio del 1853, dopo dodici anni di cattività, mi è stato suggerito che queste mie vicissitudini potrebbero rivelarsi molto interessanti per il grande pubblico.»
Inizia così l'autobiografia dei dodici anni di schiavitù di Solomon Northup, negro nato libero nello Stato di New York nel 1807 e divenuto poi schiavo nel 1841.
Era un negro Solomon, un negro padre di famiglia, nato e cresciuto libero. Era un negro onesto, alfabetizzato, suonatore di violino. Quando con l'inganno viene fatto prigioniero è costretto a fingere di non ricordare più chi è stato fino a quel momento. Rinuncia a spiegare la sua storia, per evitare frustate massacranti. Diventa un negro all'apparenza come gli altri, come quelli che non sanno leggere, come quelli nati in cattività e venuti su come bestie. Tiene Solomon chiuso dentro di sé, per gli altri è sempre e solo Platt. Suona il violino, questo sì, ma dichiara sempre di essere un analfabeta, passa le sue giornate a lavorare il cotone, viene frustato senza alcun motivo, è costretto dal padrone a frustare gli altri suoi compagni di piantagione, rischia di essere ucciso più volte dai padroni Tibeats e Epps, fugge, piange, si dispera, sognando sempre di poter riabbracciare la sua famiglia.
La schiavitù, come l'Olocausto, è uno di quei temi che mi lascia sempre miliardi di brividi addosso, di domande retoriche stupide e banali, sempre, in ogni suo lato, in ogni sua sfaccettatura. Quella racchiusa in questo libro (e film) non è la storia della schiavitù, è bene saperlo. Questa è semplicemente la storia di Solomon e della schiavitù, per come l'ha vissuta lui.
Man mano che scrivo questi pensieri mi accorgo di cambiare idea: forse anche il libro merita, come il film, di essere letto, anche se è un po' noioso.
Quelle sono le parole di Solomon, proprio le sue. È lui che ha sentito sulla sua schiena lo schiocco della frusta, lui che ha visto Patsey più volte umiliata, picchiata, violentata, lui che ha visto Eliza venir privata dei propri bambini, lui che ha vissuto per 12 anni lontano dalla sua famiglia, prigioniero di padroni diversi, più o meno crudeli, ma comunque padroni. È Solomon che per dodici anni ha saputo attendere il momento giusto per riavere indietro la sua libertà perduta, è lui che ha tentato di fuggire temendo più la furia dell'uomo bianco che i serpenti e i coccodrilli delle paludi. Lui. Non era uno scrittore Solomon, perciò non lo si può incolpare di aver scritto un'autobiografia ripetitiva e descrittiva, solo a tratti piena d'azione. D'altra parte che azione potevo aspettarmi da un uomo restato schiavo per dodici, lunghissimi, anni? È la sua storia, quella vera, senza effetti speciali o inquadrature meravigliose. Una storia vera, drammatica ai nostri occhi, eppure privilegiata agli occhi di tutti quei negri come lui, che schiavi sono nati e schiavi sono morti.