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12 luglio 1981 | Philip K. Dick c'è una sola via d'uscita: vedere tutto come qualcosa di fondamentalmente comico

Creato il 22 luglio 2014 da Wilfingarchitettura @wilfing
di Salvatore D’Agostino
Nelle ristampe di Lolita, Vladimir Nabokov, aggiunse una nota alla fine del romanzo, per rintuzzare le veemenze dei critici più corrosivi scrivendo "«realtà» (una delle poche parole che non hanno alcun senso senza virgolette)"1 e ad un’incalzante Alberto Arbasino che, in veste d’intervistatore, chiedeva: “Ma insomma, cos’è Lolita, in realtà?” rispondeva "Che domande… che domande… inutili… Sarebbe meglio rilassarsi, di fronte a quel libro che è soltanto una storia, e non cercarvi un “messaggio” che non c’è… La morale del libro è il libro stesso. Volete spiegarvi la sua morale? Leggetelo!".2

Leggendo i libri di Philip K. Dick serve ricordarsi dei consigli di Nabokov, bisogna mettere tra parentesi la parola ‘realtà’ ed evitare di cercare una ‘morale’.

Philip K. Dick rappresenta un'idea di letteratura fondata sulla moltiplicazione dei diversi piani di realtà. Estraneo all'insegnamento morale, Dick smantella con gioiosa iconoclastia i luoghi comuni e le convenzioni letterarie della letteratura borghese, fondata sul ‘messaggio del romanzo’. Costruisce trame dove il tempo è spesso fuori dai cardini, dove la realtà è ‘sempre una bolla di sapone’, dove l’uomo non è mai un eroe di una elitè galattica ma vive una costante difficoltà ad adattarsi al mondo:

«Se volete adattarvi alla realtà, leggete Philip Roth, leggete gli scrittori di best-seller, - scrive in questo testo che vi ripropongo - quelli dell'establishment letterario di New York. Ma adesso state leggendo fantascienza, e io la scrivo per voi. Voglio mostrarvi quello che amo (i miei amici) e quello che odio con tutte le mie forze (le cose che succedono loro).»
Per Philip K. Dick la fantascienza è un romanzo di idee che decostruisce il tempo, lo spazio e la realtà. La fantascienza non è mimetica del mondo reale, è un’idea di dinamismo.

Ripropongo uno scritto apparso sulla collana Urania, a quel tempo diretta da Fruttero & Lucentini nel numero 896 del 12 luglio 1981, qualche mese prima che Philip K. Dick morisse a causa di un collasso cardiaco il 2 marzo 1982. Scritto appena prima di iniziare la querelle con Ridley Scott e il suo rifiuto di 400 mila dollari per non voler adattare il suo romanzo Do Androids Dream of Electric Sheep? alla sceneggiatura del film Blade Runner che uscirà nelle sale il 25 giugno 1982, tre mesi dopo la sua morte. Dirà a Ridley Scott, non ho bisogno di questi soldi - anche se avendo sempre vissuto in perpetua indigenza gli avrebbero cambiato la vita - ho la mia macchina da scrivere, la mia musica, il mio gatto, ho tutto e non ho bisogno di nient’altro.

In questo scritto su Urania, la più longeva rivista di urbanistica ancora attiva in Italia, ripercorre la sua vita, dove, con ironica previgente coincidenza, scrive l’epigrafe della sua lapide.

È un invito per gli urbanisti del nostro tempo che amano la pervasività della tecnologia o per chi pensa di guarire le città attraverso l’architettura a leggere Dick per domandarsi:

  • Che cos'è la realtà?
  • Che cosa caratterizza l'autentico essere umano?

Per aiutare il 'vandalismo responsabile' ed evitare di credere e progettare il viaggio sicuro delle gated community dove il messaggio implicito è: siate passivi. E soprattutto cercare di “scoprire il granello del comico all'interno dell'orribile e del futile”.

Buona lettura.

12 luglio 1981 | Philip K. Dick c'è una sola via d'uscita: vedere tutto come qualcosa di fondamentalmente comico
di Philip K. Dick
   Rileggendo alcuni di questi racconti, scritti più di trent'anni fa, ripenso a un negozio di animali che si chiamava Lucky Dog. C'è una buona ragione. Ha a che fare con un aspetto non solo della mia vita, ma della vita di moltissimi scrittori a tempo pieno. Si chiama povertà.

   Adesso mi viene da ridere, a pensarci, e sento perfino un po' di nostalgia, perché sotto molti punti di vista quelli sono stati i giorni più belli della mia vita, soprattutto agli inizi degli anni Cinquanta, quando la mia carriera è cominciata. Però eravamo poveri, mia moglie Kleo e io, eravamo molto poveri. E non ci piaceva per niente. La povertà non serve a formare il carattere. Sono favole. In compenso, insegna a fare bene i conti, si contano e si ricontano i soldi. Prima di uscire per andare dal droghiere, dovete sapere esattamente quanto spendere e cosa comprare, perché se fate un errore, il giorno dopo non mangiate, e magari neanche il giorno dopo ancora.   Così, eccomi qui al Lucky Dog di San Pablo Avenue, Berkeley, California, negli anni Cinquanta, a comprare mezzo chilo di carne di cavallo macinata. Il motivo per cui faccio lo scrittore e vivo in povertà (lo ammetto per la prima volta), è che sono terrorizzato dall'Autorità, come i capufficio [sic], i poliziotti, gli insegnanti; voglio fare lo scrittore, così non dovrò dipendere da nessuno. Mi sembra sensato. Avevo lasciato il mio lavoro di direttore del reparto dischi in un negozio di musica e ogni notte, per tutta la notte, scrivevo racconti, di fantascienza e di mainstream... e vendevo fantascienza. Non mi piace molto il sapore della carne di cavallo, a dire il vero: è troppo dolce. Però mi piace non dovermi trovare dietro un bancone esattamente alle nove di mattina, in giacca e cravatta, e dover dire: In cosa posso servirla, signora? e tutto il resto. Un'altra cosa che mi è piaciuta, è l'essere stato espulso dall'Università della California per non aver voluto entrare nei Corpi di Addestramento degli Ufficiali in Riserva (accidenti, un'Autorità in uniforme e l'Autorità in persona!). E improvvisamente, mentre sto dando i 35 centesimi al commesso del Lucky Dog, mi ritrovo un'altra volta di fronte alla mia nemesi personale. Quando meno me l'aspetto, eccomi ancora una volta a dover affrontare l'Autorità. Non c'è modo di sfuggire alla propria nemesi, me n'ero scordato.


2154 San Pablo Avenue, Berkeley, Stati UnitiIl negozio ha chiuso l'11 marzo del 2011 perché polli, piccioni, pesci, conigli e tartarughenon rispettavano le norme igieniche.*   
   L'uomo dice: - Comprate la carne per mangiarla voi?

   È alto un metro e novanta e pesa centocinquanta chili. Mi guarda dall'alto, con occhi severi. Nella mia mente, mi sembra di avere ancora cinque anni, e di aver versato la colla sui pavimento dell'asilo.   - Sì, signore - ammetto. Vorrei dirgli: Sentite, io sto alzato tutta la notte a scrivere racconti di fantascienza, e sono veramente povero, ma so che le cose andranno meglio; ho una moglie che amo, un gatto che si chiama Magnificat, e una vecchia casetta che sto comprando con un mutuo di 25 dollari al mese, che è il massimo che posso permettermi... Ma quest'uomo si interessa di un solo aspetto della mia vita disperata ma piena di speranza. La so cosa sta per dirmi. L'ho sempre saputo. La carne di cavallo che vendono da Lucky Dog è solo per consumo animale. Ma io e Kleo la mangiamo, e adesso siamo di fronte al giudice, in tribunale: mi hanno pescato a compiere un'altra Cattiva Azione.    Quasi mi aspetto che l'uomo dica: Hai delle brutte abitudini.   Questo era il mio problema allora, e lo è anche adesso: ho delle brutte abitudini. Ridotto all'osso, il problema è questo: ho paura dell'autorità, ma allo stesso tempo sono pieno di risentimento, per l'autorità e per la mia paura... così mi ribello. Scrivere fantascienza è un modo per ribellarsi. Mi sono ribellato contro la Riserva dell'università, e sono stato espulso; anzi, mi hanno detto di non farmi più vedere. Me ne sono andato dal mio lavoro al negozio di dischi, un bel giorno, e non mi sono fatto più vedere. Più tardi, mi sono opposto alla guerra nel Vietnam, e sono, venuti a rovistare nei miei archivi e a rubare le mie carte, come ha riferito anche Rolling Stone. Tutto quello che faccio è causato dalle mie brutte abitudini, che vanno dal prendere l'autobus al combattere per il mio paese. Ho perfino delle brutte abitudini nei confronti degli editori: sono sempre in ritardo coi contratti (anche per questo, per esempio).   Però la fantascienza è una forma d'arte ribelle, e ha bisogno dl scrittori e di lettori con cattive inclinazioni, come per esempio quella di chiedere sempre Perché?, o Come mai?, o Chi l'ha detto? Questo atteggiamento è sublimato in alcuni temi tipici delle mie storie, come: L'universo è qualcosa di reale? oppure: Siamo davvero uomini, o solo macchine?. C'è molta rabbia dentro di me. C'è sempre stata. La settimana scorsa il mio medico mi ha detto, che la pressione mi è salita di nuovo, e che adesso sembra che ci siano anche complicazioni cardiache. Io mi arrabbio moltissimo. La morte mi fa arrabbiare. La sofferenza degli uomini e degli animali mi fa arrabbiare. Ogni volta che uno dei miei gatti muore, maledico Iddio, con tutte le mie forze. Sono furioso nei suoi confronti. Mi piacerebbe poterlo avere qui, per interrogarlo, per dirgli che il mondo è tutto un gran pasticcio, che l'uomo non ha commesso nessun peccato, che non è caduto ma è stato spinto giù, e, come se non fosse abbastanza, gli è stato fatto credere di essere fondamentalmente un peccatore, e io so che non è così.   Ho conosciuto ogni genere di persone (ho compiuto i cinquanta poco tempo fa, e questa è un'altra delle cose che mi fanno arrabbiare: quello di aver vissuto a lungo), e nella maggioranza si trattava di brave persone. I personaggi delle mie storie sono modellati su di loro. Ogni tanto, una di queste persone muore, questo mi manda su tutte le furie, mi fa impazzire dalla rabbia. Ti sei preso il mio gatto vorrei dire a Dio, e poi la mia ragazza. Cosa vuoi fare? Ascoltami, ascolta! È sbagliato quello che stai facendo.   In fondo, non sono sereno. Sono cresciuto a Berkeley, e qui ho ereditato quella coscienza sociale che poi si è sparsa per tutto il paese negli anni Sessanta, ha provocato la fine di Nixon e ha fatto finire la guerra nel Vietnam, più un sacco di altre cose buone, compreso l'intero movimento per i diritti civili. Tutti quanti a Berkeley si arrabbiano con facilità. Io una volta mi arrabbiavo con gli agenti dell'FBI che venivano a trovarmi almeno una volta alla settimana (il signor George Smith e il signor George Scruggs, della squadra politica), e mi arrabbiavo coi miei amici che erano nel Partito Comunista [ndr un articolo sulle visite dell'FBI]; sono stato buttato fuori dall'unica riunione del Partito Comunista Americano a cui abbia partecipato, perché mi sono alzato in piedi e mi sono opposto energicamente (ossia con rabbia) a quello che stavano dicendo.   Tutto questo succedeva agli inizi degli anni Cinquanta; e adesso eccoci qui alla fine degli anni Settanta, e ancora sono arrabbiato. In questo particolare momento sono arrabbiato a causa della mia migliore amica, una ragazza di ventiquattro anni, che si chiama Doris. Ha il cancro. Sono innamorato di qualcuno che potrebbe morire da un momento all'altro, e questo mi rende furioso contro Dio e contro il mondo, mi fa aumentare la pressione e accelerare il ritmo cardiaco. Così scrivo. Voglio scrivere della gente che amo, e metterli in un mondo fantastico, inventato dalla mia fantasia, non quello in cui veramente viviamo, perché il mondo in cui viviamo non si adatta alle mie norme. Lo so, lo so che dovrei rivedere le mie norme perché sono fuori del tempo. Dovrei adattarmi alla realtà. Non mi sono mai adattato alla realtà. È di questo che si occupa la fantascienza. Se volete adattarvi alla realtà, leggete Philip Roth, leggete gli scrittori di best-seller, quelli dell'establishment letterario di New York. Ma adesso state leggendo fantascienza, e io la scrivo per voi. Voglio mostrarvi quello che amo (i miei amici) e quello che odio con tutte le mie forze (le cose che succedono loro).   Ho visto Doris nella sua lotta contro il cancro sopportare dolori talmente atroci, che non riesco a crederlo. Una volta sono scappato di casa, e sono corso da un amico, letteralmente. II medico dice che Doris non vivrà a lungo, che dovrei lasciarla e dirle che lo faccio perché sta morendo. Ho cercato di farlo, non ci sono riuscito, e allora mi sono fatto prendere dal panico e sono scappato. Nella casa del mio amico ci siamo seduti e abbiamo ascoltato dischi strani (mi piace la musica strana, sia classica sia rock; mi distende). Anche lui è uno scrittore, di fantascienza; è giovane, si chiama K. W. Jeter; è un bravo scrittore. Restammo lì seduti, poi io dissi a voce alta, a me stesso, più che altro: La cosa peggiore è che comincio a perdere il mio senso dell'umorismo, sul cancro. Poi mi resi conto di quello che avevo detto, e anche lui, e cominciammo a ridere come matti.

   Così mi viene da ridere. La nostra situazione, la situazione umana, non è né triste né dotata di senso, e solo buffa. In che altro modo chiamarla? La gente più saggia sono i clown, come Harpo Marx, che non parlava mai. Se potessi vedere avverato un mio desiderio, vorrei che Dio ascoltasse quello che Harpo non diceva, e capisse perché Harpo non parlava. Non dimenticate che Harpo sapeva parlare. Solo che non voleva. Forse perché non c'era niente da dire, era già stato detto tutto. O forse, se avesse parlato, avrebbe rivelato qualcosa di troppo terribile, qualcosa di cui non dovremmo renderci conto. Non lo so. Forse potreste dirmelo voi.

Fratelli Marx, Animal Crackers, 1930
   Quella dello scrittore è una carriera solitaria. Uno si chiude nel suo studio, e lavora, lavora. Io, per esempio, ho lo stesso agente da 27 anni, e non l'ho mai incontrato, perché lui abita a New York e io in California. (Una volta l'ho visto alla televisione: è il tipo elegante. Gioca a baseball, che è la cosa giusta per un agente letterario.) Ho incontrato molti altri scrittori di fantascienza, e sono diventato amico di parecchi di loro. Per esempio, conosco Harlan Ellison dal 1954. Harlan mi odia con tutte le sue forze. Al secondo Festival Annuale della Fantascienza di Metz, in Francia, l'anno scorso, Harlan mi ha coperto di insulti; eravamo al bar dell'albergo, e avevamo intorno un sacco di gente, soprattutto francesi. Harlan mi fece a pezzi. È stato divertente come una brutta esperienza psichedelica: dovete solo controbattere e spassarvela, non c’è alternativa.

   Però voglio bene a quel piccolo bastardo. È una persona che esiste davvero. Lo stesso vale per Van Vogt, Ted Sturgeon, Roger Zelazny e, soprattutto, Norman Spinrad e Tom Disch, le due persone che stimo di più al mondo. La solitudine dello scrittore è compensata dalla fratellanza fra gli scrittori. L'anno scorso, un mio sogno durato quarant'anni si è realizzato: ho conosciuto Robert Heinlein. Sono state le sue opere, insieme a quelle di A. E. Van Vogt che mi hanno introdotto alla fantascienza, e considero Heinlein il mio padre spirituale, anche se le nostre concezioni politiche sono totalmente opposte. Vari anni fa, quando ero ammalato, Heinlein si offrì di fare per me tutto quello che poteva, e non ci eravamo mai visti; mi telefonava per confortarmi e per sapere come stavo. Voleva comperarmi una macchina da scrivere elettrica, che Dio lo benedica. È uno dei pochi, veri gentiluomini che esistano su questa terra. Non sono d'accordo con nessuna delle idee che si leggono nei suoi libri, ma questo non c'entra niente. Una volta che dovevo un sacco di soldi all'ufficio delle imposte, e non sapevo dove trovarli, Heinlein me li prestò. Ho una grandissima stima di lui e di sua moglie; ho anche dedicato loro un libro. Robert Heinlein è un bell'uomo, ha un portamento militare; si capisce che è stato nell'esercito anche solo dal taglio dei capelli. Io invece sono un contestatore, un freak, e lui lo sa; eppure ha aiutato me e mia moglie quando ci siamo trovati nei guai. È questa la parte migliore dell'umanità, queste sono le persone e le cose che amo.

   La mia amica Doris, quella che ha il cancro, era la ragazza dl Norman Spinrad. Norman ed io siamo amici intimi da anni; abbiamo fatto un sacco di cose pazze, assieme. Tutt'e due diamo i numeri, di tanto in tanto. Norman ha il peggior carattere di questa terra. E lo sa. Beethoven era lo stesso. Io non ho nessun carattere, ed è probabilmente per questo che ho la pressione così alta: non riesco a liberarmi della rabbia che accumulo dentro. Alla fin fine, non potrei dire con chi ce l'ho veramente. Invidio moltissimo Norman perché è capace di liberarsene. È un buon scrittore e un buon amico. È questo che mi da la fantascienza: non i soldi o la fama, ma buoni amici. È questo il suo vero valore, per me. Le moglivanno a vengono, le amiche pure; noi scrittori di fantascienza restiamo uniti fino alla morte, letteralmente... cosa che mi potrebbe succedere in qualsiasi momento (con mio segreto sollievo, probabilmente). Nel frattempo scrivo l‘introduzione di questa antologia, rileggendo racconti che coprono un periodo di trent'anni, e ripenso al Lucky Dog, agli anni passati a Berkeley, al mio impegno politico, e a come la Legge mi stava addosso... mi è rimasta ancora un po' di paura, ma credo che l'epoca della caccia alle streghe sia finita in questo paese (per il momento, almeno). Adesso dormo bene. Ma c’era un tempo in cui restavo alzato tutta la notte, terrorizzato, aspettando che bussassero alla porta. Alla fine mi chiesero di presentarmi alla centrale, e la polizia mi interrogò per quattro ore. Sono stato perfino convocato dall'OSI (il controspionaggio dell'aviazione) e interrogato. Era una faccenda di terrorismo nella Contea di Marin: non il terrorismo delle autorità, questa volta. Saltò fuori che la casa dietro la mia era stata comprata da un gruppo di ex-carcerati neri di San Quentin. La polizia credeva che fossimo d'accordo, io e loro; continuavano a farmi vedere fotografie di neri, chiedendomi se li conoscevo. A quel punto, non ero più neppure capace di rispondere. È stato un brutto momento per il povero Phil.

   Perciò, se credete che gli scrittori vivano la vita dei reclusi, circondati dai libri, vi sbagliate, almeno nel mio caso. Ho vissuto in mezzo alla strada per un paio di anni: droga. In parte è stato divertente e meraviglioso, in parte spaventoso. Ci ho scritto un romanzo, [ndr A Scanner Darkly, 1977)perciò non ne parlerò qui. La sola cosa veramente apprezzabile di quella vita era che la gente non sapeva che fossi un noto scrittore di fantascienza o, anche se lo sapeva, non gliene importava niente. La sola cosa che gli importava, era cosa potessero rubarmi. Alla fine dei due anni, tutto quello che avevo era sparito, letteralmente; compresa la casa. Allora presi l'aereo per Vancouver, in Canada, dove ero Ospite d'Onore alla Convention di Fantascienza, tenni una conferenza all'Università della Columbia Britannica4, e decisi di fermarmi lì. Al diavolo la droga. Avevo smesso di scrivere; era stato un brutto periodo, quello. Mi ero innamorato di parecchie ragazze prive di scrupoli... avevo una vecchia Pontiac convertibile, col motore truccato, le gomme larghe e senza freni; ero sempre nei guai, sempre con problemi che non riuscivo a risolvere. È stato solo dopo aver lasciato il Canada, ed essermi stabilito qui, nella Contea di Orange, che mi sono rimesso in sesto e ho cominciato a scrivere. Ho conosciuto una ragazza normale, mi sono sposato, abbiamo avuto un bambino, Christopher. Adesso ha cinque anni5. Mi hanno lasciato un paio di anni fa. Cose che succedono. Cosa posso dire? È come tutto il resto: o ci si mette a ridere, oppure... si chiude bottega e si muore, penso.

   Una cosa che davvero mi piace è rileggere quello che ho scritto, soprattutto i miei vecchi racconti e romanzi. È come un viaggio nel tempo mentale, qualcosa di simile all'effetto che fanno certe canzoni sentite alla radio. Per esempio, quando sento Don McLean che canta Vincent, immediatamente rivedo una ragazza che si chiama Linda, porta una minigonna e guida una Camaro gialla; stiamo andando a mangiare in un posto alquanto caro, e io sono preoccupato perché non so se avrò i soldi per pagare il conto, e Linda mi racconta di essere innamorata di uno scrittore di fantascienza più vecchio di lei, e io mi immagino (oh vana follia!) che stia parlando di me, ma poi si scopre che sta parlando di Norman Spinrad, a cui l'ho presentata io stesso.

Don McLean, Vincent, 1971
   Ricompare davanti agli occhi tutta la scena; e una sensazione strana, che senz'altro avrete sperimentato anche voi. La gente mi dice che tutto di me, ogni particolare della mia vita, della mia psiche, delle mie esperienze, dei miei sogni e delle mie paure, e riprodotto esplicitamente nelle mie opere, e che potrebbe essere dedotto con precisione da queste. È vero. Perciò, quando rileggo quello che ho scritto, come i racconti di questa antologia, faccio un viaggio nella mia testa e nella mia vita, solo che si tratta della mia vecchia testa e della mia vecchia vita. Si tratta di una abreazione, come dicono gli psichiatri. C'è il terna della droga. C'è il tema filosofico, soprattutto i grandi dubbi epistemologici che ho cominciato ad avere quando ho frequentato, per poco, l'università di Berkeley. Poi nei miei racconti e nei miei romanzi, ci sono gli amici morti. I nomi delle strade! Ci ho messo anche l'indirizzo del mio agente, come se fosse quello di un personaggio (Harlan una volta ha messo in un racconto il suo numero di telefono, cosa di cui poi si è pentito). E naturalmente, c’è costantemente il tema della musica, l'amore e l'interesse per la musica. La musica è il solo filo che da una qualche coerenza alla mia vita.
   Vedete, se non fossi diventato uno scrittore, penso che adesso mi troverei a lavorare nell'industria musicale, quasi certamente in quella discografica. Ricordo che verso la metà degli anni Sessanta ascoltai per la prima volta Linda Ronstadt, in uno show televisivo, Nessuno ne aveva mai sentito parlare, ma io ne rimasi estasiato. Vedendola e ascoltandola, capii che mi trovavo di fronte a una delle personalità più notevoli nel campo della musica rock; potevo vedere nel tunnel del tempo, fino al futuro. Più tardi, quando ebbe inciso alcuni dischi, nessuno dei quali ebbe molto successo, ma che io comprai tutti, calcolai il mese esatto in cui avrebbe sfondato. Scrissi perfino alla Capitol Records, e dissi loro che il prossimo disco della Ronstadt sarebbe stato l'inizio di una carriera strepitosa. II suo disco seguente fu Heart Like a Wheel


Linda Ronstadt, Heart Like a Wheel, 1974
   La Capitol non rispose alla mia lettera, ma non me ne importò un accidente: avevo avuto ragione, e ne ero felice. Comunque, è questo genere di cose che farei ora, se non fossi diventato uno scrittore di fantascienza. Una delle mie fantasie a occhi aperti è questa: ho scoperto Linda Ronstadt, e sono stato quello che le ha fatto firmare un contratto con la Capitol. Sulla mia lapide, avrei voluto che ci fosse scritto:
12 luglio 1981 | Philip K. Dick c'è una sola via d'uscita: vedere tutto come qualcosa di fondamentalmente comico
   I miei amici sorridono con compatimento della mia vita fantastica in cui scopro Linda Ronstadt, e Grace Slick e la Streisand, eccetera eccetera. Ho un buon impianto stereo (per lo meno, sono buoni la testina e i diffusori) e una grossa raccolta di dischi, e ogni notte, dalle undici alle cinque, scrivo con una cuffia elettrostatica Stax sulle orecchie. Il mio lavoro e il mio vizio mescolati: non si può sperare niente di meglio, dalla vita. Sono lì che scrivo, e nelle mie orecchie suona Bonnie Koloc, e nessuno può sentirlo, tranne io. La cosa buffa, è che in ogni caso non ci sarebbe nessuno a sentirlo, dal momento che tutte le mogli e le ragazze se ne sono andate da un pezzo. Questa è un'altra delle disgrazie dello scrittore: dal momento che lo scrivere richiede una concentrazione protratta tanto a lungo, tende ad allontanare mogli e ragazze, o comunque quelli con cui capita di vivere. È probabilmente il prezzo più caro che deve pagare lo scrittore. La mia unica compagnia sono due gatti. Come i miei amici drogati (ex-amici, dovrei dire, dal momento che la maggior parte, adesso, sono morti), i miei gatti non sanno che io sono un noto scrittore e, come nel caso dei miei amici drogati, preferisco così.

   Mentre mi trovavo in Francia, ho vissuto l'interessante esperienza di esser famoso. Sono lo scrittore di fantascienza più amato, in Francia: il più amato di tutti (ve lo dico per quello che può valere la cosa). Ero ospite d'onore al Festival di Metz, come ho già detto, e ho tenuto un discorso, che come al solito era privo di senso. Perfino i francesi non ci capirono niente, nonostante la traduzione.

Frammenti con traduzione in italiano dell'intervento al Metz Science Fiction Convention
Francia, settembre 1977. Qui il video integrale.

   C’è sempre qualcosa che comincia a girarmi storto nella testa quando devo scrivere un discorso; forse mi immagino di essere una reincarnazione di Zoroastro, che porta la parola di Dio. Perciò cerco di fare meno discorsi possibile [sic]. Offritemi pure un sacco di soldi per fare un discorso, e cercherò qualche pretesto per non venire, di solito una palese bugia. Però è stato fantastico (nel senso di non reale) trovarmi in Francia e vedere tutti i miei libri in bellissime e costose edizioni rilegate, invece che in formato economico. I proprietari di librerie venivano a stringermi la mano. Il consiglio municipale di Metz offrì un ricevimento per noi scrittori. C’era Harlan, come ho già detto, e Roger Zelazny, John Brunner, Harry Harrison, Robert Sheckley. Non avevo mai incontrato Sheckley, prima: è una persona molto gentile. Brunner è diventato grasso, come me. Abbiamo fatto mangiate interminabili assieme; Brunner fece in modo da far sapere a tutti che lui parlava francese. Harry Harrison intonò l'inno fascista italiano, a voce alta, il che dimostra quanto gli importi del prestigio (Harry è l’iconoclasta dell'universo conosciuto). Editori e redattori si infilavano dappertutto, e così pure i giornalisti. Sono stato intervistato dalla mattina alle otto fino alle tre e mezzo di notte, e come sempre ho detto cose che torneranno a perseguitarmi.


Mike Hodel In Conversation With Philip K. Dick, Which Aired On The Science Fiction Themed Radio Show Hour 25. Recorded In 1977, Just Before The Release Of A Scanner Darkly.
Qui un’intervista video. Qui un’intervista per un giornale tedesco.

   È stata la settimana più bella della mia vita. Credo di essere stato veramente felice per la prima volta, lì a Metz: non perché era famoso, ma perché tutta quella gente era eccitatissima. I francesi si eccitano come matti quando devono ordinare da mangiare al ristorante; e come le discussioni politiche che facevamo a Berkeley, solo che riguardano il cibo. Decidere quale strada prendere, comporta la presenza di dieci francesi urlanti e gesticolanti, che alla fine corrono via in dieci direzioni diverse. I francesi, come me e Spinrad, vedono le possibilità più improbabili di ogni situazione, il che spiega senza dubbio perché laggiù io sono cosi popolare. Prendete un certo numero di possibilità: io e i francesi sceglieremo le più assurde. Era come ritrovarsi a casa. Potevo diventare tranquillamente isterico fra gente abituata all'isteria, gente incapace di prendere decisioni o di eseguirle a causa del dramma inerente al processo stesso di scelta. Così sono io: paralizzato dall'immaginazione. Per me, una gomma a terra significa:

(a) La Fine del Mondo;(b) Un Indizio della Presenza di Mostri (anche se ne ho dimenticato il perché). 
   Ecco perché amo la fantascienza, mi piace leggerla e mi piace scriverla. Lo scrittore di fantascienza non vede solo possibilità, ma possibilità assurde. Non dice solo Ammettiamo che… Dice: Mio Dio! ammettiamo che... in un isterismo frenetico. I Marziani sono sempre sul punto di arrivare. Il signor Spock è l'unico calmo. Ecco perché Spock è diventato una specie di divinità per noi: calma la nostra normale isteria. Bilancia la tendenza dei cultori di fantascienza a immaginare l'impossibile.
Kirk (disperato): Spock, l'«Enterprise» sta per saltare in aria!Spock (calmo): No, Comandante, è solo saltato un fusibile.
   Spock ha sempre ragione, anche quando sbaglia. È il tono della sua voce, la sua soprannaturale ragionevolezza. Non è un uomo come noi: è un dio. Ecco perché hanno affidato a Leonard Nimoy un programma di pseudo-scienza alla TV. Nimoy riesce a far sembrare plausibile qualsiasi cosa. Sia che cerchiamo un bottone o il cimitero degli elefanti, Nimoy calma i nostri dubbi e le nostre paure. Mi piacerebbe averlo come psichiatra; correrei da lui, in preda alle mie solite paure isteriche, e lui le farebbe svanire.
Phil (isterico): Leonard, il cielo sta cadendo!
Nimoy (calmo): No, Phil, è solo saltato un fusibile.

   Così mi sentirei a posto, la mia pressione scenderebbe e potrei riprendere a lavorare al romanzo che devo finire ormai da tre anni.

   Nel leggere i racconti di questa antologia, dovrete ricordare sempre che la maggior parte sono stati scritti in un'epoca in cui la fantascienza era così disprezzata che virtualmente non esisteva, agli occhi dell'America. Non era molto divertente questa derisione, per noi scrittori. Ci rovinava la vita. Perfino a Berkeley (o specialmente a Berkeley) la gente ci chiedeva: Ma scrivete qualcosa di serio, voi? Non si guadagnava da vivere, erano poche le case editrici che pubblicavano fantascienza (la Ace Books era la sola che pubblicasse regolarmente libri di fantascienza), ed eravamo sottoposti a ogni genere di angherie. Scegliere la carriera di scrittori di fantascienza era un atto di auto-distruzione. In effetti, la maggior parte degli scrittori, per non parlare delle gente comune, non riusciva neanche a concepire che qualcuno potesse pensarci. Il solo scrittore non di fantascienza che mi abbia trattato cortesemente e stato Herbert Gold, che ho incontrato a una festa di letterati, a San Francisco. Mi ha dato un biglietto autografo che diceva: A Philip K. Dick, un collega. Ho tenuto il biglietto finché l'inchiostro non è svanito, e gli sono ancora grato per quell'atto di carità (sì, allora trattare con cortesia uno scrittore di fantascienza era un atto di carità). Per ottenere una copia del mio primo romanzo pubblicato, II disco di fiamma, [ndr Solar Lottery, 1955] ho dovuto ordinarlo alla City Light Bookshop di San Francisco, una libreria specializzata in materiale eccentrico e bizzarro. Perciò, nella mia mente devo conciliare l'esperienza del 1977 a Metz, in cui il sindaco mi stringe la mano a un pranzo ufficiale, e l'esperienza degli anni Cinquanta, quando Kleo ed io campavamo con cinquanta dollari al mese, e non potevamo neppure pagare la multa per un libro riconsegnato in ritardo alla biblioteca, e se volevo leggere una rivista, dovevo andare in biblioteca perché non potevo permettermi di comprarla, e vivevamo letteralmente con un cibo da cani. Però penso che queste cose voi dobbiate saperle: soprattutto nel caso che non abbiate ancora trent'anni, siate alquanto poveri e cominciate a sentirvi disperati, sia che siate o no scrittori di fantascienza, e qualunque cosa vogliate fare nella vita. E magari avete anche molta paura, e spesso a ragione. C’è gente che muore di fame in America. Le mie difficoltà finanziarie non finirono negli anni Cinquanta; ancora a metà degli anni Sessanta non riuscivo a pagare l'affitto, né potevo permettermi di portare Christopher dal dottore, di aver la macchina o il telefono. Il mese che Christopher e sua madre mi lasciarono, avevo guadagnato nove dollari, e questo e successo non più di tre anni fa. Solo l'aiuto del mio agente, Scott Meredith, che mi ha prestato i soldi quand'ero sul lastrico, mi ha permesso di tirare avanti. Nel 1971 ho dovuto letteralmente elemosinare il mangiare dagli amici. Sia ben chiaro, non voglio farmi compatire; quello che sto cercando di dirvi è che la vostra crisi, la vostra pena, ammesso che ne abbiate una, non durerà in eterno, e che probabilmente riuscirete a sopravvivere, grazie al coraggio, all'intelligenza, e al puro istinto vitale. Ho visto ragazze di strada, prive di educazione, sopravvivere a orrori che superano qualsiasi descrizione. Ho visto le facce di uomini che avevano il cervello bruciato dalle droghe, ma che ancora riuscivano a rendersi conto di quello che erano diventati; ho visto i loro goffi tentativi di sopravvivere. Come in una poesia di Heine, Atlas: Porto quello che non può essere portato. E il verso seguente dice: Nel mio corpo il cuore vorrebbe spezzarsi!. Ma questa non è la sola componente della vita, e non è il solo tema della letteratura, la mia o quella di chiunque altro, tranne forse che per gli esistenzialisti francesi. Kabir, il poeta Sufi del sedicesimo secolo, ha scritto: Se non avete vissuto qualcosa fino in fondo, non è reale. Così io lo vivo fino in fondo. Solo allora posso capirlo, non mentre lo vivo.

   Se dovessi tentare un'analisi della rabbia che mi tengo dentro, e che si esprime in tante forme sublimate, probabilmente giungerei alla conclusione che la mia indignazione nasce dal vedere quello che è privo di senso. Il disordine, la forza dell'entropia: secondo me, non c’è nessuna redenzione per quello che non può essere compreso. La mia opera, considerata complessivamente, è un tentativo di ripensare alla mia vita, a tutto quello che ho fatto e ho visto, e di dargli un senso. Non so se ci sono riuscito. Per prima cosa, non posso falsificare quello che ho visto. Vedo disordine e dolore, e questo devo scrivere; ma ho visto anche coraggio e situazioni comiche, e scrivo anche questo. Ma alla fine cosa resta? Qual è la visione complessiva in grado di dare un significato a tutto?

   Quello che mi aiuta, se di aiuto si tratta, e scoprire il granello del comico all'interno dell'orribile e del futile. Studio da cinque anni solenni tomi di teologia, per il mio romanzo, e gran parte della saggezza del Mondo è transitata dalla carta stampata nel mio cervello, per essere qui elaborata e distillata sotto forma di parole nuove: parole che entrano, parole che escono, e, in mezzo, il cervello, che cerca stancamente di trovare un senso in tutto quanto. Comunque, ieri ho cominciato a leggere la voce «Filosofia indiana» sull'Enciclopedia della filosofia, un'opera in otto volumi che stimo molto. Erano le quattro di notte, ed ero esausto; è un'infinità di tempo che lavoro sul mio romanzo in questa maniera.

   E, a un certo punto, ho trovato questo passo.

Gli idealisti buddisti hanno usato varie argomentazioni per dimostrare che la percezione non è una fonte di conoscenza degli oggetti esterni distinta da chi li percepisce... Il mondo esterno si può immaginare composto da una quantità di oggetti diversi, ma possono essere visti come diversi solo perché esistono diversi tipi di esperienze di essi. Ma se le esperienze sono distinguibili in questa maniera, non c’è alcuna necessità di mantenere l'ipotesi superflua di oggetti esterni…
   In altre parole, applicando il rasoio di Ockham al problema epistemologico di fondo Cos'è la realtà?, gli idealisti buddisti giungono alla conclusione che il credere a un mondo esterno è una ipotesi superflua, ossia viola il principio dell'economicità, che sta alla base di tutta la scienza occidentale. Perciò, abolito il mondo esterno, possiamo dedicarci a faccende più importanti... quali che siano.

   Quella notte andai a letto ridendo. Continuai a ridere per un'ora. Sto ridendo ancora. Portiamo la filosofia e la teologia al loro punto estremo (e l'idealismo buddista è probabilmente il punto estremo per entrambe), e cosa ci resta? Niente. Non esiste niente (sono riusciti anche a provare che non esiste l’Io). Come ho detto prima, c'è una sola via d'uscita: vedere tutto come qualcosa di fondamentalmente comico. Anche Kabir, che ho citato prima, vide la danza, la gioia e l'amore come via d'uscita; scrisse una poesia sul suono dei braccialetti ai piedi dell'insetto che cammina. Mi piacerebbe sentire quel suono; forse, se ci riuscissi, la mia rabbia e la mia paura, e la mia pressione alta, sparirebbero.

Philip K. Dick
22 luglio 2014Intersezione ---> CalendarioCOMMENTA__________________________________________Note: 

Questo testo è stato tratto dal numero 896 della collana Urania edito dalla Mondadori, uscito il 12 luglio 1981, pp. 7-20 dal titolo Non saremo noi. Introduceva una raccolta, in due volumi, di racconti inediti di Philip K. Dick. Il secondo volume è uscito il 26 luglio 1981, numero 897 con il titolo Piccola città.
1  Vladimir Nabokov: A proposito di un libro intitolato Lolita2 Alberto Arbasino, Sessanta posizioni, Feltrinelli, Milano, 1971 *
3 P. K. Dick ha avuto cinque matrimoni:
  1. Jeanette Marlin (dal maggio al novembre '48)
  2. Kleo Apostolides (dal 14 giugno 1950 al 1959)
  3. Anne Williams Rubinstein (dall'1 aprile 1959 all'ottobre 1965)
  4. Nancy Hackett (dal 6 luglio 1966 al 1972)
  5. Leslie (Tess) Busby (dal 18 aprile 1973 al 1977)
4  metà febbraio del 1972 lesse un saggio dal titolo L’androide e l’umano all'Università della Columbia Britannica di Vancouver e alla seconda Science Fiction Convention di Vancouver
5 P. K. Dick ha avuto tre figli con tre mogli differenti:
  1. 3° matr. Laura Archer (25 febbraio 1960)
  2. 4° matr. Freya (Isa Dick Hackett ora) (15 marzo 1967). Qui si può leggere un'intervista rilasciata dal figlio
  3. 5° matr.  Christopher Kenneth (25 luglio 1973)

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