127 ore

Creato il 28 febbraio 2011 da Albertogallo

Esiste una categoria di film horror/d’azione – particolarmente diffusa nell’ultimo decennio o giù di lì – che prevede una situazione di blocco fisico del protagonista o dei protagonisti, costretti da cause naturali o no a rimanere intrappolati in un determinato posto (generalmente molto piccolo) per un lungo periodo. Che si tratti di una bara (Buried), di una seggiovia (Frozen) o dell’intero oceano (Open water) lo sviluppo è più o meno sempre lo stesso: i personaggi, di solito giovani, sono spensierati e felici, fino a quando a un certo punto non si accorgono di essere nei guai. Ne consegue panico, poi tentativi di razionalizzazione, poi sconforto, poi generalmente muore qualcuno e alla fine i migliori (o i più fortunati) si salvano. All’interno di questa categoria si possono ulteriormente distinguere altri due tipi di film: quelli rigorosi e quelli fantasiosi. I primi prevedono l’utilizzo di pochissimi mezzi tecnico-narrativi, limitandosi (spesso per ragioni di budget: stiamo parlando di produzioni generalmente non milionarie) a descrivere le azioni dei personaggi e i loro tentativi di salvarsi: non ce n’è per nessuno, lo spettatore è costretto come i protagonisti a stare in quel luogo malefico per tutta la durata del film. L’altra sottocategoria comprende invece i film che preferiscono cinematograficamente fuggire dalle trappole in cui sono intrappolati i personaggi, svolazzando qua e là tra ricordi, sogni, allucinazioni e quant’altro.

A questo genere appartiene anche 127 ore, ultima opera dell’ormai veterano e sempre sorprendente Danny Boyle. Che per raccontarci la storia (vera) di Aron Ralston, rimasto intrappolato con la mano sotto un masso in un canyon americano per cinque giorni, non ha esitato a mettere (appunto) mano a tutta la sua immaginazione, trasformando la più (potenzialmente) statica delle vicende tragicomiche mai accadute a un essere umano in un minestrone audiovisivo ipercinetico e delirante. In questi 90 minuti c’è davvero di tutto: montaggio velocissimo + musica assordante in stile videoclip, passaggi che sembrano uno spot della Gatorade, allucinazioni postpsichedeliche, riprese in stile Google Earth e altre à la National Geographic, tanti colori, tanti suoni e tanto tanto di tanto altro. Il tutto con un approccio narrativo iperamericano/ottimista che sembra urlare Yes we can da tutte le parti, anche quando il povero Aron si trova costretto, per salvarsi la vita, a fare cose che un essere umano non vorrebbe mai fare – e farsi.

Un film fondamentalmente inutile, ma di un’inutilità giocosa e appassionante che non può che contagiare chiunque si approcci a questa pellicola senza troppa puzza sotto il naso. Valore aggiunto: l’interpretazione di James Franco – sì, il buoncattivo di Spider-man recentemente anche nei panni ingombranti ma ben vestiti di Allen Ginsberg. Che, lasciato solo per tre quarti di film (come Tom Hanks in Cast away), se la cava alla grande – sicuramente meglio di quel bietolone di Ryan Reynolds in Buried.

Alberto Gallo



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