13 assassini

Creato il 07 luglio 2011 da Albertogallo

JUUSAN-NIN NO SHIKAKU (Giappone-Uk 2010)

Doveva essere il 2003: primi anni di università, epoca di grandi curiosità e scoperte, entusiasmo a livelli mai più visti e un amore per il cinema che proprio in quei giorni cominciava a sbocciare in tutto il suo splendore. Torino Film Festival, epoca pre-morettiana: roba di nicchia, da cinefili all’ultimo stadio. Un amico appassionato di cultura giapponese mi propone di farci un salto, magari per andare a vedere una pellicola di cui, da un paio d’anni, tanto si parla e che in Italia s’è vista poco. Si tratta di Ichi the killer. Un’esperienza che non avrei mai più dimenticato e che, tempo di uscire dalla sala, farmi passare il disgusto e recuperare la lucidità, mi porta a fare una promessa: giuro a me stesso di non vedere mai più un film di Takashi Miike.

Promessa che ho mantenuto fino a ieri sera.

Ora, 13 assassini con l’iperviolento, ipermoderno, ipercinetico e ipercult pastrocchio di cui sopra non c’entra niente o quasi. Questa volta siamo nel Giappone medievale, quel posto pieno di valorosi guerrieri, donne-geisha sottomesse e scontri tra clan feudali già visto in decine di film nipponici da Kurosawa e Mizoguchi in giù. Tredici samurai (anzi, dodici samurai e un pazzoide trovato in un bosco, forse uno spirito immortale) uniscono le loro forze per uccidere il sadico signorotto Naritsugu, assassino e stupratore che vuole prendere in mano le redini del Paese.

Remake di un’omonima pellicola del 1963, 13 assassini è un bel film di cappa e spada, un’opera che fa del classicismo – un classicismo comunque rivisto in chiave moderna: alcune scene di violenza estrema post-tarantiniana non sarebbero state concepibili negli anni della pellicola originale – e dell’eleganza formale della messa in scena i suoi punti di forza: bellissimi i costumi e le scenografie, splendida la fotografia (specialmente nella prima parte, dominata dai toni scuri e cupi della notte e degli interni delle abitazioni), convincente l’idea di congelare e stilizzare la violenza, che, salvo un paio di scene piuttosto truculente a inizio pellicola, viene spesso relegata nel fuori campo o comunque de-pornografizzata. Difetti: un po’ di confusione narrativa iniziale (passano gli anni ma i volti dei giapponesi continuano a sembrare tutti uguali, specialmente quando sono pettinati tutti alla stessa maniera; e anche i nomi sono difficili da distinguere, per un pubblico occidentale. Se poi gli ideogrammi che compaiono più di una volta nei primi minuti del film fossero stati sottotitolati in italiano o almeno in inglese magari la vicenda sarebbe risultata più facile da seguire) e un certo scollamento tra una prima parte molto drammatica e riflessiva e un secondo tempo che è un susseguirsi ininterrotto di combattimenti. Qualche sforbiciata qua e là non avrebbe guastato, ma il ritmo è comunque piuttosto incalzante.

Sono contento di aver finalmente espiato il trauma di Ichi the killer, una delle esperienze cinematografiche più disgustose della mia vita. Ora sono pronto a recuperare qualcuno degli oltre ottanta film diretti da Miike dal 1991 a oggi. Senza fretta.

Alberto Gallo



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