Interview with the devildi Eleonora Pescarolo Creatura: Thiefling
Si accende una sigaretta. La fiamma dell’accendino balena un istante nella penombra della stanza, illuminando il volto del mio interlocutore. I suoi occhi non mi sembrano diversi da prima: sono scuri, concentrati sulla sigaretta che tiene fra le mani. La pelle ha un colorito olivastro e i lineamenti del volto sembrano rimandare ad una provenienza europea, contornati da una massa di riccioli neri: non avrei alcuna esitazione a credere che sia un uomo piacente, se non fosse per un particolare di cui mi ha appena messo al corrente.Non è umano.Il fumo della sigaretta m’investe e il suo sapore dolciastro penetra nella mia gola riarsa per l’agitazione, facendomi tossire. Il block notes mi scivola dalle mani e cade a terra, seguito subito dalla penna che rotola sul pavimento fino a incontrare la gamba della poltrona sulla quale mi trovo. Mi affretto a chinarmi per raccoglierli. «Mi perdoni, non volevo essere così diretto», prosegue lui. La sua voce è bassa e suadente, il suo atteggiamento troppo pacato perché si tratti di uno scherzo: eppure non può essere altrimenti.«Mi perdoni lei per quanto sto per dirle: sono un freelance, ma non sono un idiota», dico, alzandomi dalla poltrona. «Se permette, ho un lavoro che mi aspetta e di sicuro il mio tempo è troppo prezioso per perderlo in simili puttanate.»Lui si china in avanti sul tavolino e scrolla la sigaretta sul posacenere di cristallo. «Non volevo in alcun modo offenderla. Per favore, si sieda e mi lasci spiegare», mi invita, indicando con un cenno della mano la poltrona da cui mi ero appena alzato. Il mio impulso più impellente è quello di fuggire, di sbattermi la porta di quella camera d’albergo alle spalle insieme a tutta quella assurda storia. Ma non lo faccio. Rimango immobile a guardare quella dannata poltrona e, prima che possa rendermi conto di quello che sto facendo, vi sono già seduto sopra.Il mio interlocutore si prende qualche secondo per assaporare il fumo della sua sigaretta, quindi prosegue: «Le assicuro che quanto le ho appena detto è vero e sono più che sicuro che lei abbia una mentalità sufficientemente aperta da accettarlo, altrimenti non l’avrei contattata.»Ridacchio, ma è una risata isterica. Mi ricompongo simulando un colpo di tosse. Decido di stare al gioco, certo che prima o poi questa messa in scena avrà termine.«Mi faccia capire», dico, appoggiando il block notes sopra il tavolino, accanto al posacenere e ad un vaso di fiori essiccati. «Lei dice di non essere umano. Che cosa sarebbe, allora? Un alieno? L’ennesimo esperimento governativo andato male?»Un sorriso si apre sul suo volto. Per un attimo, nella penombra, i suoi occhi sembrano balenare di un riflesso cremisi. «Niente di tutto questo», risponde. «Niente che lei possa conoscere. Niente che appartenga a questo universo.»Riprendo in mano il block notes, mi sistemo sulla poltrona di pelle, che emette suoni sinistri mentre mi sposto. Questa situazione comincia a irritarmi, più che mettermi a disagio.«Che cosa vorrebbe dire “questo universo”? Se venisse da un altro pianeta, lei sarebbe un alieno», incalzo. Cerco di metterlo in difficoltà, in modo che arrivi a contraddirsi e a svelare così quella sceneggiata. Comincio a chiedermi chi possa averla organizzata, ma giungo alla conclusione che probabilmente si tratta solo di un povero pazzo. «Le ho già detto che non sono un alieno», dice lui, appoggiando i gomiti sulla sua poltrona. «Intendo dire che non appartengo a questo universo. Ha mai sentito parlare della teoria del multiverso?» Trattengo a stento una risata. Ho la conferma che è un completo svitato. «Quella che parla dell’esistenza di una serie infinita di universi paralleli?»«Preferisco chiamarli “piani di esistenza”, piuttosto che universi paralleli. E per la verità, non sono infiniti.» Il mio interlocutore spegne la sigaretta sul posacenere con un gesto veloce e deciso. «Io provengo da un altro piano d’esistenza. Sono stato scagliato qui secoli fa, intrappolato in questo schifo di piano di esistenza. Io era un essere molto potente, da dove venivo: e di colpo mi sono trovato qui. Così umano, così debole.»Si guarda le mani, prima il dorso e poi i palmi, come se si aspettasse di vedere cambiare qualcosa. Le stringe a pugno e poi le riapre, con lo sguardo concentrato e la bocca ridotta ad una fessura.«Scagliato qui?», chiedo. La sua storia è piena di cliché, ma dallo sguardo mi sembra convinto delle sue parole: e se c’è una cosa che so, è che bisogna assecondare le fantasie di un pazzo se quel pazzo è pericoloso. E lui aveva l’aria di esserlo parecchio.Si ricompone, schiarendosi la voce e appoggiandosi allo schienale della poltrona. I suoi occhi balenano per un attimo, colpiti dalle luci della città che filtrano dalle finestre e ancora ho l’impressione di scorgervi qualcosa. «Andiamo per ordine», disse. «Innanzi tutto, sono certo che lei avrà sentito parlare di patti stretti con demoni, storie appartenenti alle tradizioni folkloristiche di tutto il mondo.»«Nient’altro che superstizioni», affermo, simulando un certo disinteresse quando sento un brivido attraversarmi la schiena. È pazzo, non c’è dubbio.«Tutt’altro», dice. «Sa, la questione del patto non appartiene solo a questo piano di esistenza. Le consiglio di prendere nota, non vorrei si perdesse il punto più importante del discorso.»Mi rendo conto in quel momento che non sto affatto scrivendo. Impugno la penna, ma la tamburello in modo nervoso contro il bordo del block notes. «Io sono il risultato di un patto che la razza della mia dimensione strinse con quella dei demoni. Questo aveva fatto di me quasi un dio, nella vostra ottica e nell’ottica: potevo governare gli elementi, soprattutto il fuoco, e la gente mi temeva e mi adorava. La mia fama era tale che è passata anche nelle altre dimensioni, la sua compresa», spiega. Mentre scrivo, sento il suo sguardo su di me e questo porta le mie mani a tremare. La mia fama era tale da passare anche nelle altre dimensioni, la sua compresa. La mia penna si ferma. Una malsana idea attraversa la mia testa. Sto davvero dando retta a questo pazzo?«Mia dimensione? Vuol dire che…?»Lui si lascia sfuggire una risata, una risata controllata e piacevole. «Sì, sono esattamente chi lei pensa che io sia. La mia cadutaha dato origine a miti e leggende di tutto il mondo, mi sono dati tanti di quei nomi da averne perso il conto. Ma questa è un’altra storia.»Torno a guardare il mio block notes. Sento il battito del mio cuore in gola. Sto davvero parlando con il demonio?«Ad ogni modo, per rispondere alla sua domanda, io venni ingannato. Ero divenuto troppo potente, a fronte anche della mia natura interplanare, e il mio nemico giurato decise di scagliarmi in questa dimensione e intrappolarmi qui. Ero troppo accecato dalla sete del potere per non rendermi conto della trappola che mi aveva teso ed era troppo tardi quando compresi il piano di quel dannato Aasimar. Provai a tornare indietro, ma subito mi resi conto che non era possibile.»«Aasimar?», ripeto, perplesso.Lui sorride come una madre sorride al figlio che non riesce a capire quanto gli viene detto. «Mi perdoni, ancora ricordo il linguaggio del mio universo. La gente chiamava così le creature nate da un patto con un angelo.Io invece venivo designato come tiefling.»Angeli. Demoni. Un demone che precipita. La mia curiosità è accesa, ma ormai sono certo che la pagliacciata sia giunta al termine. Cerco di soffocare una risata, ma non posso trattenermi dal sfoggiare sul volto una espressione divertita. «Scommetto che non potete dimostrare che siete un “tiefling” perché la vostra forma è ormai mutata per sempre, non è così?»«Per la verità, posso farlo.» Contro ogni mia aspettativa, lui dice queste parole accendendosi un’altra sigaretta. «Alle vostre spalle, guardate.»Mi volto. Dalla parte opposta della porta, una stoffa copre qualcosa di alto e rivolto alle poltrone dove siamo accomodati.«È solo uno specchio», dice per rassicurarmi. «Si alzi e tolga pure la coperta.»«Perché vuole che lo faccia?», chiedo. Appoggio il block notes e la penna sul tavolo. Sono ormai certo che sotto quella coperta ci sia l’autore della messa in scena imbastita da questo tipo che finge di essere Satana e che è seduto di fronte a me.«Lei lo faccia e basta», risponde. «E comincerà a credere. Sa, le leggende sono nate per un motivo: alcuni specchi non sono solo specchi, non riflettono solo questo piano di esistenza.»Scuoto la testa fra me e me. Non poteva essere niente di più banale. A grandi passi, mi avvicino alla stoffa. Quando l’afferro, sento che è pesante e impolverata e con un colpo di tosse scaccio la sensazione di pesantezza al respiro. La faccio cadere. All’inizio vedo il mio volto, un po’ pallido nella penombra e con una leggera barba che mi copre il mento. Il mio sguardo cade poi sul riflesso del mio interlocutore, seduto sulla poltrona alle mie spalle. La prima cosa che noto sono i suoi occhi, completamente neri. Dai lati della testa due corna si arricciano verso l’alto, coperte in parte da una massa di lunghi capelli scuri. Le mani sono lunghe, affusolate e terminanti con dei lunghi artigli affilati e neri. I suoi vestiti non coprono delle lunghe zampe simile a quelle di un capro. Una immagine che conosco: il mio interlocutore è davvero chi dice di essere. Non riesco a trattenermi dal gridare. Indietreggio, senza togliere gli occhi dallo specchio, mentre dal riflesso lui sorride. Inciampo sulla poltrona e cado, battendo la testa contro il tavolo. Il colpo fa esplodere la mia vista in un turbinio di luci, il dolore mi scende lungo la spina dorsale. Il block notes cade accanto alla mia mano. Mi rialzo tenendomi la testa con le mani, in preda all’isterismo mi dirigo verso la porta. La mia testa è occupata dal solo pensiero di fuggire. Provo ad aprire la porta, ma è bloccata. «Le è caduto questo.»Con un urlo, mi accorgo che il mio interlocutore è al mio fianco; con una mano, mi porgeva il mio block notes. «Che scherzo è mai questo?!», grido. Mi giro di nuovo verso lo specchio: ma la sua immagine non è mutata. «Perché mi hai chiamato? Che cosa vuoi da me? Perché hai chiamato me?» Indietreggio. Non posso credere ai miei occhi.«Perché non lei?», mi dice, scrollando le spalle. «Lei era scettico, la persona che stavo cercando.»«Per cosa?!»«Per divertirmi. Sa, tutta la storia mitologica di contorno è un po’ frutto di esagerazioni, ma una cosa su di me è vera: il male che rappresento. Il piacere che traggo nell’uccidervi è un sollievo per questa condizione di prigionia, ma non sarà mai paragonabile al divertimento che provo nel conversare con voi prima di annichilire la vostra anima.»«Quindi, io…?»Il mio cervello non formula altro pensiero. Sento solo le sue mani che mi afferrano i lati della testa. Posso sentire quelle unghie lunghe e affilate che ho visto nello specchio penetrarmi nella carne. Il mio collo fa uno sonoro schiocco mentre si spezza. Il resto è buio.